
Venendo più nello specifico alle condizioni in cui si combattè la guerra, bisogna subito sottolineare come questa si presentò, quasi da subito, ben diversa rispetto alla passeggiata descritta dalla propaganda. Il 5 ottobre 1911 un contingente di 1732 marinai italiani sbarcò a Tripoli dopo un intenso bombardamento navale e rapidamente conquisto il centro urbano. Ma già il 23 ottobre del 1911 a Sciara Sciat e nell’oasi di Tripoli le linee italiane furono attaccate a sorpresa dalle truppe turco-arabe. L’offensiva proseguì il 26 ottobre, portando alla decimazione del contingente di occupazione. Il territorio perso venne recuperato soltanto con operazioni successive di incursione e consolidamento che costarono un poderoso impegno di materiali e mezzi nonché ulteriori perdite umane. La reazione italiana si caratterizzò attraverso una violenta repressione, fatta di esecuzioni sommarie, violenze indiscriminate e deportazione di centinaia di ribelli libici. La «passeggiata militare» verso l’occupazione della Libia assumeva la fisionomia di una tragedia brutale e inaspettata. Il nemico, apparentemente invisibile e spietato, costrinse i soldati italiani a una guerra per la quale non erano preparati e, presto, in misura sempre più rilevante emersero le allucinazioni, i deliri, spunti depressivi e traumi vari. Di lì a poco il teatro di guerra si allargò alla Cirenaica, con la conquista delle città costiere di Tobruk, Bengasi e, successivamente, con la presa di Derna. Cadute le principali piazzeforti litoranee, la resistenza turco-araba si concentrò soprattutto in quest’area e nel Fezzan. I combattimenti furono sempre più violenti, asimmetrici e improntati alle logiche della guerriglia. La morte divenne per i soldati italiani una presenza costante e i disturbi psicopatologici si moltiplicarono. Tutto ciò pose in allarme le autorità militari che, comunque, cercarono di ridimensionare la questione, ma soprattutto i medici presenti, poco preparati per affrontare quello che appariva come un fenomeno inedito, dalle coordinate non chiaramente identificabili.
Quali sentimenti provano i combattenti?
Non è semplice ricostruire i sentimenti provati dai combattenti e in tal senso sono decisive le lettere scritte proprio dai soldati e di cui si è occupato ampiamente Graziano Mamone in Soldati italiani in Libia. Trauma, scrittura, memoria (1911-1912) [Unicopli]. La corrispondenza ci dice che i militari furono traumatizzati dalla violenza del conflitto e per non soccombere si affidarono alla scrittura, vissuta come come un’ancora di salvezza contro la solitudine, la paura di morire e la spersonalizzazione. I militari scrivevano per rinsaldare i legami famigliari, per sentire vicini i genitori, i figli e le persone care e, dunque, in un certo senso per evadere dalla brutalità del conflitto. Emerge chiara dalla corrispondenza la dimensione terribile e insieme epica del conflitto, ma anche il desiderio di tornare a casa, il bisogno di essere consolati per le atrocità commesse, il dolore per la morte dei commilitoni, la rabbia contro quelli che, in linea con la propaganda coloniale, venivano ritenuti degli essere inferiori – «simili alle bestie» – e, più in generale, lo smarrimento per un conflitto immaginato semplice e glorioso e invece rivelatosi violento, sporco, ingiusto e lacerante. Lo stesso paesaggio libico era una dimensione perturbante la cui percezione mutò secondo l’andamento del conflitto. Inizialmente percepito come una «Terra Promessa», un giardino paradisiaco che aspettava solo di essere ripopolato, dopo lo sbarco assunse i contorni di un inferno caldo e assolato, un deserto di sabbia e poco altro, spazio della disillusione e del delirio.
A quali problematiche mentali vanno incontro i soldati?
Il portato traumatico del conflitto per la conquista della Libia sconvolse le menti di molti combattenti. I principali effetti furono la spersonalizzazione, l’alterazione delle capacità percettive, l’emergere di spunti melanconici, gli incubi e i deliri. Diversi soldati caddero poi in condizioni di mutismo, altri viceversa si producevano in stati logorroici confusi e distorti. In tutti i casi, e nonostante la documentazione disponibile non ci consenta di indagare fino in fondo tali condizioni, per molti di questi soldati fu un’esperienza distruttiva, un processo di derealizzazione costante e talvolta irreversibile. I casi più gravi furono proprio quelli in cui si verificò una scomposizione progressiva dell’io, al tempo diagnosticata sotto la voce di «dementia praecox», una categoria rese celebre dall’alienista Emil Kraepelin (1856-1926). In questi casi si registrava un impoverimento con conseguente devastazione dell’intera vita psichica in modo progressivo e impercettibile. In alcune situazioni particolarmente critiche tutto ciò era accompagnato da esaltazione, allucinazioni, deliri fantastici. Proprio questi ultimi erano legati al sintomo più evidente evidenziato dai soldati traumatizzati dal conflitto, anche quelli con un decorso passeggero, vale a dire l’emergere di incubi e ricordi intrusivi negativi. Le scene di battaglie, il sangue, la morte, popolavano i ricordi dei militari fino a divenire allucinazioni visive ed uditive. Diversi combattenti mostravano turbe sensoriali, rivivevano nella mente i momenti peggiori della propria esperienza bellica. Paure che sconfinavano nei sogni, anche a occhi aperti: corpi straziati, membra oltraggiate, aggressioni notturne e, su tutto, una insostenibile paura di morire. A ciò, spesso, i soldati reagivano rivivendo i momenti del conflitto. Come nel caso di un fante costretto ad assumere dei farmaci per dormire, il quale nel pieno della notte si destava di soprassalto dopo aver sognato avamposti, fucilate e colpi di cannone. Un altro militare ricoverato, in preda agli incubi, fuggiva verso un angolo della stanza, si rannicchiava spaventato e tremante, con gli occhi sbarrati. Un soldato, invece, era così scosso dai propri incubi che una volta sveglio proseguiva nel delirio d’azione, riviveva scene di guerra e le rappresentava con mosse e parole. Sconvolto nel volto e nella gestualità affrontava nemici immaginari, mimava l’attacco o lo scontro a fuoco, gridava e impartiva ordini sconnessi. Tutto questo per dieci ore consecutive, finché le energie glielo consentivano. A tali comportamenti facevano talvolta seguito reazioni fisiologiche incontrollabili e comunque legate all’evocazione del trauma. Tra queste le più frequenti erano il pianto, la defecazione involontaria o la perdita delle urine. La strategia più comune adottata dai soldati fu quella della negazione e dell’evitamento che si tradusse soprattutto in un voler evitare i commilitoni, il campo di battaglia e in una chiusura di stampo autistico. Tutto ciò produceva, in un circolo vizioso difficile da interrompere, altri comportamenti disfunzionali e credenze paranoiche. Alcuni divennero sospettosi, invidiosi e giudicavano con timore il comportamento dei commilitoni ma anche quello degli ufficiali. Altri rifiutavano di alimentarsi credendo che qualcuno volesse avvelenarli con il cibo. Al sospetto seguiva la depressione, infine il delirio persecutorio. Questo degenerava rapidamente in azioni pericolose ed impulsi aggressivi. Un altro dei sintomi più ricorrenti era lo stato catatonico: espressioni immobili, sguardi persi nel vuoto, perdita di contatto con la realtà. Come nel caso di un militare che dopo aver preso parte ad un combattimento divenne melanconico e confuso. Si ritirò in una condizione di mutismo e di apparente arresto intellettivo fino a giungere a una grave condizione depressiva. In altri casi, invece, i soldati erano animati da ipervigilanza e aggressività costante: esplosioni di rabbia contenute a fatica dalle camicie di forza che potevano sfociare in gesti di autolesionismo fino al vero e proprio tentato suicidio. Come un soldato che cercò di uccidersi bevendo un calamaio pieno d’inchiostro o un altro che cercò di annegare gettandosi a mare. Soprattutto questi ultimi casi mostrano la condizione di disperazione raggiunta a causa della violenza, della brutalità e dell’orrore bellico che, comunque, quando non uccise segnò, spesso definitivamente, la psiche di molti combattenti.
Come si sviluppa lo studio e la riflessione scientifica sul trauma bellico dei militari italiani in Libia?
I primi a confrontarsi con i traumi bellici dei soldati furono i medici in prima linea e il personale militare. Ancora nel 1911, però, l’esercito italiano non aveva un Servizio neuropsichiatrico militare (che sarebbe stato organizzato, sotto il peso degli eventi, solo durante la Grande guerra) e questo influì negativamente sull’atteggiamento tenuto nei confronti del fenomeno. Più in generale la questione dei disturbi psicopatologici prodotti dalla vita in caserma, o dal clima della battaglia, non aveva riscosso fino a quel momento particolare attenzione tra i medici dell’esercito e questo perché i soldati che mostravano disturbi mentali venivano dapprima inviati in osservazione presso gli ospedali militari e da qui, qualora i sintomi persistessero, in manicomio. Questo voleva dire che, nonostante i soldati anche durante il periodo di ricovero, continuassero formalmente a dipendere dalle forze armate, di fatto non erano più queste ultime ad occuparsene. Piuttosto erano gli alienisti civili che se ne facevano carico, effettuavano diagnosi, prescrivevano le “terapie”. Inoltre, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, complice una serie di fattori riguardanti il dibattito psichiatrico e criminologico, il controllo delle «classi pericolose» e alcuni episodi di cronaca dal forte impatto sull’opinione pubblica, si era verificata una marcata criminalizzazione della devianza nell’esercito. Ciò si tradusse in una sottovalutazione sul piano medico dei disturbi mentali lamentati dai soldati e nell’adozione di paradigmi, quali la predisposizione e la degenerazione, che afferivano all’ambito criminologico. Volendo sintetizzare oltremodo: il soldato disturbato era innanzitutto un simulatore o, nei casi in cui i sintomi non potevano essere spiegati così, un predisposto alla malattia mentale per cause organiche e familiari. Completamente esclusa era la possibilità che la vita in caserma, l’esercito o le condizioni stressanti del conflitto, fossero cause dell’insorgenza del disagio mentale.
Anche i medici che affrontarono, e in seguito analizzarono, i sintomi evidenziati dai soldati durante il conflitto in Libia utilizzarono perlopiù lenti diagnostiche segnate dai paradigmi criminologici menzionati. Gli sconvolgimenti che avevano obnubilato la ragione dei soldati erano la conseguenza di quadri diagnostici già compromessi, anche se non evidenti. Eppure, durante il conflitto, il dubbio che la situazione potesse essere più complessa lentamente si fece strada tra le considerazioni dei medici. Come mostrano le parole del direttore dell’Istituto delle malattie nervose e mentali e di antropologia criminale della Regia Università degli Studi di Catania D’Abundo che affermava che tra le indagini che dovevano essere svolte c’era quella che riguardava l’eventuale capacità degli stati di commozione «di determinare delle neuro-psicopatie nei combattenti». Inoltre, sempre D’Abundo, sosteneva di aver basato le proprie indagini su un ventaglio di una cinquantina di militari, ma che in realtà il numero dei potenziali alienati era molto più consistente e che diversi erano stati tralasciati per l’impossibilità di ricostruire l’anamnesi e notizie cliniche sufficienti. Questo significava che quasi certamente molti più soldati rispetto a quelli analizzati erano affetti da disturbi mentali, ma per diversi motivi erano sfuggiti alle rilevazioni, di fatto falsandole.
In definitiva se l’utilizzo dei concetti di predisposizione e degenerazione evidenzia tutta la riluttanza dei medici ad accettare l’idea che la guerra e la vita militare potessero rappresentare cause dell’insorgenza del disagio mentale, alcuni segnali mostrano che il dubbio che dietro le neuropatie dei soldati ci fosse altro venne quantomeno contemplato, anche se timidamente, dai medici. Per molti versi la situazione si sarebbe ripetuta durante la Grande guerra quando a una prima fase di negazione fece seguito una lenta e timida apertura tendente a riconoscere la complessità della questione.
Quale importanza riveste lo studio della psichiatria militare nell’ambito della storiografia sul conflitto coloniale?
Innanzitutto – come abbiamo cercato di mostrare nel libro – lo studio della psichiatria militare e delle psicopatologie da guerra in relazione al conflitto libico è importante, soprattutto per il caso italiano, perché mostra che medici e alienisti si dovettero confrontare già “oltremare” con tutta una serie di fenomeni che si sarebbero palesati con maggiore evidenza durante la Grande guerra – lo shell shock su tutti, argomento che tratto in un libro di prossima uscita. Accanto a ciò bisogna considerare che le autorità italiane impegnate nella guerra di Libia si posero anche il problema di come affrontare, e quindi curare, le patologie mentali di una popolazione che l’immaginario coloniale pensava nei termini di una radicale alterità e inferiorità. Un conflitto coloniale comportava tra le sue conseguenze quella di doversi fare carico del presunto percorso di civilizzazione della popolazione locale e l’assistenza della popolazione alienata locale, secondo canoni moderni e scientifici, rientrava in ciò. Eppure le difficoltà che si presentarono ai medici e alle autorità italiane furono da subito numerose. Tali difficoltà erano in buon parte proprio legate alla rappresentazione coloniale che innervava il loro immaginario. La propaganda colonialista degli anni che precedettero il conflitto aveva assunto toni sempre più razzisti che si indirizzarono tanto verso i turchi, ritenuti responsabili dell’arretratezza e del fanatismo religioso delle popolazioni berbere, quanto verso i libici descritti come un insieme disperso di popolazioni etnicamente inferiori. Tali rappresentazioni si agitavano sullo sfondo di gerarchie razziali sempre più evidenti e condivise, e che facevano sostenere a un intellettuale come Scipio Sighele, psicologo e criminologo, che «nessuna evoluzione o rivoluzione storica potrà mai rendere identici i popoli di razza bianca a quelli di razza nera». Gli indigeni erano per definizione selvaggi, violenti e per questo più simili alle bestie che agli uomini civili. Non avevano onore ed erano sempre pronti a tradire. Inoltre erano sporchi, nemici della civiltà, ignoranti e superstiziosi. Tali stereotipi plasmavano a fondo la mentalità dei soldati italiani, come mostrano le parole del militare Omero Bonelli che scriveva: «gli abitanti sono così brutti e sembra perfino impossibile che la natura abbia creato esseri tanto orribili. Questa gente che non conobbe mai la civiltà […], rassomiglia e fa come le belve della foresta». Tali rappresentazioni caricaturali avevano lo scopo di sminuire il valore dei libici, e quindi per rovescio di far risaltare la mascolinità e la fierezza del soldato italiano, ma più a fondo rispondevano a immagini da tempo interiorizzate nella mentalità collettiva coloniale. Erano immagini che rispondevano a una logica dicotomica tanto elementare, quanto retoricamente efficace: da una parte c’era la civiltà dall’altra la bestialità; da un lato la virilità e la fierezza della razza superiore, dall’altra l’inferiorità subumana di individui che «strisciano per terra come le serpi ed emettono grida come un branco di belve affamate». In fondo tutte rispondevano alla dialettica binaria tra normalità e anormalità. E proprio lo studio del vissuto psicologico dei soldati può aiutarci a portare alla luce con più profondità tale dicotomia deve essere portata alla luce. Per rispondere dunque alla domanda posta, lo studio della psichiatria militare, dell’uso di categorie diagnostiche che rifiutavano la possibilità della guerra come causa scatenante della malattia mentale, è importante perché permette di decostruire un immaginario e una mentalità che, al pari di quelle coloniali, erano inquinate da narrazioni e rappresentazioni funzionali a rafforzare una precisa immagine di italiano (fiero, virile, coraggioso). A sua volta effetto di un processo di costruzione nazionale al tempo ancora problematico e, in buona parte, da definire.