“(De)scrivere la Cina in viaggio. Voci, testi, mezzi” di Stefano Calzati

Prof. Stefano Calzati, Lei è autore del libro (De)scrivere la Cina in viaggio. Voci, testi, mezzi edito da FrancoAngeli: qual è oggi il valore culturale della letteratura odeporica?
(De)scrivere la Cina in viaggio. Voci, testi, mezzi, Stefano CalzatiIl valore culturale è probabilmente maggiore oggi che non in passato, poiché, paradossalmente, è un valore che viene eroso e contestato da una serie di circostanze. In passato, diciamo fino alla prima metà del 20esimo secolo, la letteratura odeporica aveva o un valore prettamente didascalico – ovvero presentare al lettore “domestico” terre e popoli lontani, arrivando quindi a stabilire, implicitamente, uno standard di lettura dell’Altro – oppure di evasione, ovvero si trattava di libri che letteralmente facevano viaggiare l’immaginazione del lettore, pur presumendo che tale “viaggio” si ancorasse al “reale” (è da questo secondo aspetto valoriale che deriva un certo confinamento della letteratura di viaggio come genere “secondario”, col quale scrittori, intellettuali, giornalisti, diplomatici si cimentavano quasi con disimpegno).

Tra questi due poli – funzione didascalica ed evasiva – si apriva tutta una serie di varianti che avevano a che fare principalmente con il grado (presunto o rivendicato) di obiettività, accuratezza e fedeltà di ciò che il viaggiatore-scrittore andava raccontando. Alla base, in fondo, c’era il presupposto che il viaggio fosse accessibile a una cerchia ristretta di persone, per ragioni economiche, di tempo, contatti, compiti professionali, interessi. Sicché il patto fiduciario tra il lettore e il viaggiatore-scrittore era un patto non solo narrativo/testuale, ma etico. Un vero e proprio trust la cui garanzia era lo status di chi poteva permettersi di viaggiare (una discussione sulla potenziale falsificazione dei racconti di viaggio non è qui in questione; ciò che si vuole sottolineare è una certa ristrettezza e verticalità del patto).

Oggi, con il boom del turismo a livello globale, il miglioramento delle condizioni del viaggio, dei mezzi di trasporto, nonché l’inclusione all’interno degli itinerari del viaggio di mete fino a qualche decennio fa poco battute – si pensi al Medio Oriente o al Sudest asiatico – questo patto è divenuto più orizzontale, aperto al dialogo, al confronto, il che significa una possibile verifica o smentita da parte del lettore (che si è fatto anch’esso viaggiatore) di ciò che viene testimoniato dallo scrittore. Si badi bene che non si tratta necessariamente di una verifica/smentita su base epistemologica, bensì dell’emergere di una pluralità di voci che vanno a comporre la figura dell’Altro in modo intrinsecamente poliedrico, caleidoscopico. Ciò che sappiamo del viaggio e attraverso il viaggio viene democratizzato, ma anche, inevitabilmente, aperto alla provvisorietà e precarietà, che vanno di pari passo con l’accelerazione al cambiamento che la globalizzazione ha impresso su contesti, società e culture che prima si pensavano come ben codificate.

Ecco quindi che oggi più che mai il viaggio acquisisce un valore culturale essenziale, eppure estremamente contestato e contestabile. In questo cambio paradigmatico, il mezzo gioca un ruolo cruciale: la possibilità per chiunque non solo di viaggiare, ma anche di pubblicare i propri resoconti di viaggio attraverso le piattaforme digitali, ha completamente riscritto (un termine usato di proposito) cosa significa viaggiare, conoscere e riconoscere la diversità, nonché scriverne, ovvero farne e porne testimonianza. Da un lato queste varie declinazioni mediali della scrittura odeporica la rendono estremamente ricca e variegata – le voci si moltiplicano – dall’altro lato, però, a ben vedere, sul genere cala una certa uniformità stilistica dovuta al fatto non solo che il racconto si installa su piattaforme rigidamente codificate, ma anche che il le prassi del viaggio si fanno sempre più intense e, dunque, omogenee. Viaggiare e scrivere diversamente è sempre più difficile, se non altro perché richiede un tempo creativo e di gestazione dell’esperienza che contrasta con la velocità dei flussi informativi in cui siamo immersi.

A tal riguardo è senza dubbio interessante vedere come la pandemia sta impattando e impatterà sulla scrittura di viaggio in tutte le sue forme, giacché la drastica limitazione alla possibilità di viaggiare potrebbe in qualche modo riavvicinare il genere alla sua forma più tradizionale e moderna.

In che modo il genere è influenzato dalla comunicazione istantanea tipica delle tecnologie digitali?
Alcuni spunti di riflessione sono già contenuti nella precedente risposta. Come base di partenza bisogna dire che le piattaforme digitali – dai blog ai social networks alle apps – hanno spalancato a un numero immenso di persone – che prima erano “solo” lettori – la possibilità di vedere i propri racconti di viaggio – oggi si direbbe “stories on the road” – pubblicati e disseminati. E questo con estrema facilità – queste piattaforme sono estremamente intuitive – rapidità – si può pubblicare qualsiasi cosa seduta stante – e capillarità – questi racconti possono potenzialmente raggiungere ampie schiere di amici, contatti, lettori.

Detto ciò, però, la realtà è più complesse e articolata di ciò che sembra. Innanzitutto le suddette caratteristiche dei mezzi digitali non hanno solo un impatto su come si racconta un viaggio, ma anche sulla funzione del viaggio stesso e della scrittura in senso lato. Sempre più spesso, la scrittura è tradotta in immagini e il senso di mobilità è congelato in istanti – la famosa geolocalizzazione – le quali e i quali riconfigurano completamente il senso del viaggiare e del darne testimonianza. A una funzione conoscitiva se ne sostituisce una ego-affermativa; ad una di scoperta dei luoghi se ne accompagna una di mappatura dello spazio; ad una di sprofondamento nella durata del viaggio, se ne associa una di sequenziamento del tempo. In altre parole, le piattaforme digitali rendono il viaggiare e lo scrivere gesti, più che pratiche; istanze, più che processi. Ciò che i racconti di viaggio mediati dalle piattaforme digitali dicono è: “chiunque può farlo!” (non solo viaggiare, ma anche scriverne, e trarne da entrambi approvazione sociale, se non guadagno economico). Da questo presupposto si evince che, mentre la letteratura di viaggio tradizionale tendeva a soddisfare la curiosità per l’Altro, i racconti di viaggio per il digitale, al contrario, suscitano la voglia di viaggiare, di essere protagonisti nel mondo.

Allo stesso tempo, però, quanto detto deve essere messo in prospettiva. Quanto proposto, infatti, è un confronto orizzontale tra prima e dopo, tra tradizione e innovazione, ma si tratta di un modo, tra gli altri, di leggere la mutazione del genere odeporico attraverso le nuove piattaforme digitali. Ciò che spesso non si fa è avanzare uno studio etnografico, sul campo, a riprova o smentita di queste tendenze. Le interviste contenute nel volume fanno proprio questo e mostrano, in effetti, che il “divide” tra prima e dopo, analogico e digitale (così come tra Occidente e Oriente) non è cosi netto come si tende a credere. Molti scrittori di viaggio sono anche bloggers, influencers, autori per il Web e per siti di informazione online, sicché il loro modo di declinare il racconto di viaggio viene sì, influenzato dal mezzo, ma a contempo trova una sua coerenza interna che solo uno studio intermediale e etnografico possono portare alla luce. Basti pensare che non è raro che certi scrittori dedichino ore di lavoro prima di arrivare a pubblicare qualcosa online, mostrando un’attenzione che stride con l’idea delle piattaforme digitali come canali dell’istantaneità. Paradossalmente, dalle interviste è emerso che bloggers cinesi si avvicinano alla tradizione del genere odeporico (cinese) – focalizzato molto sulla descrizione degli senari, più che sulla mobilità del viaggiatore – molto più dei loro colleghi che pubblicano libri. La scelta del mezzo influenza il modo di scrivere del/sul viaggio, ma anche il modo stesso in cui il viaggio è progettato e portato a termine.

Il Suo libro offre un confronto tra libri e blog di viaggio contemporanei dedicati alla Cina, scritti da autori di varia provenienza: che rapporto esiste tra le odierne forme di mobilità turistica e le tradizionali e nuove forme di scrittura e testualizzazione?
E qui si arriva alla terza domanda. Il punto da tenere a mente è che esperienza e tecnologia vanno di pari passo. È inutile chiedersi cosa influenza cosa; molto più utile è esplorarne la sinergia, ovvero ciò a cui danno vita, i contenuti che sprigionano. In una certa misura chiedersi come il genere odeporico era prima e come è adesso è solo parzialmente utile: nel momento in cui cambia il mezzo – oppure nel momento in cui nuove opportunità di viaggio si aprono, come nuove frontiere, nuovi mezzi di comunicazione – l’intero orizzonte del racconto odeporico viene ridisegnato. Ci sono, certo, alcuni stili e registri che perdurano, ovvero alcuni elementi di continuità, non foss’altro perché il mondo è uno e le lingue tendono a variare secondo tempi medio-lunghi. Eppure, davvero, come diceva McLuhan, il mezzo è il messaggio e, oserei direi, nel caso della scrittura di viaggio il mezzo fa il genere e fa il viaggio. Sicché, di nuovo, è solo attraverso un’analisi in profondità, etnografica, fatta di carne e voci e realpolitik che si può davvero dare sostanza all’idea di cambiamento a cui la scrittura di viaggio è continuamente soggetta. Ma per fare ciò bisogna considerare la scrittura e il viaggio come pratiche sociali a tutto tondo: solo così si può arrivare a scoprire che tra turismo e viaggio non c’è alcuna differenza spaziale e temporale, ma modale, di attitudine; solo così si possono rintracciare similitudini tra forme mediali diverse – si veda l’esempio precedente tra bloggers cinesi e viaggiatori-scrittori cinesi della tradizione – e differenze all’interno dello stesso “mezzo”; solo così si può davvero apprezzare quanto, per un giovane scrittore e viaggiatore di Hong Kong visitare la Cin continentale sia davvero un’esperienza “altra”, a prescindere dalla (presunta) vicinanza culturale, oppure quanto, per un cinese della Cina continentale, viaggiare all’interno del paese permetta d re-immaginarlo secondo criteri estetici e culturali che sfuggono completamente al viaggiatore di passaggio. In altre parole, non solo il mezzo è consustanziale al genere, ma non appena si concepiscano il viaggiare e lo scrivere come pratiche sociali, la biografia di ogni singolo autore entra in gioco e ha un ruolo determinante nel dettare la concezione del viaggio e la sua testualizzazione. Il volume (De)scrivere La Cina in viaggio: voci testi mezzi, parte proprio da questo assunto e ne la riscontro attraverso un lavoro sui testi e con gli autori.

Stefano Calzati è attualmente Postdoc Fellow alla Tallinn University of Technology e assistente al Politecnico di Milano. Ha conseguito il dottorato in Cultural Studies all’Università di Leeds e ha insegnato a Hong Kong presso la City University e la Chinese University. Tra le sue pubblicazioni: Phillip Lopate, una vita allo schermo. Riflessioni sul cinema da un maestro americano del personal essay (2019) e il romanzo-reportage In Vietnam. Digressioni di viaggio (2018).

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