
La tecnologia ha generato una sorta di cyber-ottimismo democratico, come Lei stesso lo definisce?
Fin dagli ultimi decenni del Novecento, le tecnologie digitali sono state considerate come un mezzo per neutralizzare le difficoltà di ordine logistico e temporale che sempre hanno impedito ai cittadini delle democrazie moderne di partecipare direttamente al governo della cosa pubblica. Con l’avvento di Internet, le previsioni circa un’imminente rivoluzione nelle istituzioni democratiche raggiunsero l’acme, e preconizzarono l’indebolimento delle tradizionali strutture di potere, la possibilità per i cittadini di contribuire direttamente alla determinazione dell’agenda politica e all’adozione delle relative decisioni, l’aumento della partecipazione politica, il miglioramento della qualità della deliberazione democratica ecc. Si immaginò che la possibilità di comunicare in tempo reale senza limiti di spazio avrebbe permesso a cittadini e istituzioni di interagire più regolarmente e apertamente, con benefici sui sia sul versante della aderenza delle decisioni politiche alle istanze provenienti “dal basso”, sia su quello della soddisfazione complessiva dei cittadini per le scelte pubbliche. Le ICT avrebbero dovuto poi avere effetti benefici sul pluralismo democratico, grazie a un’informazione politica finalmente sottratta a ogni forma di monopolio e controllo dei “poteri forti”, fatta dai cittadini per i cittadini e passante per siti web amatoriali, piattaforme di blogging e social network fruibili gratuitamente da chiunque sia sul lato attivo (per informare) sia su quello passivo (per essere informati).
Con l’avvento del nuovo millennio, le speranze dei cyber-ottimisti circa la rivitalizzazione per via digitale della partecipazione e deliberazione democratiche hanno tuttavia ceduto gradualmente il passo a una crescente disillusione. Dati alla mano, i critici hanno avuto buon gioco nel mostrare che: a) le dozzine di esperimenti che avrebbero dovuto rivelare al mondo le capacità democratizzanti delle ICT sono rimasti tali, confinati a una dimensione meramente locale e per lo più non reiterati; per contro vi sono stati usi tutt’altro che democratici delle nuove tecnologie da parte di molti governi, autoritari e non; b) l’avvento delle tecnologie digitali non ha innescato cambiamenti di rilievo nelle “regole del gioco” delle odierne democrazie liberali, che sono rimaste fondamentalmente inalterate, ammettendo tutt’al più che le tradizionali consultazioni popolari potessero svolgersi anche con l’ausilio di sistemi di voto elettronico; c) sul versante della partecipazione, Internet non sembra affatto aver arrestato, e anzi secondo alcuni ha aggravato, la crescita dell’apatia politica e la sfiducia nei confronti della democrazia e della politica nel suo complesso; d) quanto infine ai presunti incrementi qualitativi della deliberazione democratica digitalmente mediata, l’osservazione delle caratteristiche attuali del discorso pubblico online non solo revoca in dubbio le tesi di chi dipingeva la rete come luogo ideale di emersione della saggezza politica di un’unica comunità globale armonicamente cooperante alla soluzione dei grandi problemi dell’umanità, ma la qualifica come la sede della continuazione della guerra con altri mezzi (dialettici): un ambiente in cui al raffronto pacato tra opposte ragioni si preferisce di gran lunga la giustapposizione conflittuale tra narrazioni, visioni del mondo e sistemi di valori inconciliabili.
Al fallimento delle previsioni circa gli effetti che la diffusione universale delle tecnologie digitali avrebbe dovuto avere sul superamento della rappresentanza, sulla partecipazione politica, sulla qualità degli esiti delle procedure democratiche, non sembra sia seguita alcuna resipiscenza da parte degli e-democrats della prima ora. Piuttosto, molti di costoro hanno rinvenuto le cause di tale fiasco in sabotaggi deliberatamente rivolti a impedire la piena e proficua partecipazione degli individui a un’intelligenza della rete universale ritenuta onnisciente e massimamente saggia, e tuttavia neutralizzata dai soliti sospetti: le nuove tecnologie in quanto golem dei governi, della società dei consumi, del mercato e dei suoi campioni (multinazionali, finanza internazionale ecc.) o un establishment politico interessato alla propria autoconservazione ad ogni costo. Altri disillusi non si sono limitati a constatare l’inattuazione della democrazia elettronica, ma oggi addirittura se ne rallegrano, considerandola principalmente nella sua guisa di arma al servizio dei leader e movimenti politici chiamati “populisti” soprattutto in quanto particolarmente abili ad accattivarsi il consenso delle masse con la manipolazione demagogica della comunicazione online. Fake news, “post-verità”, teorie del complotto virali, bolle informative, polarizzazione d’una sfera pubblica sempre più conflittuale e lontana dagli idilli dialettici vagheggiati dai teorici della deliberative citizen participation avrebbero infatti consentito a queste forze di avvelenare i pozzi d’un dibattito politico che si immaginava fecondo di soluzioni condivise, universalmente soddisfacenti, insomma “buone” in qualche senso non vuoto del termine.
Su quali tecniche si basa la democrazia elettronica?
Possono distinguersi almeno quattro forme di partecipazione democratica digitalmente mediata. Le prime due, che possiamo denominare partecipazione informatizzata diretta e partecipazione informatizzata rappresentativa, comprendono strumenti elettronici attraverso cui i cittadini concorrono a determinare le decisioni politiche collettive, eventualmente tramite i loro rappresentanti. Queste forme di concorso digitalmente mediato alle scelte pubbliche passano principalmente per il voto elettronico, ma rilevano pure altri canali eventualmente messi a disposizione dai partiti politici e da altre formazioni sociali ove si svolge la personalità degli individui: sindacati, associazioni di categoria, associazioni di consumatori, comitati portatori di specifiche rivendicazioni politiche ecc. Va da sé che queste forme di partecipazione digitalmente mediata possono dirsi autenticamente democratiche solo qualora l’organizzazione de quo funzioni secondo procedure che prevedano il contributo effettivo e vincolante degli iscritti (o, in qualche caso, anche di soggetti non iscritti) alle decisioni relative alla definizione del programma, dell’agenda politica e/o delle scelte operative dell’organizzazione, all’elezione delle cariche interne e alla designazione dei candidati dell’organizzazione alle elezioni ai vari uffici pubblici. Qualora gli esiti della consultazione elettronica degli iscritti siano soggetti invece a supervisione, controllo, avallo o annullamento discrezionale da parte di organi di vertice, o quando le stesse piattaforme di consultazione siano da questi amministrate in modo opaco ed esclusivo, la partecipazione dei cittadini può facilmente ridursi a poco più che un simulacro privo di reale portata democratica, men che mai “diretta”. Si potrebbe casomai parlare in questi casi, non senza qualche ironia, di democrazia elettronica eterodiretta: un sistema che dietro le forme della partecipazione digitalmente mediata dei cittadini alle scelte dell’organizzazione cela il potere autocratico, arbitrario e d’ultima istanza di chi amministri il medium tecnico e organizzativo usato per adottarle.
Una terza forma di partecipazione informatizzata si potrebbe poi chiamare “deliberativa” perché attinente a un vaglio ragionato di argomenti pro e contra una decisione attraverso lo scambio dialogico online; un processo che, secondo taluni, avrebbe proprietà ricognitive della verità morale e/o produttive di consenso sopra le scelte pratiche più tendenti al bene comune o all’interesse generale. Le sedi di questa deliberazione informatizzata vengono rinvenute in tutti gli spazi virtuali in cui ha luogo un’interazione discorsiva tra cittadini: social network, blog, forum, chat, mailing list e siti web in cui si svolgono delle discussioni su argomenti (in senso ampio) politici. Tutte queste nuove articolazioni dello spazio pubblico offrirebbero agli individui inedite opportunità di partecipazione democratica e di esercizio di quell’estensione della personalità che è talora chiamata cittadinanza digitale. Vari studi recenti rivelano peraltro che il risultato più evidente e caratteristico della discussione politica online non è quello di instaurare un processo deliberativo che genera soluzioni almeno parzialmente compromissorie, condivise e consensuali, bensì quello di frammentare il pubblico in gruppi e sotto-gruppi internamente omogenei ma relativamente intransigenti, non intercomunicanti e ostili verso i dissenzienti. Quando si tratta di discutere con portatori di idee e posizioni molto diverse tra le proprie – come è normale nelle sedi della deliberazione politica – la rete non si rivela affatto come la sede del dialogo politico ragionevole e moderato (in vari sensi del termine) immaginato dai cyber-utopisti, ma è nel complesso più simile a un terreno di scontro tra opposte tifoserie. Non è un caso che gli studi più informati tendano a espungere dalla categoria della partecipazione deliberativa i dibattiti politici svolti nei social network, per ricollocarli in un quarto tipo di partecipazione democratica informatizzata: la partecipazione “dimostrativa”. Questa comprende le attività dirette a manifestare pubblicamente la propria opinione politica, il proprio credo ideologico oppure la propria appartenenza a un certo gruppo sociale, col fine di influenzare le intenzioni di voto altrui, le scelte dei decisori istituzionali e/o gli indirizzi politici del pubblico. In questo campo le ICT forniscono in primo luogo strumenti per una più efficiente ed economica organizzazione di tali dimostrazioni, che vengono poi finalizzate nei contesti offline. Vi sono però anche delle dimostrazioni svolte direttamente attraverso i media digitali, come le petizioni online o le iniziative di mail-bombing, con cui un gran numero di individui inviano delle e-mail a un unico destinatario, talvolta provocando l’intasamento della sua casella di posta elettronica; oppure si pensi ai post pubblicati su blog, forum o social media che, come dicevo, funzionano non tanto come spazi di deliberazione e confronto in cui ci si aspetta risposte o discussione orientata al rinvenimento del consenso su temi controversi, quanto come spazi monologici in cui si dichiarano o promuovono le proprie opinioni, eventualmente allo scopo di aggregare individui o gruppi con opinioni affini o di promuovere idee e/o organizzazioni politiche di qualche tipo. I social network, per esempio, si prestano perfettamente all’uopo, grazie alla facilità con cui possono condividersi e rendersi “virali” i contenuti informativi. Lo sanno bene alcuni partiti politici come, in Italia, il M5S e la Lega, che basano su questi canali gran parte delle loro iniziative di propaganda, con ottimi riscontri in termini di consenso elettorale.
Quali prospettive e quali i limiti del voto elettronico?
Nella prospettiva dell’impiego generalizzato del voto elettronico, le questioni più delicate si pongono sotto il profilo della sicurezza, ossia la capacità di garantire la corrispondenza tra l’autentica volontà dei cittadini, individualmente e nel loro complesso, e i risultati ufficiali della loro consultazione. La sicurezza del voto elettronico va garantita fondamentalmente in due direzioni. Da un lato c’è la sicurezza privata, che consta di misure volte a mettere il cittadino-utente della tecnologia di voto nella condizione di esprimere e far valere liberamente la sua genuina volontà politica al riparo da coercizioni, controlli ed altre interferenze esterne. La sicurezza privata delle tecnologie di voto si persegue essenzialmente attraverso accorgimenti e meccanismi diretti a garantire l’anonimità e la segretezza del voto, ovvero rendendo impossibile rilevare e documentare qualsiasi associazione tra questo e la persona che lo ha espresso. C’è poi un profilo di sicurezza pubblica di queste tecnologie, che attiene alla loro capacità di resistere a interferenze dirette ad alterare il risultato ufficiale del voto, allontanandolo dalla fedele rappresentazione della volontà dei cittadini. Occorre infatti scongiurare eventuali attacchi informatici, manomissioni occulte, accessi abusivi ai sistemi per l’espressione delle preferenze, lo scrutinio elettronico, la trasmissione dei dati ecc. Al momento, la difficoltà di garantire sufficienti standard di sicurezza privata e pubblica del voto elettronico ha determinato il suo abbandono in molti dei paesi che lo avevano inizialmente sperimentato o adottato. Questo è accaduto ad esempio in Regno Unito, in Irlanda, nei Paesi Bassi, in Norvegia, in Germania e in Finlandia. Altre esperienze revocano in dubbio l’assunto secondo cui il voto elettronico consente di realizzare significativi risparmi di tempo e costi economici. Basti citare il recente voto elettronico in Lombardia, criticato non solo per gli ingenti costi, ma anche per i problemi tecnici e organizzativo-procedurali che hanno determinato tra le altre cose notevoli ritardi nella pubblicazione dei risultati elettorali. Vero è d’altra parte che vi sono diversi paesi in cui il voto elettronico è in uso da tempo, senza far registrare particolari problemi. Negli Stati Uniti, ad esempio, continua a essere tuttora ammesso in vari stati, come pure in Brasile, India, Svizzera, Estonia e altri paesi ancora. L’impressione complessiva è che i timori di malfunzionamenti, attacchi, brogli e manipolazioni, unitamente agli scarsi incrementi nei tassi complessivi di partecipazione al voto e ai modesti risparmi economici e di tempo, abbiano indotto molti decisori politici odierni a rinviare sine die l’adozione di questi sistemi e a perseverare nel voto tradizionale, anche sulla base del rilievo per cui quest’ultimo ha funzionato nel complesso bene per decenni, talora in contesti non certo pacifici né privi di rischi di involuzioni autoritarie.
In conclusione, le tecniche di partecipazione politica informatizzata finora praticate non hanno ancora risolto i problemi da cui muove l’intera impresa tecnologico-culturale della democrazia elettronica, ma li hanno solo frammentati in tanti trade-off tra esigenze e valori tutti singolarmente importanti, ma malauguratamente spesso antinomici. Le liberaldemocrazie dell’ultimo secolo hanno per lo più realizzato un equilibrio tra queste esigenze che privilegia l’accessibilità e la sicurezza delle procedure analogiche, e dunque l’effettiva e regolare espressione delle autentiche volontà politiche di grandi masse di cittadini, sia pure al costo di limitare l’influenza e l’espressività del loro voto, che infatti serve tuttora non tanto a decidere l’agenda politica, quanto a decidere chi deve deciderla. Dalla loro, queste complesse strutture tecnico-istituzionali fondate sulla rappresentanza hanno decenni di uso relativamente incontroverso e pacifico in società complesse, talora alquanto conflittuali e oggi sempre più multiculturali. La sfida della e-democracy è quella di funzionare almeno altrettanto bene, e se possibile ancora più a lungo, dando voce più forte e chiara al demos ma al tempo stesso impedendo che essa diventi così assordante da coprire ogni altra voce abbia titolo ad essere ascoltata in uno stato di diritto, prima di tutto quelle della legge e della costituzione.
Gianmarco Gometz è Professore associato di Filosofia del diritto e informatica giuridica presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cagliari