“Delle scritture in cifra usate dalla Repubblica di Venezia” di Luigi Pasini, a cura di Paolo Bonavoglia

Prof. Paolo Bonavoglia, Lei ha curato l’edizione del libro Delle scritture in cifra usate dalla Repubblica di Venezia di Luigi Pasini, pubblicato da Aracne. Un’opera pressoché introvabile, ricompare oggi grazie a Lei in una nuova edizione: di quale importanza è il testo di Pasini per lo studio della storia della Repubblica di Venezia?
Delle scritture in cifra usate dalla Repubblica di Venezia di Luigi Pasini, Paolo BonavogliaL’importanza del testo di Pasini è notevole, in pratica è l’unico testo dedicato alla storia delle cifre veneziane; ci sono solo altri tre testi che ne dicono qualcosa di importante: 1) I servizi segreti di Venezia (1992) di Paolo Preto che ha anche un ottimo capitolo sulle cifre; ma Preto è uno storico e inserisce la crittografia nella storia dei servizi segreti, senza occuparsi degli aspetti tecnici, matematici, specificamente crittografici. Nomina per esempio una cifra delle caselle usata a fine Cinquecento ma senza dare il minimo dettaglio sul tipo di cifra, che quasi sicuramente non conosceva. 2) Die Anfänge der modernen diplomatischen Geheimschrift (1901) di Aloys Meister studioso tedesco che si dedicò allo studio delle cifre italiane del Rinascimento, in particolare di quelle vaticane. All’inizio del libro c’è un capitolo dedicato alle cifre di Venezia, che corregge un errore di Cecchetti e Pasini su una rudimentale cifra del Duecento, e dice qualcosa sulle cifre del Trecento e del Quattrocento, ma poi, per qualche motivo, si ferma all’inizio del Cinquecento. 3) Un primato italiano, la crittografia nel XV e XVI secolo, 1958, di Luigi Sacco che dedica un capitolo a Venezia ripreso in buona parte dal Pasini; importante è che vi aggiunge la ricostruzione della cifra del Doge Michele Steno (1411), cosa che Pasini aveva lasciato irrisolta nel suo libro.

In definitiva il libro di Pasini era finora la fonte principale, quasi unica sulle cifre veneziane, a parte l’Archivio di Stato di Venezia che è la fonte primaria, ma ovviamente richiede una ricerca in loco.

Chi era Luigi Pasini e come nacque il suo interesse per le cifre veneziane?
Di Luigi Pasini si sa ben poco; gli anni di nascita e morte, 1835-1885 si trovano solo sul libro Codebreakers di Kahn, per il resto la fonte principale è la memoria autobiografica trovata tra le sue carte e pubblicata come appendice in questa nuova edizione; entrò all’archivio nel 1865 quando ancora Venezia era parte dell’Impero d’Austria, un anno prima dell’annessione al Regno d’Italia; come archivista cominciò subito a interessarsi alle cifre, sulla scia di Bartolomeo Cecchetti che nel 1868 pubblicò un breve saggio sulle cifre veneziane; tra le migliaia di dispacci cifrati custoditi in archivio ce ne erano alcuni intorno alla metà del XVI secolo che mancavano della decifra di cancelleria. Proprio in quegli anni l’inglese Paul Friedman aveva decrittato alcuni dispacci dell’ambasciatore veneziano a Londra, Giovanni Michiel, e Pasini aveva fatto lo stesso e per questo fu accusato da Friedman di plagio, di aver sfruttato il suo lavoro; ne nacque una controversia sulla quale Pasini scrisse nel 1869 un opuscolo I dispacci di Giovanni Michiel, deciferati da Paolo Friedman, rettificazioni ed aggiunte. Incoraggiato da questo pur contestato successo, riuscì nell’impresa di ricostruire altre chiavi di cifra e pubblicò in proposito un primo saggio nel 1871, quello ora ripubblicato; in seguito continuò a occuparsi di crittografia, e in una memoria trovata tra le sue carte accenna a una nuova opera in quattro volumi alla quale stava lavorando. Ma nel 1885 morì improvvisamente e di questa opera si persero le tracce. Sembra la tenesse a casa sua e probabilmente è andata persa dopo la morte. Uno degli obiettivi residui della mia ricerca negli archivi veneziani sarebbe proprio quello di trovare qualche informazione di più su Luigi Pasini. 

Quale rilevanza ha la crittografia veneziana nella storia delle scritture segrete?
Nel XV e XVI secolo direi una grandissima rilevanza. Kahn nel suo libro dice che probabilmente allora l’organizzazione crittografica veneziana era la migliore in Europa; anche altri stati italiani disponevano di validi uffici cifra, primo tra tutti lo stato pontificio. Oltralpe erano certamente molto valide la crittografia francese e quella imperiale. A Venezia la crittografia era gestita dal CX, Consiglio di Dieci, potentissimo organo deputato alla sicurezza dello stato. La segretezza assoluta imposta dal CX in materia, ha nuociuto alla conoscenza della crittografia veneziana. Le principali opere crittografiche scritte da Soro, Amadi, Partenio sono rimaste segrete e non furono mai pubblicate. Quella di Soro è andata perduta, i manoscritti delle altre sono tuttora all’archivio veneziano.

Quali peculiarità caratterizzano la crittografia veneziana?
Forse la peculiarità più interessante, e per quanto ne so finora unica, nel Cinquecento è il ricorso alla sovracifratura, una tecnica che si diffonderà solo nell’Ottocento; la si trova prima di tutto nella cifra delle caselle di Hieronimo di Franceschi e poi nelle cifre di Pietro Partenio; la prima fu usata solo per una ventina di anni, di quelle di Partenio ne fu usata solo una e per breve tempo; l’abbandono di queste cifre e la corsa alla semplificazione, segnano l’inizio della decadenza della crittografia veneziana a partire dagli anni intorno al 1600. Altra peculiarità, che durò invece per secoli, era la preferenza per il sillabario come nucleo dei sistemi cifranti; ogni cifrario (nomenclatore) consisteva di un alfabeto (cifratura lettera per lettera), di un dizionario (cifratura per parole) e fin qui nulla di sensazionale, era il tipo di cifra più usata dalle diplomazie europee, e un sillabario (cifratura per sillabe); quest’ultimo era meno comune e si basava su sillabe a gruppi di 5, cominciando da BA BE BI BO BU, BRA BRE BRI BRO BRU; ogni sillaba aveva la sua cifra che fino a metà Cinquecento era un simbolo geometrico o di fantasia o una lettera greca o di altri alfabeti; in seguito si usarono gruppi di lettere e numeri, e finalmente solo numeri di due, tre o quattro cifre decimali. Alcuni libri trovati in archivio usano per questo il nome “Libro dei Babuini”. Nei dispacci cifrati degli ambasciatori e altri rappresentanti della Repubblica, il sillabario è di solito lo strumento più usato dagli addetti alla cifra; le singole lettere sono usate solo quando non ci sono sillabe adatte, il dizionario è usato relativamente poco. L’uso del sillabario aveva il pregio di dimezzare, grosso modo, la lunghezza del dispaccio, rendendo al tempo stesso molto più complicata la crittoanalisi statistica; un difetto che emerge a partire dalla fine del Cinquecento è che questi sillabari per facilitare il lavoro di cifratura seguivano una qualche regola facile da ricordare, per esempio BA = 351 BE=352, BI = 353 , BO = 354, BU = 355 … FA = 401 FE = 402 FI = 403 FO = 404 FU = 405. Una semplificazione gradita ai segretati addetti alla cifra, ma anche al nemico che fosse riuscito a individuare qualche sillaba e da queste dedurre la regola di formazione del sillabario; a quel punto la strada era spianata per ricostruire il sillabario e il resto del cifrario.

Come giunse Pasini alla decrittazione delle cifre veneziane?
Una spiegazione dettagliata si trova nell’appendice della nuova edizione del libro.

Va detto che della maggior parte delle cifre veneziane, sono conservati in archivio i fogli con le chiavi di cifra e che quasi tutti i dispacci cifrati avevano allegata la decifra eseguita dai segretari di cancelleria; ma Pasini si dedicò a ricostruire le chiavi di alcune cifre usate a metà del XVI secolo, le cui chiavi mancavano in archivio, e i cui dispacci mancavano della decifra di cancelleria.

Nella sua memoria a cui accennavo sopra, come in altre occasioni, Pasini si compiaceva di ammantare di mistero la sua impresa, dando solo risposte molto vaghe sul metodo seguito (“[…] che non mancò qualche imperito di lettere ad attribuir questo ad arte magica o a soffio di qualche nume, quello che era da attribuire semplicemente alle fonti dell’ortografia”). Capire come aveva fatto è stato il mio primo obiettivo nella ricerca in archivio. In effetti Pasini era un archivista, non un crittologo, probabilmente aveva trovato da sé il metodo.

Quello che è risultato dalla mia ricerca è che Pasini usò il metodo del confronto tra testi chiari e cifrati, quello che si potrebbe chiamare il metodo della stele di Rosetta. In sostanza si tratta di ricostruire un cifrario basandosi sul confronto tra uno o più testi cifrati con i corrispondenti testi chiari, impresa banale per una cifra monoalfabetica, molto più impegnativa per un nomenclatore come quelli usati dai veneziani. Tra le sue carte si trovano appunti con un testo cifrato, dal fondo degli ambasciatori in Francia, affiancato per colonne alla decifra di cancelleria, che Pasini aveva trovato, e con esso i vari tentativi di ricostruire il cifrario. Non era in effetti del tutto vero che di quelle cifre mancassero le decifre, mancavano sì, ma con qualche eccezione nel fondo dei dispacci degli ambasciatori al Senato, e ce ne erano a sufficienza nel fondo dei messaggi ai Capi del Consiglio di Dieci.

Perché Pasini tenne così gelosamente nascosto il suo metodo? Difficile rispondere, certamente tenere segreti i metodi crittanalitici è pratica comune nella storia della crittografia per ovvi motivi, qui Pasini verosimilmente temeva che rivelando il metodo la sua impresa risultasse in qualche modo sminuita. Un mistero è sempre più affascinante di un metodo spiegato con tanti noiosi dettagli.

L’impresa di Pasini è rimarchevole anche per aver decifrato circa 5000 linee di testi diplomatici cifrati dei quali appunto mancava la decifra. Altro merito non da poco è quello di aver riordinato le carte con le chiavi di cifra e e tanto altro di interesse crittografico dell’archivio.

Paolo Bonavoglia è nato a Roma nel 1950. Laureato in matematica, insegna matematica al Liceo Classico ed Europeo “Marco Foscarini” di Venezia.

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