“Dell’inutilità della scrittura. Inchiesta sull’editoria italiana” di Paolo Bianchi

Dott. Paolo Bianchi, Lei è autore del libro Dell’inutilità della scrittura. Inchiesta sull’editoria italiana pubblicato da Editrice Bibliografica. I numeri dell’editoria italiana sono implacabili: nel nostro Paese si pubblicano oltre 75 mila titoli ogni anno a fronte di una platea di lettori ridottissima: solo 4 italiani su 10 leggono; in pratica il 91% dei titoli non arriva a vendere più di 100 copie… ha senso scrivere?
Dell'inutilità della scrittura. Inchiesta sull'editoria italiana, Paolo BianchiNon so se abbia senso scrivere, immagino di sì. Però non tutti scrivono per lo stesso motivo, e a fronte di chi ne sente il bisogno perché vuole mettere ordine nei propri pensieri o perché ha qualcosa di urgente da comunicare ci sono molti che lo fanno per puro narcisismo, o per una smania malriposta di riconoscimento sociale. La questione è se abbia senso pubblicare, e in quali forme. Occupare altro spazio con tonnellate di carta che trovano subito la via del macero è uno spreco di tempo, di fatica e di risorse. Non ha senso credere che qualunque cosa si scriva sia degna di avere un pubblico. Il più delle volte non interessa a nessuno, neppure a chi scrive.

Jorge Luis Borges affermava: «Vedo me stesso essenzialmente come un lettore. Mi è accaduto di avventurarmi a scrivere, ma ritengo che quello che ho letto sia molto più importante di quello che ho scritto»: perché si scrive?
Davvero ha detto così? Dubito che lo pensasse davvero. Non si scrivono migliaia di pagine perché “accade”, ma perché lo si vuole fortemente. Borges però dice una cosa essenziale: lo scrittore non può non essere un lettore formidabile. Chiunque si “avventuri” in un percorso di scrittura senza aver letto mille volte tanto non può aspirare a un gran risultato. A meno che non abbia qualcosa di molto interessante da dire, come nel caso di certi memoir. Che però vengono quasi sempre riscritti da chi davvero conosce il mestiere. Il perché si scriva, come ho già accennato, può dipendere da una reale esigenza di condivisione, ma anche da pura e semplice vanità. Spesso i due motivi si intrecciano e si confondono.

Come si fa a farsi leggere?
Il modo più veloce è pagare. Si prende il manoscritto, lo si manda a un’agenzia letteraria (informandosi che sia seria, non una trappola per ingenui) e si ottiene in cambio una scheda di lettura. Costa 300-400 euro; a volte anche meno, dipende dalla lunghezza del manoscritto. Mandare il proprio lavoro a tutti gli editori, a pioggia, non serve a niente. Se anche lo leggono, di solito non rispondono. A meno che non lo trovino degno di pubblicazione, il che avviene forse una volta su diecimila.

Ad alimentare i sogni di gloria di nugoli di aspiranti novellieri vi sono poi gli editori a pagamento…
Certo. Quelli sono dappertutto, e internet è un sistema implacabile. Chiunque si inoltri sui motori di ricerca con alcune parole chiave si troverà tempestato a vita da proposte di pubblicazione. Peccato che dovrà sborsare soldi per testi che non vedranno mai la luce di una libreria. Al limite se ne stamperà qualche decina di copie da mandare all’autore, giusto per fargliene constatare l’esistenza.

Come si pubblica?
Il modo più veloce, appunto, è a pagamento. Ma a quel punto non c’è bisogno di un editore. Ci si può stampare benissimo da soli. I meccanismi di stampa digitale permettono di produrre anche solo poche copie a un costo dignitosissimo. Sempre in internet si trovano servizi per l’autopubblicazione, sia in formato digitale sia in quello cartaceo. L’importante è sapere che non si verrà distribuiti e che non si godrà di alcuna promozione, se non, ancora una volta, a pagamento.

Quanto agli editori riconosciuti, considerando che chi pubblica gli altri, e dunque ci mette i soldi, è corazzatissimo nei confronti di chiunque gliene faccia perdere (e anche il tempo è denaro), bisognerà, per convincerli, affinare le tecniche di seduzione, forgiarsi nella pazienza, mostrarsi servizievoli, acconsentire a tutto, intercettare il pensiero dominante e farlo proprio, adulare i più potenti. Fare politica, insomma.

Come si interagisce con l’ambiente letterario?
Bisogna frequentare fino allo sfinimento tutti i luoghi, reali e virtuali, in cui se ne incontrino degli esponenti e in cui sia possibile qualche spiraglio di interazione: presentazioni di libri, fiere, saloni, premi letterari, salotti, forum di discussione, riviste on line, pagine Facebook, spiagge, redazioni di giornali, studi televisivi, firmacopie, centri sportivi, eventi religiosi (soprattutto funerali).

I premi letterari sono utili?
Sono utili a chi li promuove e a volte a chi li vince. Sono una fatica e una frustrazione per tutti gli altri. Nel mio libro lo spiego con diversi esempi autobiografici. La stragrande maggioranza dei premi è una truffa, inutile perderci tempo e denaro. Quelli più conosciuti, cinque o sei, sono completamente in mano alle principali case editrici, che li assegnano e li negano di volta in volta in base ai loro equilibri di potere. E poi non è elegante trattare gli scrittori come se fossero sciatori o saltatori con l’asta o cani da corsa.

Quali provvedimenti dovrebbe adottare a Suo avviso la politica per favorire la diffusione dei libri e della lettura?
Proibirli. Tutti gli altri metodi si sono rivelati illusori o ipocriti o al massimo demagogici. I libri e la lettura si sviluppano a partire da un interesse e una predisposizione personali, che si coltivano fin da quando si impara l’alfabeto. La vera e propria scuola di lettura e scrittura creativa dovrebbe essere appunto quella: la scuola dell’obbligo. Dopodiché, solo chi ha una forte passione continuerà a praticare entrambe. E quanto più glielo si negherà, tanto più quella persona perseguirà il suo scopo.

Quali consigli si sente di dare ad un aspirante scrittore?
Il mio libro è stato scritto apposta. Ne contiene tantissimi, a partire dal presupposto che scrivere è una specie di gioco mortale, una sorta di trapezismo nel buio. Io elenco soprattutto le cose da “non” fare, per non rendersi la vita un inferno. Il principale è: non crederti unico, siete in tanti là fuori. Chiudo con una citazione di Richard Ford: “Sposa una donna che ritiene che sia un’ottima cosa il fatto che tu sei uno scrittore, e poi non fare figli”.

Paolo Bianchi è laureato in Diritto internazionale e giornalista professionista. Scrive per periodici e quotidiani nazionali, soprattutto nelle pagine di cultura. Attualmente è collaboratore de “Il Giornale”. Ha lavorato come redattore, traduttore letterario, editore, autore. Ha pubblicato con i maggiori gruppi editoriali italiani (Mondadori, Gems, Bompiani, Cairo). Ha curato antologie e scritto una dozzina di libri, tra saggi, inchieste, romanzi. Il suo ultimo romanzo è Donne smarrite, uomini ribelli (2018, Cairo). Il suo sito è www.paolobianchiscrive.it

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