“Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali” di Daniele Archibugi e Alice Pease

Prof. Daniele Archibugi, Lei è autore con Alice Pease del libro Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali edito da Castelvecchi: come si è arrivati alla nozione di giustizia penale internazionale?
Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali, Daniele Archibugi, Alice PeaseLa giustizia penale internazionale ha preso forma con il Processo di Norimberga che gli Alleati allestirono per processare i principali criminali di guerra nazisti. Nonostante l’estensione del Processo di Tokyo, la sua stagione è stata assai breve. Subito dopo, è calato il silenzio dovuto all’inizio della guerra fredda: Stati Uniti e Unione Sovietica si volevano mantenere le mani libere di fare il bello e cattivo tempo nella politica mondiale senza rischiare di essere incriminati da qualche pretore d’assalto. Il fatto era forse comprensibile per quanto riguarda l’Unione Sovietica, molto meno per gli stati liberarli guidati dagli Stati Uniti. Purtroppo, gli stati liberali hanno smesso fin troppo presto informare la propria politica estera ai valori dell’etica e del diritto. Così, hanno perso ogni interesse usare i tribunali per perseguire i crimini commessi dai governanti fuori dai propri confini.

Quali sono i presupposti giuridici della giurisdizione penale internazionale?
Già con i Principi di Norimberga, approvati dalla Commissione per il diritto internazionale delle neonate Nazioni Unite nel 1950, erano stati identificati gli atroci crimini che potessero potenzialmente essere perseguiti da qualsiasi autorità giudiziaria. Questi atti sono: crimini di guerra, genocidio, crimini contro l’umanità e il crimine di aggressione. Ma una cosa è definire i crimini, un’altra trovare i tribunali capaci di celebrare un giusto processo. Abbiamo atteso mezzo secolo prima che fosse istituito un potere giudiziario indipendente capace di operare. Ci siamo arrivati solamente nel 1998, quando a Roma, in Campidoglio, fu firmato il Trattato istitutivo della Corte penale internazionale. Ricordo bene quella giornata: Roma era in festa, si erano radunati all’ombra del Colosseo e del Palatino gli attivisti delle organizzazioni per i diritti umani di tutto il mondo. Si nutriva la grande speranza che l’impunità di chi abusava del proprio potere potesse essere contrastate.

Qual è lo status attuale della Corte penale internazionale?
Purtroppo, dopo vent’anni le ombre sono assai più numerose delle luci. Troppi stati importanti non hanno aderito. Tra di essi, la Cina, la Russia, l’India e, soprattutto, gli Stati Uniti, il paese che più di ogni altro tentò di creare una nuova giustizia penale con i Tribunali di Norimberga e di Tokyo.
La Corte penale internazionale ha aperto numerose indagini ma è riuscita a chiudere solo 5 processi in ben quindici anni di attività (è, infatti, diventata operativa solamente nel 2002, quando sono state raggiunte le 60 ratifiche previste dal Trattato). È pur vero che indagini preliminari e incriminazioni hanno comunque un impatto politico importante, perché segnalano quanto accade in un paese o in una regione. Ma non si può essere ancora soddisfatti di quanto è stato finora raggiunto.

Ci troviamo di fronte ad una nuova giustizia globale oppure alla volontà dei vincitori di processare i propri nemici?
Sono finiti sotto le maglie della giustizia penale internazionale gli sconfitti come Slobodan Milosevic e Saddam Hussein, o i politici che avevano perso le proprie protezioni politiche. E così, Mu’ammar Gheddafi è stato incriminato dalla Corte penale internazionale e Bashar al-Assad no. Ma è inquietante che non sia stato avviato alcun procedimento per i molti crimini commessi dai leader degli stati liberali. Ciò ha provocato un risentimento generalizzato nei paesi in via di sviluppo, che iniziano a vedere nella giustizia penale internazionale uno strumento per disciplinare i leader sgraditi all’Occidente.
Detto questo, c’è stata una sola incriminazione, per non parlare di processo, intentato contro qualche innocente? C’è stato un solo errore giudiziario? Non sembra proprio. Tutti, ripeto, tutti, coloro che sono finiti nelle maglie della giustizia penale internazionale erano connessi con reati atroci. Se l’hanno fatta franca, è solo perché i tribunali non sono riusciti a produrre prove sufficienti e hanno, giustamente, usato i sacrosanti principi del garantismo.
Se non si possono incriminare e processare tutti coloro che hanno commesso crimini internazionali, è una buona ragione per non processarne nessuno? Da qualche parte bisogna pur cominciare, solo così si può sperare di sfidare l’impunità dei governanti.

Il Suo libro analizza alcuni spettacolari processi (Augusto Pinochet, Slobodan Milošević, Radovan Karadžić, Omar al-Bashir): è stata realmente fatta giustizia?  
Abbiamo scelto cinque casi molto diversi tra loro. Nel caso di Pinochet, un giudice spagnolo, Baltasar Garzón, decise di avviare un procedimento quando Pinochet non era più al potere ma ancora capace di dominare la politica cilena. È stato un atto eroico, forse addirittura temerario. Ma grazie a quella incriminazione, si è aperto un contenzioso giuridico, prima in Europa e poi in Cile, che ha permesso ai cileni e, soprattutto, alle vittime della dittatura, di riaprire i conti con il passato. Grazie all’incriminazione di Pinochet, si è aperta la scatola nera delle torture, degli omicidi, delle sparizioni. Pinochet è morto senza entrare mai in un’aula di tribunale, ma quell’incriminazione ha cambiato la storia cilena.
Nel caso dei due più celebri imputati del Tribunale ad hoc per l’ex-Jugoslavia, bisogna fare dei distinguo. Milosevic è finito nelle maglie della giustizia penale perché avversario della Nato durante la guerra del Kossovo del 1999. La Nato ha compiuto una aggressione non sostenuta dalle Nazioni Unite e ha commesso vari crimini di guerra (come l’uso di bombe a frammentazione). Milosevic si era anche lui reso complice di numerosi crimini di guerra, ma processando solo Milosevic e ignorando le responsabilità della Nato, il Tribunale ha fatto una giustizia di parte. Più lineare fu invece il processo a Karadzic, incriminato per crimini commessi prima dell’entrata in gioco della Nato. La sua condanna è stata un atto dovuto per i bosniaci che avevano patito l’orrenda guerra civile.
Il caso di al-Bashir è, invece, umiliante per la Corte penale internazionale. Nonostante due incriminazioni e relativi mandati d’arresto, al-Bashir è saldamente al potere e non sembra proprio che la comunità internazionale si ricordi più che è accusato di crimini gravissimi.

Il processo a Saddam Hussein sembrò mancare della necessaria imparzialità.
Il processo a Saddam Hussein è stato un capolavoro di incompetenza. Il Tribunale speciale irakeno è riuscito a tramutare uno dei più feroci dittatori del XX secolo in un martire! Lo volevano impiccare il prima possibile, anche per tappargli la bocca, e hanno organizzato un processo-farsa. Se si celebra un processo, bisogna che sia imparziale, altrimenti è meglio ricorrere alle amnistie o addirittura alle esecuzioni sommarie. Inoltre, il Tribunale speciale irakeno, sorto sotto il patrocinio degli Stati Uniti, non aveva alcuna possibilità di indagare sui crimini commessi dalle truppe di occupazione. L’effetto del processo è stato di ulteriormente aumentare le divisioni settarie nel paese. Invece di contribuire alla pacificazione, ha fomentato la guerra civile.

Quale futuro per giustizia penale internazionale?
La lezione che si deriva dall’esperienza dell’ultimo quarto di secolo è chiarissima: se si lascia ai governi il compito di decidere chi incriminare e chi processare, essa continuerà ad essere una giustizia dei forti sui deboli, anche se non sempre dei vincitori sui vinti. E, invece, la giustizia penale internazionale è necessaria soprattutto quando sono i più forti a compiere crimini, quei forti che non hanno da temere rappresaglie politiche o militari. Se non ai tribunali, a chi mai dovranno rispondere i potenti che commettono abusi?
Sia chiaro, non è detto che i crimini dei più forti siano più efferati di quelli dei deboli. I genocidi compiuti negli ultimi decenni, dalla Cambogia al Ruanda, da Srebrenica ad Aleppo, sono eseguiti non da super-potenze, ma da bande criminali senza arte né parte. Per spazzare via questi gruppi feroci ma deboli, basta un minimo di coesione e di energia da parte della comunità internazionale. Ma che fare quando sono i più forti a compiere questi delitti?
Eppure, risulta chiaro che i tribunali e la Corte penale non sono riusciti ad essere veramente imparziali. Era veramente idealistico sperare che i governi che nominano i giudici, che forniscono i soldi per gli stipendi e per le indagini, che mettono a disposizione le forze di polizia e le carceri, si facciano mettere sotto torchio dagli stessi giudici cui passano lo stipendio. Ma un potere giudiziario indipendente non si costruisce in un battibaleno: ci vogliono decenni. E sappiamo bene che nei processi politici, anche negli stati liberali, i giudici sono esposti a molte pressioni.
La lezione è che bisogna infondere coraggio ai tribunali e ai loro giudici grazie ad una capillare azione delle associazioni per i diritti umani. La Coalizione per la Corte penale internazionale, ad esempio, esamina i requisiti dei candidati dei giudici, per vagliare la loro capacità di essere indipendenti rispetto alle pressioni politiche. Associazioni di avvocati hanno fornito al Pubblico ministero le prove dei crimini di guerra commesse dalle truppe di occupazione della Coalizione dei Volenterosi in Iraq. Spesso, i Tribunali d’opinione, come quello fondato da Bertrand Russell per i crimini di guerra in Vietnam e ripreso dalla Fondazione internazionale Lelio Basso a Roma, hanno un effetto nel rendere noto quali siano le violazioni e chi le commetta.

Non c’è il rischio che i grandi processi se la prendano solo con dei capri espiatori?
Senz’altro sì. Certi crimini non sono commessi solamente dai dittatori. Essi hanno al loro servizio un apparato che obbedisce ed esegue i crimini. Dobbiamo molto imparare dalle Commissioni per la verità e la riconciliazione, inaugurate nel Sudafrica di Nelson Mandela e poi riprese in molti paesi tormentati dalla guerra civile. Si è trattato di una esperienza capillare di villaggio in villaggio, per ascoltare le vittime di fronte ai colpevoli. Anche se le pene sono spesso state miti, hanno consentito di far affiorare la verità e quindi permettere la coabitazione futura. In Italia, purtroppo, dopo la guerra non abbiamo avuto né una Norimberga né una Commissione per la verità e la riconciliazione. Sarebbero state utili tutte e due.

Questo libro è stato scritto con una ricercatrice, Alice Pease, molto più giovane di lei. Come vi siete divisi il lavoro?
Alice è arrivata al Consiglio Nazionale delle Ricerche come una stagista dall’Università Alma Mater di Bologna. Ha una formazione in storia. Per me il suo arrivo è stato una benedizione. A lei si deve la prima stesura degli studi di caso, e li ha scritti come una storica di grande esperienza. Ha continuamente rammentato il punto di vista delle vittime in questi processi. Avere a fianco un ricercatore più giovane è uno stimolo costante. Ho cominciato a fare campagne per la giustizia penale internazionale già dal 1990, ma senza lo stimolo di Alice non credo che sarei riuscito a portare a termine questo libro.

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