
Mi spingerei a includervi anche le coppie formate da uomo e donna non uniti in matrimonio tra loro ma ancora coniugati come terze persone, laddove questi vincoli matrimoniali siano solo ed esclusivamente di ordine legale e sia stata recisa qualsiasi forma di coabitazione, di solidarietà affettiva e di comunanza di interessi.
La nostra Costituzione, del resto, qualifica la famiglia come società “naturale”, e questo aggettivo richiama proprio l’unione uomo-donna: è qui la naturalità dell’aggregato familiare, votato alla consonanza (anche) dei corpi e quindi alla riproduzione.
Quella cellula fondamentale della società in cui si sostanzia il gruppo familiare (fondato o no sul matrimonio) è infatti una struttura antropologica contrassegnata da meccanismi biologici, una comunità aperta alla vita e alla procreazione, un ordinamento fondato sulla complementarietà dei sessi.
Elemento fondante resta dunque il dato fisiologico-naturalistico dell’accoppiamento e della (eventuale) generazione, riconducibile alla precondizione dell’eterosessualità.
Tutto ciò porta a porre in dubbio che alle unioni omosessuali (formalizzate o no che siano) possa essere riconosciuto il connotato di “famiglia”. È ben vero che il legislatore italiano, sulla scia di altri Paesi, ha disciplinato l’unione civile tra persone dello stesso sesso sulla falsariga del matrimonio, così come è vero che essa può dar vita a una formazione sociale fondata su intensa affettività e generosa solidarietà; ma questa aggregazione resta distante dal disegno antropologico basato sulla diversità di genere, sull’almeno tendenziale riproduttività, sulla continuità della specie e sulla cura e l’allevamento dei nuovi nati.
La seconda sfida attiene al grado di tollerabilità di regole giuridiche per le aggregazioni di coppia non fondate sul matrimonio: quanto più il legislatore tenderà a dettare regole, tantopiù si svilupperà il fenomeno, da tempo in atto, della fuga dal matrimonio. Fuga che è derivata, all’evidenza, dai vincoli di varia natura che da esso continuano a scaturire anche una volta venute meno l’affectio e l’armonia di coppia: si pensi ai diritti ereditari anche in favore del coniuge separato, nonché all’assegno divorzile destinato a pesare, in caso di morte del coniuge gravato, persino sui suoi eredi. In sede pratica, negli ultimi tempi il problema è stato particolarmente avvertito, e non a caso si è cominciato a riconoscere che un’esperienza matrimoniale fallita (specie se di breve o brevissima durata) non può garantire all’ex coniuge economicamente più debole, per l’intera sua vita e a carico dell’altro ex coniuge, il tenore di vita goduto durante il matrimonio.
Come disciplina il nostro ordinamento la convivenza fuori dal matrimonio?
Il legislatore italiano è rimasto per molti anni a guardare, ed è intervenuto soltanto nel 2016 con una legge omnibus che proclama molto, ma che nella sostanza non incide in maniera veramente significativa sulla realtà fattuale.
Esso ha infatti prestato massima attenzione alle unioni civili, cioè alla formalizzazione dei legami omosessuali, ai quali trovano ormai applicazione le stesse regole destinate a disciplinare i rapporti tra coniugi. Per contro, quasi nulla è stata la reale incidenza della nuova legge sulla disciplina delle convivenze eterosessuali non fondate sul matrimonio: essa si è sostanzialmente limitata a sancire sia in termini negativi che in termini positivi quei risultati cui si era già da tempo pervenuti in sede interpretativa applicando i principi generali dell’ordinamento giuridico.
In termini negativi: nessun obbligo di fedeltà, di coabitazione, di assistenza morale e materiale; nessun diritto ereditario (salvo un limitato godimento della casa di comune residenza da parte del convivente superstite); nessuna comunione degli acquisti (se non attraverso eventuali apposite pattuizioni, già da tempo pacificamente ammesse); assai limitate tutele al convivente che collabori con il partner imprenditore. In termini positivi: diritto del convivente superstite al risarcimento dei danni per morte del partner causata da fatto illecito di terzi (ma si tratta di un diritto riconosciuto in sede pratica da oltre vent’anni); modeste prerogative di natura non patrimoniale (assistenza al convivente ospedalizzato o incarcerato, decisioni in materia funeraria: l’una e le altre già presenti nel diritto vivente); diritto del superstite a subentrare nel contratto di locazione abitativa stipulato dal convivente premorto (si tratta di un diritto già affermato dalla Corte costituzionale fin dagli anni ’80).
In altre parole, salvo marginali protezioni aggiuntive il legislatore del 2016 si è limitato a ribadire in favore del convivente more uxorio quelle stesse tutele che nella pratica gli erano già state riconosciute da tempo. Il diritto positivo, cioè, non ha fatto che conformarsi al diritto vivente. Le tutele sino al 2016 affidate a quest’ultimo, da quella data sono divenute diritto vigente.
Assai contenuto si rivela quindi il “valore aggiunto” della disciplina introdotta rispetto ai risultati cui la pratica era anteriormente pervenuta.
Quali scenari giuridici si aprono in caso di morte del convivente?
Gli scenari mutano a seconda dell’aggregazione che si prospetta. Già ho ricordato sopra che nel caso di unione civile tra persone dello stesso sesso sul piano della disciplina giuridica è mimato il rapporto matrimoniale. Conseguentemente, all’unito civile superstite sono assicurati i medesimi diritti che sono riconosciuti al coniuge. Quali, ad esempio, i diritti ereditari, la contitolarità dei diritti patrimoniali acquisiti dal momento della “celebrazione” dell’unione, il diritto a percepire le indennità e le spettanze di lavoro di pertinenza del compagno premorto, il diritto alla reversibilità della pensione, ecc.
Per contro le convivenze eterosessuali sono contrassegnate da tutele assai minori: nessun automatico diritto ereditario, un’assai contenuta successione nel godimento della casa di comune abitazione (con una durata in nessun caso superiore al quinquennio), nessun diritto sulle spettanze lavorative del convivente premorto, nessuna reversibilità della pensione.
In sede di lavori preparatori della legge emanata nel 2016 era stata affacciata la prospettiva di una più intensa tutela del convivente superstite, anche attraverso il riconoscimento di diritti ereditari nel caso di comunione di vita protratta per lungo tempo, ma l’accelerazione imposta in sede parlamentare ha finito per sacrificare vari aspetti che avrebbero meritato un più esteso dibattito e una più approfondita riflessione. In realtà l’attenzione e lo scontro politico finirono per concentrarsi, nella fase di gestazione della legge, su alcune specifiche tematiche (in particolare la c.d. stepchild adoption), e tanti altri profili bisognevoli di approfondimento sono rimasti in ombra.
Cosa resta della famiglia?
In parte ho anticipato il mio pensiero rispondendo alla prima domanda. Non vi è dubbio che oggi, sul piano strettamente giuridico e prescindendo totalmente dai risvolti di natura religiosa e sacramentale, è impossibile continuare a discorrere, come in passato, di monopolio dello schema familiare fondato sul matrimonio. Non può più disconoscersi il crisma di unione familiare, insomma, allo stabile legame affettivo tra uomo e donna conviventi bensì, ma determinati a non transitare né dinanzi all’ufficiale di stato civile, né dinanzi al parroco. Se la famiglia è una comunità “naturale”, l’aspetto burocratico non può essere riguardato come fonte di essa, ed occorre invece riconoscerla nel legame tra uomo e donna contrassegnato da sentimenti autentici di affettuosità e di solidarietà, non disgiunti da intimità e attrazione fisica antropologicamente e fisiologicamente votate alla procreazione.
L’idea di famiglia esprime, insomma, la sede privilegiata degli affetti primari pur nel sopravvenuto drastico ridimensionamento del ruolo del matrimonio. Può dirsi, anzi, che la romantica endiadi famiglia-matrimonio ha lasciato il posto ad aggregazioni domestiche di differente fisionomia, ma pur sempre riconoscibili come famiglie se fondate sullo stabile vincolo affettivo uomo-donna. La famiglia, in questa angolazione, è fatto di natura, espressione della realtà sociale, non sopprimibile né coercibile, rispondente a bisogni istintivi e primordiali.
Michele Tamponi è professore ordinario di Diritto privato all’Università Luiss di Roma, ateneo nel quale dirige la Scuola di specializzazione per le professioni legali e il Master in Diritto di famiglia. Membro di direzioni scientifiche, comitati editoriali e comitati di valutazione per numerose riviste giuridiche. Tra le sue opere degli ultimi anni: Persone giuridiche (2018), Certezza del diritto e successioni per causa di morte (2015) Nino Visconti di Gallura. Il dantesco Giudice Nin gentil tra Pisa e Sardegna, guelfi e ghibellini, faide cittadine e lotte isolane (2010).