“Dei Sepolcri”: parafrasi

“Dei Sepolcri. A Ippolito Pindemonte” di Ugo Foscolo

«Siano rispettati i diritti degli Dèi Mani», dei defunti. La norma era contenuta nelle Dodici Tavole, secondo la tradizione il più antico corpus di leggi scritte di Roma.

Il sonno della morte è forse meno inesorabile all’ombra dei cipressi e dentro le tombe (urne) sulle quali i parenti versino il loro pianto? Quando (Ove) per me il sole non darà più nutrimento sulla terra alla bella natura, animali e piante, e quando il futuro non avrà per me alcuna attrattiva (le ore, personificate, danzano ed esercitano seduzione solo in chi può aspettare il tempo che seguirà), né da te, dolce amico (Pindemonte), potrò più udire le tue poesie e l’armonia triste che le pervade (governa), e nel mio cuore non avrà più voce l’ispirazione poetica (spirto delle vergini Muse) e l’inclinazione amorosa, unici princìpi ispiratori della mia vita di continuo esilio (raminga), quale ricompensa sarà per la vita perduta una lapide (sasso) che distingua le mie ossa dalle infinite altre che la morte dissemina per terra e per mare? È ben vero, o Pindemonte! Anche la Speranza, unica divinità rimasta agli uomini, fugge dalle tombe, sparisce di fronte alla morte; e la dimenticanza avvolge (involve) ogni cosa nella sua oscurità, e la natura (forza operosa, forza inarrestabile) con il suo movimento continuo fiacca trasformando (affatica) ogni forma vivente, e il tempo rende irriconoscibili (traveste) gli uomini, le loro tombe, ed anche l’ultimo aspetto (estreme sembianze) e ciò che rimane dell’intero universo, terra e cielo, al termine di questa trasformazione continua.

Ma perché l’uomo prima del tempo sì priverà (a sé… invidierà) di quella illusione che, già morto, tuttavia (pur) gli permette di restare sulla soglia del regno dell’Oltretomba (Dite era uno dei nomi del re dei morti nella mitologia classica), di non dissolversi completamente nella dimenticanza e nel nulla? Egli (ei), anche quando è ormai sepolto, e per lui la bellezza della vita e della luce (armonia del giorno) non potrà più farsi sentire, non continuerà forse a vivere se con il tenero culto per la tomba (soavi cure) può ridestare il senso della sua vita nella mente dei suoi cari? Questa capacità di corrispondere sentimenti (sensi) d’amore è divina, è una prerogativa divina degli uomini, e spesso grazie a lei (per lei) si continua a vivere assieme all’amico morto e il morto resta nella nostra mente, a patto che (se) la terra che lo aveva accolto bambino e gli aveva fornito il nutrimento con un senso di pietà religiosa (pia), gli accorderà nel suo grembo di madre l’ultimo riparo, la tomba, e renderà così i suoi resti mortali (reliquie) inviolabili dagli insulti dei fattori atmosferici (nembo, tempesta) e dall’irriverente piede di chi non rispetta le sepolture, e a patto che una lapide conservi il nome del defunto e un albero (arbore, femminile come il latino «arbor») amico, odoroso (odorata, latinismo) di fiori, faccia cadere sui resti mortali come una consolazione (ceneri) una dolce (molli) ombra.

Soltanto colui che non lascia un ricordo di sé tale da essere rimpianto non prova gioia al pensiero che una tomba conservi i suoi resti; e se anche (pur) immagina la sua sorte dopo la morte, vede il suo spirito vagare tra il pianto (compianto) dei dannati dell’inferno (templi acherontei), o rifugiarsi sotto le grandi ali del perdono divino, ma i suoi resti (polve) abbandona alle ortiche di una terra (gleba) deserta, dove nessuna donna innamorata si rechi a pregare, e il solitario pellegrino senta il sospiro che la Natura fa giungere ai vivi dalla tomba.

Eppure la nuova legge, l’editto di Saint-Cloud, impone che i morti vengano seppelliti lontano dagli sguardi pietosi dei loro cari, e cerca di impedire (contende) la conservazione della loro fama (nome, latinismo). E senza tomba giace il poeta che fu tuo sacerdote, o Talìa, il quale, alzando il suo canto in tuo onore, fece crescere (educò, latinismo), con dedizione che durò per tutta la vita (con lungo amore), nella sua povera casa un alloro (simbolo della gloria poetica) e ad esso appendeva corone (componeva i suoi versi) per te; e tu, Talìa, lo ricompensavi rendendo belli con il riso pungente della satira i suoi canti, i quali mettevano alla berlina (pungean) il ricco lombardo vizioso e scioperato (Sardanapalo), per il quale l’unica cosa piacevole è il muggito delle mandrie di buoi che dalle rive ricurve (antri) dell’Adda (abdüani) e dal Ticino lo rendono felice di passare la vita tra gli ozi e i banchetti. Talìa era la Musa della commedia ed anche della satira. Qui dunque Parini viene ricordato come poeta satirico, autore del Giorno; in ottemperanza alle nuove leggi, Parini fu sepolto senza solennità nel cimitero di Porta Comasina. Sardanapalo era un re assiro che, secondo le testimonianze degli storiografi greci, era famoso per la sua effeminatezza e il lusso sfrenato.

O bella Talìa, dove sei? Io non sento diffondersi (spirare) il profumo d’ambrosia, che rivela la presenza (indizio) della tua divinità, fra questi alberi dove siedo e sospiro per il rimpianto della mia patria. E tu ti accostavi al poeta e gli sorridevi sotto quel tiglio che ora, con le fronde che esprimono tristezza e lutto (dimesse), sembra fremere di sdegno perché, o Dea, non può coprire la tomba del vecchio poeta al quale aveva sempre procurato (cui… era cortese) tranquillità e ombra. Forse cerchi vagando (vagolando) tra le tombe della gente qualsiasi (plebei tumuli) dove riposi il capo del Parini che si dedicò tutto a te (tuo)? In sua memoria Milano, la città che si compiace di attirare sfacciatamente (lasciva allettatrice) cantanti evirati, non collocò all’interno delle sue mura piante (ombre), né una lapide con un’iscrizione commemorativa (parola), e forse il ladro, che scontò col taglio della testa sul patibolo i suoi misfatti, insanguina col capo mozzato le ossa di Parini. L’accenno a Milano come centro del teatro melodrammatico, in cui cantavano uomini castrati in giovane età perché conservassero la voce da soprano, è un richiamo all’ode pariniana La musica, nella quale si esprime una vibrata condanna morale per quell’uso. Foscolo insiste sul fatto che Parini non venne sepolto nel cimitero della sua parrocchia, che era vicino al boschetto di tigli, ma in quello suburbano di Porta Comasina, lontano dalla sua casa e dove erano portati indiscriminatamente i corpi di ogni tipo di gente, anche condannati a morte.

Senti, tu o Talìa, la cagna randagia (derelitta) che raspa tra i mucchi di pietre (macerie) e gli sterpi (bronchi) vagando sopra le tombe e la senti ululare per la fame, e (tu, o Talìa, senti) uscire dal teschio, dove fuggiva la luce della Luna, l’upupa che svolazza sulle croci disperse per la campagna funebre, e (senti) quell’uccello immondo maledire (accusar) col suo sinistro verso simile ad un singhiozzo (singulto) i raggi che le stelle fanno pietosamente (pie) cadere sulle sepolture dimenticate da tutti. Invano, o Dea, invochi la squallida notte che faccia cadere la rugiada sulla tomba del tuo poeta. Ahimè! sulle sepolture dei morti non spunta nessun fiore là dove il luogo (ove) non sia onorato con l’elogio e il pianto di chi conserva un sentimento d’amore per essi.

Dal giorno in cui matrimoni legittimi, leggi (tribunali) e religione (are, altari) fecero in modo che (diero, diedero) gli uomini che vivevano in uno stato belluino cominciassero a provare sentimenti di pietà per se stessi e di solidarietà per gli altri, i vivi sottraevano agli agenti atmosferici che provocano la corruzione dei cadaveri (etere maligno) e ai morsi delle belve i resti miserevoli che la Natura, con continui mutamenti di stato (veci eterne), destina a forme, diverse dall’originaria, di vita materiale (sensi altri).

Le tombe erano testimonianza di nobili imprese (fasti) e per i figli erano sacre come altari; e dalle tombe (quindi, di lì) uscivano i responsi delle anime dei defunti, venerati come Lari (divinità protettrici della casa, ai quali si chiedevano oracoli e aiuti), e il giuramento fatto sulla tomba degli avi fu considerato sacro e si aveva paura di non rispettarlo: spirito religioso che, pur nella diversità dei rituali e delle usanze, le virtù patriottiche e civili e l’affetto che i parenti hanno per i loro morti fecero continuare (tradussero) attraverso la lunga serie (ordine) degli anni e dei secoli.

Non da sempre fu praticata l’usanza di seppellire i morti in chiesa, facendo delle lapidi sepolcrali il pavimento degli edifici destinati al culto, né il puzzo dei cadaveri, mescolato al profumo dell’incenso, appestò (contaminò) quelli che si recavano a pregare, né l’aspetto delle città fu reso lugubre dalle raffigurazioni di morte (effigïati scheletri) che si vedono nelle pitture o nelle lapidi: le madri, prese da cupo terrore (esterrefatte, per gli spettacoli di morte disseminati nelle città), si svegliano di soprassalto e balzano dal letto, e protendono le braccia nude sopra il capo del loro figlioletto (caro), affinché non lo svegli il lungo lamento del morto che, dalla chiesa dove è sepolto, chiede agli eredi che facciano recitare preghiere a pagamento (venal prece), così da abbreviare il soggiorno in Purgatorio.

Ma (non fu sempre così, la morte non è sempre stata un fatto lugubre: nelle civiltà antiche dei greci e dei romani) cipressi e cedri, riempiendo l’aria (zefiri) di puri profumi, protendevano i loro rami sempreverdi sulle tombe, segno di una memoria che non si estingue, e preziosi vasi raccoglievano le lacrime versate dai parenti e dagli amici in omaggio votivo al morto. Gli amici rapivano al Sole una scintilla (accendendo le lampade votive) per illuminare l’oscurità del sepolcro, perché quando un uomo muore i suoi occhi cercano istintivamente la luce del sole e tutti i cuori mandano il loro ultimo sospiro alla luce che fugge per sempre.

Le fonti, versando acque limpide adatte ai rituali di purificazione (lustrali), facevano crescere (educavano, latinismo) sulla tomba amaranti e viole; e chi sedeva accanto al sepolcro, per versare latte come offerta votiva al morto e per raccontare le proprie pene ai defunti, sentiva attorno un profumo (fragranza) simile a quello che è nell’aria dei Campi Elisi, dove risiedono le anime elette.

Inganno della ragione (insania, quello di credere di poter comunicare col morto) dettato dalla pietà (pietosa) che rende cari i giardini (orti, latinismo) dei cimiteri (avelli, propriamente «tombe») suburbani alle giovani donne inglesi, dove le spinge l’amore per la madre morta, dove pregarono i Numi tutelari della patria (Geni) perché fossero clementi e concedessero il ritorno all’eroe (l’ammiraglio Nelson) che tolse (tronca fe’) l’albero maestro (il maggior pino) alla nave nemica su cui aveva riportato il trionfo (trïonfata nave), e con quello si fece costruire la propria bara. Secondo quanto riportarono anche le gazzette italiane, Horatio Nelson, dopo la vittoria sulla flotta francese ad Abukir (1798), si portò in Inghilterra un tronco dell’albero maestro della nave Orient, con cui si fece fare la bara che portò con sé durante tutte le successive spedizioni militari. Nelson morì nel giorno più glorioso per la marina inglese, quando guidò la flotta nella vittoriosa battaglia di Trafalgar (20 ottobre 1805).

Ma là dove (nel paese in cui) l’aspirazione ardente (furor) di compiere nobili imprese (inclite geste) non è vivo (dorme) e i princìpi informatori (ministri) della vita civile siano la ricchezza improduttiva (opulenza) e la paura (dei tiranni), lapidi e monumenti di marmo sorgono soltanto come segno esteriore ed inutile di lusso (inutil pompa) e come raffigurazioni malauguranti della morte (Orco). Orco è un diverso nome di Plutone, signore del regno dei morti: non quindi dei Campi Elisi, bensì del luogo desolato in cui le anime giacciono senza che ne rimanga memoria.

Già adesso i letterati, i possidenti e i nobili italiani, che si definiscono tali ma sono soltanto un volgo (perché sono di indole vile e bassa), ornamento e classe dirigente del bel regno d’Italia, ancora (già) vivi sono in realtà dei morti seppelliti nelle regge e nei palazzi nobiliari dove domina l’adulazione (adulate reggie), e i loro stemmi sono il loro unico motivo di vanto (laude). I versi foscoliani hanno probabilmente un preciso riferimento storico: la classe dirigente dell’Italia settentrionale si era costituita in tre «collegi»: uno di duecento intellettuali ed ecclesiastici con sede a Bologna (il dotto vulgo), uno di duecento mercanti (il vulgo ricco) con sede a Brescia, e uno di trecento possidenti (il vulgo patrizio) a Milano; Foscolo manifesta il suo sdegno in quanto questi tre collegi, in maniera servile, avevano accolto senza nessuna resistenza la costituzione promulgata da Napoleone per l’Italia nei comizi di Lione (1802), e avevano immediatamente nominato Napoleone presidente della nascente Repubblica italiana, così come altrettanto velocemente avevano poi accettato la trasformazione della Repubblica in Regno d’Italia nel 1805 e la autoincoronazione di Napoleone, accogliendo poi Eugenio Beauharnais come viceré.

Per me (A noi) la morte possa apprestare un ultimo rifugio, una tomba (albergo), nel quale trovi riposo, quando finalmente (ove una volta) il destino cesserà di riservarmi colpi, e l’insieme degli amici (amistà) potrà raccogliere un’eredità non di ricchezze materiali (tesori) ma di sentimenti provati con sincerità (caldi) e l’esempio di una poesia ispirata alla libertà e che ispira libertà (liberal carme).

O Pindemonte, le tombe dei forti ispirano gli spiriti forti a compiere imprese di eccezionale valore; e quelle tombe rendono la terra che le accoglie (le ricetta) bella e sacra per il visitatore. Io quando vidi (a Firenze, nella chiesa di Santa Croce) il monumento nel quale giace il corpo di quel grande ingegno (Machiavelli) che fingendo di insegnare ai principi (regnatori) il modo di rafforzare (temprando) lo scettro, simbolo del potere, in realtà rimuove l’alone di gloria (l’allòr) che lo circonda, e svela ai popoli come quello scettro grondi di lacrime e di sangue; (e quando vidi) la tomba (arca) di quel grande (Michelangelo) che a Roma innalzò a onore di Dio la cupola, tanto maestosa da essere un Olimpo cristiano (nuovo, rispetto a quello della religione pagana); e (quando vidi la tomba) di colui (Galileo) che osservò sotto la volta (padiglion) del cielo (etereo) il movimento dei diversi pianeti (mondi), e il Sole illuminarli (irradïarli) fermo al centro del sistema, per cui per primo aprì (sgombrò) la strada dello studio delle leggi che regolano i moti dell’universo (firmamento) all’inglese (Anglo) Newton, che poi dimostrò in quel campo tutta l’altezza del suo genio (tanta ala vi stese); gridai, felice te (o Firenze), per il tuo clima mite (felici aure) che favorisce la vita della natura (pregne di vita) e per le acque (lavacri) che l’Appenino fa giungere a te lungo i suoi monti. La Luna, allietata dalla tua atmosfera, veste di luce limpidissima i tuoi colli, che sono in festa per la vendemmia, mentre le vallate, ricche di case (quindi popolose) e di uliveti, mandano verso il cielo i profumi (incensi) di innumerevoli fiori.

E tu, Firenze, per prima sentisti la poesia che placò l’ira del ghibellino cacciato in esilio, Dante; e tu desti i genitori (parenti, latinismo) e la lingua fiorentina a Petrarca, poeta tanto dolce da essere considerato la bocca delle Muse, il quale, rivestendo del velo della pudicizia l’amore, cantato in maniera profana e sensuale dai poeti greci e romani (nudo in Grecia e nudo in Roma), lo ricollocò in grembo alla Venere spirituale (Celeste).

(Felice per tutte queste ragioni) ma ancora più felice perché conservi, raccolte nella chiesa (tempio) di Santa Croce, le glorie d’Italia (le tombe dei grandi), forse le uniche rimaste da quando le Alpi mal difese (vietate, latinismo, quindi attraversate dagli stranieri invasori), e il destino umano che, onnipotente, avvicenda momenti di gloria e momenti di decadenza, ti depredavano (t’invadevano, latinismo) delle armi, delle ricchezze (sostanze), degli altari (are), della possibilità di essere liberi (patria) e di tutto, tranne della memoria dell’antica condizione. Questi versi sono rivolti ancora a Firenze, ma si devono intendere come rivolti a tutta l’Italia, della quale la città toscana è il centro morale, proprio per i motivi accennati nei versi precedenti.

Così che, qualora (ove) torni a risplendere una speranza di azioni gloriose nelle menti coraggiose di pochi (animosi intelletti) e poi nell’Italia intera, proprio da lì, da Santa Croce, noi potremo trarre gli auspici benaugurali per le imprese che si compiranno.

D’altra parte alle tombe di Santa Croce (questi marmi) venne spesso a chiedere ispirazione Vittorio Alfieri. Adirato contro i Numi della patria (che sembravano aver voltato le spalle all’Italia), andava errando in silenzio dove le sponde dell’Arno sono più deserte, scrutando i campi e il cielo acceso di una segreta speranza (desïoso); e poiché nessuna forma di vita che scorgeva (nullo vivente aspetto) riusciva ad addolcirgli (molcea, latinismo) l’angoscia (cura, latinismo), quell’uomo di animo forte e integerrimo veniva qui (in Santa Croce) per cercare sollievo, e sul suo volto si mescolavano il pallore quasi mortale e la speranza di un avvenire diverso.

Ora è sepolto con questi grandi, per sempre, e le sue ossa hanno ancora un fremito d’amor patrio. È ben vero! da quella pace che circonda le tombe dei grandi e che ha un carattere sacro (religïosa) parla il Dio (Nume) che ispira l’amor di patria: e (quello stesso Dio) alimentava (nutrìa) il valore (virtù, latinismo) dei greci e la loro voglia di annientare gli invasori Persiani a Maratona, là dove Atene (dopo la vittoria) consacrò le tombe dei suoi eroi. A Maratona furono eretti due tumuli, uno per i caduti ateniesi ed uno per i loro alleati di Platea.

Il navigante che fece vela su quel mare vicino all’isola Eubea (di fronte alla pianura di Maratona), attraverso la vasta oscurità della notte vedeva lampeggiare (balenar) scintille prodotte dal cozzo di elmi e spade (brandi), e le cataste di legna su cui si bruciavano i morti (pire) emanare un fumo fiammeggiante (igneo), e vedeva ombre (larve) di guerrieri rilucenti (corrusche) per le armi di ferro cercare la battaglia (pugna, latinismo); e nell’orrido e spaventoso silenzio della notte si spargeva (spandea) per i campi un incessante (lungo) tumulto di schiere di combattenti (falangi), un suono di tube (erano specie di trombe con cui si davano i segnali per la battaglia), e un rumore di incalzante galoppo di cavalli che si slanciavano (accorenti) e scalpitavano sugli elmi dei moribondi, e (si spargevano) il pianto dei vinti, i canti di vittoria (inni) e, sopra tutto, il canto delle Parche (le dee che decidevano la morte degli uomini).

Te felice, o Ippolito, che nella giovinezza (a’ tuoi verdi anni) hai potuto percorrere il vasto regno dei venti, il mare. E se il timoniere (piloto) alzò la vela (drizzò l’antenna) facendo rotta al di là delle isole del mar Egeo, certo sentisti le sponde dell’Ellesponto (sulle coste dell’Asia Minore, dove sorgeva Troia) risuonare (come parlando), e avrai sentito il moto delle onde (marea) ribollire e gemere (mugghiar) mentre trascinava le armi di Achille sopra la tomba (ossa) di Aiace sulle sponde (prode) del promontorio Retèo: la morte rende con giustizia (giusta… dispensiera) la gloria meritata ai valorosi (generosi); né la mente astuta, né la protezione dei re (Agamennone e Menelao) poterono conservare ad Ulisse, re di Itaca, le armi (spoglie) di Achille, premio difficile da conquistare (ardue), perché l’onda, suscitata dagli dèi dei morti (inferni dei), le strappò (ritolse) dalla poppa della nave di Ulisse che vagava per i mari (raminga).

Per parte mia, possano le Muse, che danno vita al pensiero umano, chiamare me, che la meschinità del momento (tempi) e il desiderio di onore costringono ad un continuo vagare in esilio (ir, andare, fuggitivo) tra genti diverse, per immortalare con la poesia (evocar) gli eroi.

(Le Muse) siedono a custodia delle tombe degli eroi, e quando il tempo con le sue ali fredde spazza via perfino le rovine di quei sepolcri, le Muse (Pimplée, epiteto delle Muse alle quali era sacro il monte Pimpla, in Macedonia) fanno lieti con il loro canto i deserti, e la bellezza del canto (armonia, la poesia) sopravanza il silenzio della morte di mille secoli. Ed ancora oggi nella regione in cui sorgeva Troia (la Troade) resta sterile perché non più coltivata (inseminata) ai viaggiatori appare splendente per la sua eterna gloria un luogo, consacrato all’eternità grazie alla ninfa (Elettra) alla quale si unì Giove, e al dio la ninfa diede un figlio, Dàrdano, da cui discese la stirpe che fondò Troia, ed in particolare Assaraco e i cinquanta figli sposati (talami) di Priamo, fino alla gente Giulia che fondò l’impero di Roma.

(E questo avvenne) perché quando Elettra sentì che la Parca (Atropo, quella delle tre Parche che tagliava il filo della vita causando la morte) la chiamava dall’atmosfera piena di vita della luce per avviarla ai Campi Elisi, dove le anime intrecciano danze (cori è grecismo), rivolgendo a Giove l’ultima implorazione (voto supremo) diceva: «Se mai ti furono cari i miei capelli, il mio viso e le dolci notti d’amore (vigilie), e il volere del destino non concede (assente) a me in quanto mortale una sorte migliore, l’immortalità, almeno dall’alto del cielo continua a mostrare la tua benevolenza (guarda) verso l’amica morta, in modo che (onde) rimanga la fama della tua Elettra». Pregando così, moriva. E Giove Olimpio se ne addolorava e, facendo con il capo immortale un cenno d’assenso alla preghiera, faceva piovere dai suoi capelli l’ambrosia sul corpo della Ninfa, rendendolo sacro assieme al suo sepolcro.

Qui ebbe sepoltura Erittonio e vi dormono le spoglie mortali di Ilo il giusto; qui le donne troiane si scioglievano i capelli (segno di lutto) cercando di allontanare (deprecando, latinismo), ahimè invano (indarno), dai loro mariti il destino di morte che incombeva su loro (imminente); qui venne Cassandra, quando il Nume di Apollo che abitava in lei la spingeva a predire (le fea parlar) la fine di Troia; e cantò alle anime dei troiani un carme profetico ispirato all’amore di patria (amoroso), e guidava i nipoti su quelle tombe, e insegnava (apprendeva) ai giovinetti il canto funebre (lamento) che esprimeva amore di patria. E sospirando diceva: «Oh se mai il cielo permetterà a voi di tornare qui da Argo, dove (trascinati via come schiavi dopo la vittoria dei greci) accudirete ai cavalli di Diomede, figlio di Tidèo, o di Ulisse, figlio di Laerte, invano cercherete la città vostra patria. Le mura, costruite da Febo Apollo, saranno fumanti sotto le loro rovine (reliquie). Ma i padri fondatori di Troia e i suoi eroi (Penati) continueranno ad avere la loro sede in queste tombe; giacché è una concessione dei Numi tutelari della patria conservare nobile (altèro) fama (nome, latinismo) anche nella sventura.

E voi palme (simbolo di gloria) e cipressi (alberi sacri ai morti) che le mogli dei figli di Priamo piantano, e che purtroppo crescerete assai presto innaffiati dalle lacrime delle vedove, proteggete i miei antenati: e chi rispettoso delle leggi religiose (pio) terrà lontana (asterrà) la scure e non vi abbatterà, meno si dovrà dolere di sciagure familiari (consanguinei lutti, che lo colpirebbero come punizione per l’atto sacrilego) e potrà accostarsi agli altari toccandoli con mani pure (santamente). La preghiera prevedeva che si poggiassero le mani sull’ara del dio che si invocava.

(Voi, palme e cipressi), un giorno vedrete aggirarsi sotto le vostre antichissime ombre un cieco mendico (Omero) ed entrare brancolando nei sepolcri (avelli, gli edifici costruiti o le camere scavate nella roccia, dove si collocavano le tombe vere e proprie), ed abbracciare le tombe (urne), e interrogarle. Le cavità (antri) più nascoste (secreti) del sepolcro risuoneranno d’una voce lamentosa (gemeranno) e ogni (tutta) tomba svelerà (la storia) di Troia, rasa al suolo per due volte e per due volte risorta sopra le strade rese deserte dalla precedente rovina (su le mute vie) ancora più splendida, per rendere più bello il definitivo (ultimo) trionfo dei greci (Pelidi, la stirpe di Pelèo, quella di Achille, l’eroe più forte, e di suo figlio Pirro, che prese il suo posto dopo che Achille fu ucciso) strumenti del fato (fatati).

Il poeta, sacro maestro della civiltà umana (sacro vate), placando col suo canto il dolore di quelle anime afflitte, renderà eterna la memoria dei re e degli eroi greci (Prenci argivi, cioè dei vincitori) per tutte le terre che sono circondate dall’Oceano, gran padre del mondo (Omero definisce l’Oceano «il fiume da cui ebbero origine tutte le cose»). E nello stesso tempo tu, o Ettore (l’eroe troiano per eccellenza, simbolo del valore sfortunato), riceverai l’onore del compianto, fino a quando sarà (ove fia) considerato sacro e degno di lacrime (lagrimato) il sangue versato per la patria, e fino a che il Sole splenderà sopra le sciagure degli uomini.

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link