
Questo volume nasce da una conferenza tenutasi nel 2017, il cui titolo, citando il dotto medievale Onorio di Autun, recitava “Auctor est aequivocum” (l’autore è equivoco), proprio a sottolineare la forte ambiguità che già un millennio fa caratterizzava il concetto autore, un concetto più che mai rilevante nell’antichità, nel Medioevo e ancora oggi.
Quali problemi di attribuzione solleva l’omonimia degli autori antichi?
L’omonimia è sicuramente una delle cause di spinosi problemi autoriali. Il contributo di Elisa Nuria Merisio del nostro volume, Semonides or Simonides? A century-ling controversy over the Authorship of a Greek elegiac fragment, ne porta un esempio. Nonostante le nostre scarse fonti, sappiamo che Semonide di Amorgo, poeta giambico di età arcaica è vissuto un po’ prima di Simonide di Ceo, autore di poesia monodica ed epigrammi. Nonostante questo non sia un caso di vera omonimia, i due poeti iniziarono a essere confusi già nell’antichità (complice l’evoluzione della pronuncia della lettera eta greca): autori come Plutarco e Strabone già sembrano non distinguerli e questo ha creato una intricata serie di problemi relativi all’attribuzione dei loro frammenti, come quello al centro del contributo di Merisio. La cosa singolare è che, in questo caso, nonostante vari tentativi di studiosi nel corso dei secoli—come quello del grammatico bizantino Cherobosco nel IX secolo—è solo con il sorgere della filologia classica tedesca dell’Ottocento che si è iniziato a fare un po’ d’ordine. Curiosamente, già alcuni fra gli antichi erano consci del problema dell’omonimia: il capitolo di Pietro Zaccaria, Distinguishing Homonymous Writers, Detecting Spurious Works: Demetrius of Magnesia’s ‘On Poets and Authors with the Same Name’, si occupa per l’appunto di Demetrio di Magnesia, grammatico del I sec. a.C. autore di un trattato Sui poeti e gli autori dallo stesso nome. Quest’opera ci è pervenuta in maniera frammentaria, ma dimostra una precoce attenzione a questo problema. Questi due esempi, dunque, danno un’idea di quanto sia spinoso il problema dell’omonimia e se da un lato alcuni autori antichi l’hanno evidenziato, in altri casi certe confusioni (o i loro strascichi) sono perdurate per secoli.
Quale ruolo svolgevano collaboratori, alunni, revisori, scribi nonché le fonti in relazione al lavoro autoriale?
Come scrive Luciano Canfora (Il copista come autore, Sellerio, 2002), “ci sono originali che non sono mai esistiti”. La trasmissione di un testo (antico, ma non solo) mette in moto una serie di meccanismi che coinvolgono l’intervento umano. In certi casi, l’intervento dei copisti “inquina” o semplicemente altera il testo dell’autore e influisce sulla fortuna di quell’opera, plasmandone in un certo senso forma e contenuto e, di conseguenza, le varie interpretazioni posteriori. In parole povere, gli interventi umani di copisti e scribi (errori casuali, interpretazioni erronee, modifiche a fin di bene, o perfino deliberati atti di censura) finiscono per determinare la storia e la ricezione di un testo tanto quanto l’intenzione dell’autore stesso.
Talvolta, di un testo esistono stesure diverse, di mano dello stesso autore. A tal proposito è bene menzionare il contributo di Federica Nicolardi, Beyond the Scribal Error: Clues on the History of Philodemus’ On Rhetoric, Book 1, che rintraccia la storia del testo del primo libro della Retorica di Filodemo di Gadara attraverso un papiro che costituisce verosimilmente una copia provvisoria.
Abbiamo poi il contributo di Elena Bonollo, The ‘Co-authorial’ Role of Ancient Pupils, Excerptores, and Copyists in the Genuinely Menandrean Γνῶμαι μονόστιχοι, che combina problemi di autorialità derivanti dall’intervento di copisti con questioni legate al suolo di studenti e antologizzatori.
Ancora, esistono casi di redazione collettiva, laddove il testo è il frutto di una discussione (e in alcuni casi anche stesura) avvenuta in ambito scolastico o in circoli letterari. In questi casi, individuare un’unica voce autoriale è pressoché impossibile. Nel nostro volume, in particolare, abbiamo il contributo di Gianmarco Cattaneo, Defensio Bessarionis: Giorgio Benigno Salviati and the Concept of Authorship in Cardinal Bessarion’s Circle, che affronta la questione dell’apporto della “familia” del cardinal Bessarione (ovverosia il suo circolo letterario) alla stesura della sua Refutatio deliramentorum Georgii Trapezuntii Cretensis, che va considerato essenzialmente un lavoro collettivo.
Quali sfide pongono i testi adespoti?
L’anonimato di un testo e la mancanza di confronto con l’autore possono, in effetti, sembrare una sfida. Tuttavia, non è infrequente per uno studioso di lettere antiche il doversi cimentare nello studio di testi adespoti nella letteratura classica e non solo. Pensiamo soltanto alla grandissima quantità di citazioni anonime fatte dai grammatici al semplice scopo di illustrare il significato e l’uso di un determinato lemma, o le tantissime citazioni dotte fatte da Ateneo di Naucrati nei suoi Deipnosofisti, che spesso dimentica o dà per scontata l’attribuzione di quel frammento di testo per noi perduto. In questo senso, la sfida che ci si presenta è quella di dover studiare lo stile, il contesto e provare a ipotizzare un’attribuzione. Nel nostro volume abbiamo, però, due casi in cui quest’operazione di attribuzione non è possibile, e occorre, dunque, accettare di studiare il testo per ciò che rappresenta, per il suo valore storico e, perché no, anche letterario. Il primo a trattare di questi temi è il contributo di Anna Dorotea Teofilo, ‘On Sail-Flying Ships Did I Roam the Great Sea…’: The Epitaph of an Anonymous Merchant from Brundisium, sull’epitafio latino di un anonimo mercante di Brindisi: l’autrice, pur senza mai cercare di attribuire l’epitafio a un autore, commenta l’intero testo e offre un’analisi dettagliata di un prodotto letterario il cui livello stilistico appare assai elevato. Il secondo caso è rappresentato dal capitolo di Nicola Reggiani, ΛΑΒΕ ΤΗΝ ΓΡΑΦΗΝ! Book Format, Authority, and Authorship in Ancient Greek Medical Papyri, che, ripercorrendo la storia del formato dei supporti materiali delle antiche ricette mediche, mette in evidenza alcune problematiche legate all’attribuzione di questi testi per lo più anonimi.
Quale incidenza aveva il fenomeno dei falsi nel mondo antico?
C’è falso e falso. Come hanno giustamente messo in luce gli studiosi, bisognerebbe distinguere tra ‘falsi’ e ‘plagi’: i primi sono prodotti che vengono attribuiti di proposito a un altro autore, mentre i secondi consistono nell’appropriazione di un’opera altrui—non che questa distinzione sia facile da fare. Anche acclarare la falsità di un’opera è una questione piuttosto spinosa: lo sa anche il pubblico non specialistico, che ha assistito per anni a un acceso dibattito sull’autenticità del famoso (o famigerato) Papiro di Artemidoro. In questo senso, nel nostro volume vengono portati degli esempi di falsi molto diversi fra loro.
Nell’articolo Defining a ‘pseudo-Plato’ epigrammatist, Davide Massimo si occupa degli epigrammi attribuiti in antico al filosofo Platone—che i moderni ritengono oramai (giustamente) spurii. Come questa attribuzione sia avvenuta è una faccenda molto complessa. Uno dei fattori in gioco, forse, è proprio la falsificazione. Un misterioso personaggio di nome Aristippo, forse in età imperiale, scrisse un’opera sugli affaires amorosi di personaggi celebri come tiranni e filosofi, verosimilmente per screditarli e metterli in ridicolo. Fra i frammenti superstiti ci sono per l’appunto delle citazioni di epigrammi attribuiti a Platone. Tuttavia, è molto difficile capire da dove Aristippo li abbia tratti: erano testi anonimi, che lui ha attribuito a Platone? Li ha composti per l’occasione? O ha ritoccato un po’ dei testi già esistenti? Questi esempi dovrebbero metterci in guardia sulle difficoltà di delineare i confini della falsificazione nel mondo antico, che sono non solo molto complessi ma anche meno perspicui per noi che abbiamo perduto così tanto della produzione antica.
Facciamo un altro esempio, con un bel salto nello spazio e nel tempo. Mentre molti testi antichi ci sono giunti tramite una trafila di copie medievali, le epigrafi sono dei reperti straordinari in questo senso perché ci sono giunte, più o meno, così come sono state prodotte. Ciò non vuol dire che non esistano falsi in epigrafia. In questo caso, però, è molto più frequente che la falsificazione abbia avuto luogo in età moderna. Chiara Calvano, nel suo contributo Forged Inscriptions in Early Epigraphic Corpora tratta proprio dei primi tentativi, operati da vari eruditi e studiosi europei del Cinquecento, di discernere le iscrizioni false nel momento in cui allestivano dei corpora di iscrizioni antiche.
L’incidenza dei falsi, dunque, è molto variabile ed è affascinante—ancorché complesso—determinare non solo come e quando abbiano avuto origine, ma anche indagare la strada che ha portato al loro smascheramento. Questo, sia chiaro, solo quando i dati a nostra disposizione ce lo permettono.
Roberta Berardi ha studiato lettere classiche presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, per poi proseguire i suoi studi con un dottorato di ricerca presso l’Università di Oxford, dove è stata anche lecturer. Attualmente insegna presso il Winchester College.
Martina Filosa si è formata in lettere classiche presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” ed ha proseguito i suoi studi in Germania presso l’Università di Colonia, dove attualmente è dottoranda di ricerca nell’ambito degli studi bizantini.
Davide Massimo si è formato alla Sapienza-Università di Roma ed è attualmente dottorando di ricerca in Classical Languages and Literature all’Università di Oxford.