
I deficit democratici abitano anche nella società?
Esistono certamente anche molti deficit democratici nella società. Una società che non sa dare vita a associazioni robuste e autonome dai partiti e dalle lobby, con notevole e frequente partecipazione degli iscritti, dei soci, è ovviamente deficitaria. Laddove prevale l’individualismo: “mi rappresento da solo”, “tratto direttamente con gli uomini e le donne, meno, che hanno potere”, “organizzo esplosioni di protesta (spesso senza proposta”, c’è un deficit che si manifesta in maniera quasi hobbesiana: “la protesta di tutti contro tutti”. Una società nella quale prevalgono le corporazioni (c’è un capitolo apposito nel mio libro), vale a dire associazioni che difendono sempre e comunque gli interessi dei loro associati, come i magistrati, numerosi sindacati di settore, la burocrazia, i giornalisti, i professori, è un ostacolo alla ricerca delle modalità, con le quali, di volta in volta, si può giungere all’individuazione di interessi generali, del bene comune. Una società che si frammenta e che non si confronta in dibattiti pubblici sui grandi temi (uno dei quali, è giusto non dimenticarsene, è come stare nell’Unione Europea e quali riforme proporre) è deficitaria proprio come una società che non sappia/non voglia imparare la propria storia e non studi e conosca la propria Costituzione. Una società priva di senso civico è intrinsecamente deficitaria.
In che modo le democrazie possono apprendere e (auto)correggere i propri deficit di rappresentanza e di decisionalità?
Molto spesso i deficit, ad esempio, quelli di rappresentanza e di funzionamento, sono visibilissimi. Quando qualcuno rivendica le improbabili virtù dell’astensionismo rende visibile il deficit di partecipazione. Quando un partito si nega al confronto parlamentare rende visibile il deficit di rappresentanza. Quando una piccola associazione (i piloti, ad esempio, oppure gli operatori di una linea metropolitana) prende in ostaggio un paese o una città rende visibile la sua volontà di non tenere in nessun conto gli interessi generali, quindi, il deficit di senso civico. Il processo di apprendimento dovrebbe cominciare negli asili e nelle scuole. Dovrebbe continuare sui luoghi di lavoro. Potrebbe, talvolta, emanare dal Parlamento se i rappresentanti sapessero e volessero comunicare alla società quanto importante e difficile è la politica come attività di sintesi fra esigenze diverse, talvolta divergenti. Il processo di apprendimento passa anche e molto attraverso i mass media e gli operatori della comunicazione, troppo spesso non preparati a chiarire concetti e procedimenti complicati come quelli del mondo contemporaneo. Talvolta, ma non è il caso italiano, tranne in pochi momenti della nostra storia, sono i politici stessi, rappresentanti e governanti (decisori) che hanno la grande opportunità di chiamare all’azione per superare i deficit. Li definisco “predicatori” di buona politica, che insegnano con i “sermoni”, ma anche con i loro comportamenti e con i loro stili di vita. Tali, nel XX secolo, sono sicuramente stati Winston Churchill e Charles de Gaulle. Oggi la personalizzazione politica, alla quale ho dedicato un capitolo, sembra favorire la comparsa di politici narcisisti e esibizionisti non di predicatori colti, credibili, capaci di correggere i deficit e di indicare la strada.
Come colmare i deficit?
Colmare i deficit si può, temporaneamente, poiché è il funzionamento stesso dei sistemi politici, alcuni più di altri, che, nel corso del tempo, fa sorgere deficit insospettati. Bisogna operare sia sulla società incoraggiandola ad acquisire interesse e informazione, a essere più partecipante, a combattere le istanze corporative che emergono in continuazione, ad aprire dibattiti sui grandi temi (oggi, oltre all’Europa, l’immigrazione e l’inclusione/esclusione, le diseguaglianze, produttive o intollerabili). Questa è una classica fatica di Sisifo. Con ogni generazione si rischia di dovere cominciare da capo. Sul versante istituzionale, esistono assetti, strutture, istituzioni e regole migliori di altre. Ho già detto delle leggi elettorali, ma aggiungo che bisogna guardare e eventualmente importare quelle che funzionano meglio, quelle che danno più potere di scelta e di influenza agli elettori (anche su questo c’è un capitolo). Bisogna semplificare il circuito istituzionale con chiara ripartizione di compiti e di responsabilità, anche personali, con premi e punizioni. Le democrazie sono diventate tali anche grazie all’attività di uomini e donne che si sono organizzati dando vita a partiti. Molti dei deficit politici e democratici che vediamo e lamentiamo dipendono dal declino dei partiti. Ne discuto nel capitolo intitolato Dalle oligarchie ai gazebo. Ricostruire partiti dal funzionamento interno democratico, aperti a cittadini che vogliano partecipare alla “conversazione” politica, ma anche ai processi decisionali, è un compito arduo, ma indispensabile per chi creda che si debbono colmare i deficit politici, sociali, democratici e vogliono impegnarsi a farlo. Tutto questo costa fatica e impegno, studio e azione, ma si può fare. Per non diventare e rimanere cittadini “deficitari” lo si deve fare.
Gianfranco Pasquino è Professore Emerito di Scienza Politica nell’Università di Bologna.