“Deep Thinking. Dove finisce l’intelligenza artificiale, comincia la creatività umana” di Garry Kasparov e Mig Greengard

Deep Thinking. Dove finisce l’intelligenza artificiale, comincia la creatività umana, Garry Kasparov, Mig GreengardA distanza di oltre vent’anni dallo storico match di scacchi che nel 1996 vide contrapporsi uomo e macchina, Garry Kasparov e il computer Deep Blue dell’Ibm, l’ex campione mondiale di scacchi rievoca con il libro Deep Thinking, scritto con Mig Greengard ed edito in Italia da Fandango Libri, quello storico scontro. Nel frattempo l’ex campione del mondo di scacchi (il più giovane campione della storia, nel 1985, a soli ventidue anni) ha percorso una approfondita ricerca che travalicando gli scacchi lo ha condotto a riflettere direttamente sul tema dell’intelligenza artificiale.

«Riesaminare ogni aspetto di quel disgraziato match con Deep Blue per la prima volta dopo vent’anni è stato difficile, lo ammetto. Per vent’anni sono riuscito, quasi sempre, a evitare di affrontare pubblicamente il tema dei miei match con Deep Blue, a parte le cose già note. Esistono molti libri su Deep Blue ma questo è il primo che racconta tutti i fatti, e l’unico a contenere la mia versione della storia».

Kasparov ricorda il «paradosso di Moravec, come lo chiamano gli esperti d’intelligenza artificiale e di robotica, negli scacchi, come in molti altri ambiti, le macchine sono brave in ciò in cui sono deboli gli esseri umani, e viceversa. Nel 1988 lo studioso di robotica Hans Moravec scrisse: “È relativamente facile fare in modo che il rendimento dei computer sia pari a quello degli adulti nei test d’intelligenza o nel gioco della dama, ma è difficile se non impossibile dare loro le abilità di un bambino di un anno quanto a percezione e mobilità».

Le conseguenze dell’automazione sul lavoro: «Negli anni Venti il sindacato degli addetti agli ascensori contava diciassettemila iscritti; gli scioperi con cui i suoi aderenti riuscivano a paralizzare le città, come quello di New York nel settembre del 1945, sicuramente furono oggetto di grande rimpianto quando negli anni Cinquanta quei lavoratori cominciarono a essere rimpiazzati dagli ascensori automatici a pulsanti.»

In realtà «le preoccupazioni legate all’avvento degli ascensori automatici sono molto simili a quelle attuali per le auto senza guidatore. […] Il ciclo che parte dall’automazione, passa attraverso la paura e arriva infine all’accettazione, è sempre lo stesso.»

E non si può negare che Kasparov lo affermi con cognizione di causa: «Poche persone al mondo più di me sanno che cosa significa veder minacciato il proprio lavoro da una macchina. Nessuno sapeva che cosa sarebbe accaduto se e quando una macchina avesse battuto il campione del mondo di scacchi. Ci sarebbero stati ancora tornei professionali? La stampa e gli sponsor si sarebbero ancora interessati ai miei match per il titolo mondiale, se la gente si fosse convinta che il migliore giocatore del mondo era una macchina? Le persone, in generale, avrebbero continuato a giocare a scacchi? La risposta a queste domande per fortuna si è rivelata positiva, ma questi scenari apocalittici furono uno dei motivi per cui qualcuno nell’ambiente scacchistico criticò la mia intenzione di partecipare ai match uomo contro macchina.»

Kasparov ricorda allora che «tanti interessanti mestieri del mondo moderno nemmeno esistevano vent’anni fa, ed è una tendenza che continuerà ad accelerare. Progettisti di app, ingegneri della stampa in 3D, piloti di droni, social media manager, consulenti genetici: sono solo alcune delle professioni comparse negli ultimi anni.»

«Sostituendoci nei lavori manuali, le macchine ci hanno permesso di concentrarci maggiormente su ciò che ci rende umani: la nostra mente. Le macchine intelligenti continueranno questo processo, accollandosi gli aspetti più triviali dei processi cognitivi e orientando così la nostra attività mentale verso la creatività, la curiosità, la bellezza e la gioia.»

Gli scacchi sono «un prodotto culturale unico» e di grande popolarità: «ovviamente è impossibile conoscere con esattezza il numero di persone che giocano regolarmente a scacchi; ma secondo alcuni sondaggi ad ampio spettro condotti con le tecniche più moderne sono nell’ordine delle centinaia di milioni.» «L’abilità negli scacchi è sempre stata mitizzata come una specie d’incarnazione dell’intelligenza» In realtà, «molto di questo feticismo degli scacchi e dei suoi praticanti, deriva semplicemente dal fatto che si ha scarsa familiarità con questo gioco. Pochi occidentali giocano a scacchi, e ancora meno sono quelli che giocano a un livello che vada oltre la mera conoscenza delle regole.»

A differenza di giochi come il poker e il backgammon, «gli scacchi non contemplano la fortuna e sono in tutto e per tutto un gioco fatto di informazioni: entrambi i giocatori conoscono alla perfezione la posizione in ogni momento della partita. […] Proprio in virtù di questi fattori, gli scacchi puniscono senza pietà la disparità di livello tra i giocatori»

Nell’Unione Sovietica in cui è cresciuto Garry Kasparov, gli scacchi erano considerati uno sport professionistico. «I maestri e istruttori sovietici godevano di una certa reputazione e di un tenore di vita dignitoso. Tutti i cittadini sovietici imparavano a giocare, e con un bacino così ampio di giocatori era facile trovare un maggior numero di talenti d’eccellenza».

«Dopo la rivoluzione del 1917 i bolscevichi gli diedero la massima priorità, con il proposito di inculcare nella nuova società proletaria valori intellettuali e marziali. […] Anni dopo, Stalin, sebbene egli stesso non fosse granché come scacchista, continuò a promuovere e a sostenere gli scacchi con l’intento di mostrare al mondo la superiorità dell’uomo sovietico e del sistema comunista che lo generava.» Come risultato, «l’Unione Sovietica dominò nel mondo degli scacchi per decenni, vincendo la medaglia d’oro in diciotto delle diciannove Olimpiadi degli scacchi alle quali partecipò, dal 1952 al 1990. Il titolo mondiale fu detenuto da cinque sovietici a partire dalla prima competizione del campionato del secondo dopoguerra, nel 1948, fino al 1972, e poi di nuovo dal 1975 fino al crollo dell’Urss», nel 1990.

Sin dagli albori dell’informatica, gli scacchi sono stati considerati un eccellente banco di prova: «la macchina scacchistica è il punto di partenza ideale perché:
1. il problema è nettamente circoscritto sia quanto alle operazioni consentite (le mosse) sia quanto al fine ultimo (lo scacco matto);
2. non è così semplice da risultare banale né troppo difficile perché non si possa trovare una soluzione soddisfacente;
3. è generalmente assodato che gli scacchi sono un gioco di abilità e pertanto necessitano del “pensiero”; per trovare una soluzione a questo problema saremo costretti o ad ammettere la possibilità di un pensiero meccanizzato o al contrario a restringere ulteriormente il nostro concetto di “pensiero”;
4. la struttura probabilistica degli scacchi ben si adatta al carattere digitale dei moderni computer.»

Ma come gioca un campione? «A parte le sequenze di apertura che sono effettivamente mandate a memoria, i giocatori umani forti non si affidano tanto al ricordo quanto a un rapidissimo programma di analogie. Quando esamino una posizione, che sia una mia partita o quella di qualcun altro, nel mio processo di ricerca delle mosse c’è poco di coscientemente sistematico. Alcune mosse sono forzate, o nel senso che sono proprio obbligate, come nel caso di uno scacco che mette sotto attacco il re, oppure quando qualsiasi altra mossa porta evidentemente alla sconfitta. Queste situazioni si verificano regolarmente durante una partita, come quando un tuo pezzo viene catturato e tu devi mangiare a tua volta per non ritrovarti in un grosso svantaggio di materiale. In alcune partite possono esserci decine di mosse forzate, e in questi casi non serve quasi nessuna ricerca.

Mosse forzate a parte, per ciascuna posizione ci saranno tre o quattro mosse plausibili, talvolta anche dieci o giù di lì. Anche in questo caso, prima che la mia mente faccia partire la ricerca, ne avrò già selezionate alcune da analizzare più approfonditamente – quelle che noi chiamiamo mosse candidate. Ovviamente, non dovrò partire da zero se sto giocando io: avrò pianificato la mia strategia ed esaminato le varianti più probabili durante il turno dell’avversario. Se fa la mossa che mi aspettavo, è possibile che io risponda all’istante. Spesso pianifico in anticipo una sequenza di quattro o cinque mosse, così mi concederò una pausa solo per controllare di nuovo i miei calcoli, se la sequenza va come previsto.

Buona parte del tempo per la ricerca e la valutazione è dedicato alla variante principale, cioè alla mossa che ho selezionato come la più probabile proprio all’inizio del gioco. A questo punto le mie abilità di calcolo tentano di convalidare la mia intuizione. Se la mossa dell’avversario è a sorpresa, ossia qualcosa che non avevo preso in considerazione nel tempo a mia disposizione per ponderare la sua mossa, potrebbe servirmi del tempo extra per leggere attentamente l’intera scacchiera a caccia di nuove debolezze e nuove opportunità.»

Per i computer è invece diverso: «Il grosso problema dei programmi scacchistici è l’immenso numero di continuazioni possibili, ossia il cosiddetto “fattore di diramazione”.» Già, perché «in una partita ci sono oltre trecento miliardi di modi possibili di giocare già solo le prime quattro mosse. Per una posizione media ci sono circa quaranta mosse legali. Pertanto, considerando ogni risposta a ciascuna mossa, sono già milleseicento le mosse da valutare. Dopo due mosse ciascuno, ve ne saranno 2,5 milioni; dopo tre mosse, 4,1 miliardi. Una partita in media dura quaranta mosse, e dunque arriviamo a cifre più che astronomiche. Il numero totale di posizioni legali in una partita a scacchi è paragonabile al numero di atomi nel nostro sistema solare»!

Come identificare dunque la mossa giusta? Svariati sistemi stanno ricorrendo a «tecniche come gli algoritmi genetici e le reti neurali per programmarsi sostanzialmente da soli. Purtroppo, almeno finora, non si sono dimostrati più forti dei tradizionali sistemi a ricerca rapida che si affidano alle conoscenze umane precodificate. Ma questa è colpa degli scacchi, non dei metodi usati.» Nonostante «John McCarthy, lo scienziato informatico americano che nel 1956 coniò l’espressione “intelligenza artificiale”» definisse gli scacchi “la drosofila dell’intelligenza artificiale”, «volendo con ciò accomunarli al moscerino della frutta che, per quanto umile, era il soggetto ideale per numerosi importanti esperimenti di biologia, soprattutto nel campo della genetica», le macchine superveloci basate sulla forza bruta di motori scacchistici che calcolano miliardi di posizioni per trovare la mossa migliore e la ricerca alfabeta, fanno incetta di trofei.

Ed eccoci dunque alla storica partita. In realtà furono le 6 partite del match di Filadelfia e si conclusero con una vittoria a testa la prima (Deep Blue) e la seconda (Kasparov), patte la terza e la quarta. Tuttavia «durante la quarta partita ci fu l’ennesimo intoppo tecnico». Deep Blue subì un crash e dovette essere riavviato. «Ero infuriato – racconta Kasparov – perché distolto dal mio stato di profonda concentrazione in un momento chiave della partita. Ci vollero venti minuti per farlo ripartire e quando tornò in funzione giocò una mossa forte […] Ciò m’indusse a domandarmi se per caso ci fosse di mezzo qualcos’altro oltre ai bug (dall’analisi successiva è emerso che il sacrificio avrebbe sicuramente portato a una posizione pressoché paritaria).»

Nella quinta Kasparov offrì una patta anticipata già alla trentatreesima mossa. «La patta ha sempre fatto parte degli scacchi, almeno nella storia moderna di questo gioco. Ci sono molte posizioni in cui nessuno dei due giocatori può prevalere, compreso lo stallo, ossia quando il giocatore cui spetta di muovere non può fare mosse legali, e a quel punto la partita è dichiarata patta. Poiché la patta vale mezzo punto per entrambi i giocatori, è decisamente meglio pareggiare che perdere e rimanere senza nulla in mano. L’offerta di patta fu introdotta come una forma di cortesia affinché i giocatori forti evitassero di logorarsi continuando a giocare posizioni tediose e palesemente paritarie per non approdare a nulla.»

«I problemi cominciarono quando i maestri si misero a sfruttare l’offerta di patta in chiave strategica, o addirittura tattica. Se una patta faceva comodo nella classifica del torneo, perché non provare a vedere se anche l’avversario avrebbe gradito una mezza giornata libera offrendo una patta? Oppure, se ci si rendeva conto che la propria posizione si stava deteriorando, perché non offrire una patta per testare che ne pensava l’avversario? Presto divenne una specie di epidemia, con partite sbrigative che duravano qualche minuto e una decina di mosse, anche tra Grandi maestri forti.»

«Alla fine, gli organizzatori dei tornei più importanti hanno deciso di non avallare più questo comportamento e hanno introdotto regole come quella del numero minimo di mosse. Oggi è la norma che nelle competizioni non sia permesso offrire la patta prima della trentesima o quarantesima mossa. Nel corso dei decenni i giocatori sono diventati sempre più forti e precisi, e così il numero delle patte ai massimi livelli è aumentato, tanto che ormai quasi la metà delle partite nei tornei di eccellenza si conclude in questo modo.»

Tuttavia «il team di Deep Blue declinò l’offerta e decise di continuare a giocare.» Kasparov vinse alla quarantacinquesima mossa. E vinse anche la sesta partita.

Vinto per 4 a 2 il match di Filadelfia, la rivincita di New York, l’11 maggio 1997, vinta dal supercomputer dell’Ibm fu segnata dalla polemica su un presunto ‘intervento umano’. Deep Blue fu ritirato e non giocò più nemmeno una partita. «Posso essere d’accordo con quelli che dicono che l’Ibm aveva già ottenuto ciò che voleva – afferma l’ex campione russo -, ossia un ritorno pubblicitario incredibile e un aumento del valore azionario di 11,4 miliardi di dollari in una sola settimana.»

Il resoconto dettagliato di quelle partite, direttamente dalla voce del protagonista, è avvincente e ricchissimo di dettagli sconosciuti. Come rammenta Kasparov, «mi sono rassegnato al fatto che quasi nessuno ricorda la mia vittoria contro di lui nel primo match del 1996.»

In ogni caso, quale che sia il nostro pensiero sull’intelligenza delle macchine e sulle implicazioni che essa avrà per le nostre vite, si può affermare con certezza che quella di Deep Blue sia stata una vittoria per gli esseri umani, che sono stati capaci di costruire quella macchina.

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