“Declino Italia” di Andrea Capussela

Dott. Andrea Capussela, Lei è autore del libro Declino Italia edito da Einaudi: perché l’Italia non cresce?
Declino Italia, Andrea CapusselaL’Italia non cresce perché ha smesso di innovare. È soprattutto questo che deprime la produttività, che a sua volta è il vero motore del benessere materiale.

Nei primi decenni dopo la guerra l’Italia cresceva molto rapidamente, più di quasi tutte le economie comparabili, perché importava tecnologie di frontiera e spostava capitali e lavoratori nei settori che meglio potevano impiegarle. Questo processo l’ha portata sui livelli delle economie più avanzate, attorno all’inizio degli anni Ottanta. Ma a questo punto l’Italia avrebbe dovuto iniziare a generare essa stessa innovazione di frontiera. Non lo ha fatto abbastanza, e la crescita della produttività ha iniziato a flettere. Era fisiologico che dopo quella rincorsa ci fosse un rallentamento, ma dagli anni Novanta la produttività è pressoché ferma.

Bastano tre dati per rendere l’idea. Nel primo decennio del nuovo secolo l’economia italiana ha avuto il tasso di crescita medio annuo più basso del mondo. La doppia recessione del quinquennio 2008–14 è stata la più grave della storia unitaria. E nel quinquennio successivo la crescita non ha raggiunto la metà della media dell’eurozona. Infatti subito prima della pandemia il reddito degli italiani era tornato all’incirca sul livello della metà degli anni Novanta. E siccome il reddito è distribuito in modo relativamente disuguale, ciò significa che larghe fasce della popolazione si sono impoverite.

Per fare un paragone, in Francia, Germania e anche Spagna, che pure hanno subito le medesime gravissime crisi internazionali iniziate nel 2008, il reddito è ora di circa un quarto superiore al livello raggiunto alla metà degli anni Novanta. Quindi non è un caso se l’Italia è la sola democrazia consolidata dell’Europa continentale nella quale partiti demagogici o populisti controllano la larga maggioranza dei seggi in parlamento.

Il legame tra il malessere economico dell’Italia e il suo malessere sociale e politico mi pare chiaro: se crescessimo di più lo scontento e la sfiducia politica sarebbero meno diffusi.

È possibile fornire una lettura unitaria delle cause economiche e politiche del declino dell’Italia?
È necessario farlo, per tornare alla crescita, e credo sia possibile. Provo a riassumere la catena causale che ho tentato di ricostruire, che parte dall’economia e sale alla politica e all’organizzazione della società.

La principale causa prossima del rallentamento della produttività mi pare chiara. Nelle economie avanzate tanto più le imprese sono grandi, solidamente capitalizzate e stimolate dalla concorrenza, tanto più tendono a innovare. Rispetto alle loro omologhe straniere, le imprese italiane sono mediamente più piccole, meno capitalizzate, meno stimolate dalla concorrenza, e anche peggio gestite: è soprattutto per questo che innovano, e crescono e assumono di meno.

La lista delle cause di queste debolezze è lunga e nota, e non la ripeto. Include l’inefficienza dello stato, i bassi investimenti in ricerca e sviluppo, e molto altro. Tutto ciò spiega perché in Italia le imprese innovino meno che altrove. Ma non spiega l’inversione del percorso seguito dal paese, che ebbe prestazioni brillanti nel trentennio successivo alla guerra ma poi lentamente si spense. Molti di quei difetti pesavano anche sull’Italia di allora, infatti, ed erano spesso più gravi di quanto siano adesso. La vera domanda è perché l’Italia, dopo aver raggiunto le economie più avanzate, non abbia saputo tenere il loro passo.

La risposta non pare difficile. In quel trentennio, durante il quale la crescita era spinta soprattutto dall’importazione e dall’adattamento di tecnologie straniere, quei difetti non furono un serio ostacolo allo sviluppo, anche grazie del ruolo dell’impresa pubblica. Diventarono un ostacolo quando l’Italia, come i suoi pari, avvicinò e infine raggiunse la frontiera, sui primi anni Ottanta. Il paese avrebbe allora dovuto gradualmente cambiare l’organizzazione della propria economia, per darsi un modello di crescita più fondato sull’innovazione endogena, ma lo fece tardi e poco.

E per caricare di senso questa osservazione, che può sembrare asettica, conviene ricordare che la crescita economica, e soprattutto quella fondata sull’innovazione, è un fenomeno dialettico, conflittuale. Perché le nuove innovazioni scalzano le precedenti, e in parallelo i nuovi innovatori rimpiazzano le élite formatesi nel periodo precedente. È ciò che si chiama la distruzione creatrice: l’invenzione del motore, per esempio, spiazzò le imprese del trasporto a cavallo, e dissolse i loro profitti. Affinché l’innovazione spinga la crescita, pertanto, occorre che gli innovatori trovino lo spazio per sfidare le élite economiche consolidate; e ciò dipende dal modo in cui l’economia è organizzata.

La domanda diviene allora perché l’Italia, raggiunta la frontiera, non seppe adeguare l’organizzazione della propria economia?

Per rispondere bisogna guardare alle regole che l’organizzano un’economia, e orientano gli incentivi di cittadini, imprese e autorità pubbliche. E queste regole vanno intese come quelle che effettivamente operano nel mondo reale: ossia vanno intese come la risultante della combinazione tra le leggi scritte, le norme sociali, non scritte ma diffusamente seguite, e il modo in cui leggi e norme sociali sono congiuntamente applicate. È questa combinazione che determina i comportamenti e le aspettative di cittadini, imprese e autorità.

In Italia le regole scritte sono raramente pessime, e in larga parte sono molto simili a quelle dei paesi nostri pari, perché sono di provenienza europea. Ma le regole che effettivamente operano sul mondo reale sono diverse, perché quelle scritte sono meno rispettate che in paesi comparabili.

È un problema che conosciamo tutti, e che ci pare impalpabile: ma è misurabile. Esiste un indicatore, per esempio, elaborato dalla Banca mondiale, che ordina le nazioni secondo una scala che va da 2,5 a –2,5 a seconda di quanto le leggi, in generale, siano rispettate. Nel 2018 in testa alla graduatoria erano Finlandia (2,05) e Norvegia (1,97), in coda Somalia (–2,33) e Venezuela (–2,34). Il livello dell’Italia era 0,25, la media dei suoi pari 1,44. Un baratro.

E come nel caso della produttività questo divario è l’esito a una lunga discesa. Perché nel 1996, quando iniziarono queste stime, il livello dell’Italia era 1,06 e la media dei suoi pari 1,50: un divario (–0,44) inferiore alla metà di quello del 2018 (–1,19).

Certo simili indicatori, fondati sulla rilevazione di percezioni, devono essere presi con estrema cautela. Ma tutto ciò che sappiamo sull’evasione fiscale, l’abusivismo edilizio, la corruzione, suggerisce che quell’indicatore segnali un problema reale.

Dunque in Italia le leggi che governano l’economia e la società sono generalmente adeguate, o quantomeno non molto dissimili da quelle di paesi che se la cavano meglio di noi, ma sono distorte perché sono troppo spesso violate. E la distorsione delle regole tipicamente crea iniquità e inefficienze: l’effetto, spesso, è di rendere agevole alle élite di difendersi dagli innovatori che potrebbero sfidarle.

Ma perché in Italia la supremazia della legge è debole? La risposta più convincente sta in questa definizione, che traggo da un saggio di Joseph Stiglitz: la supremazia della legge «è ciò che impedisce ai pochi di rubare ai molti». Le regole tutelano i forti, infatti, non i deboli. E se le regole effettive divergono da quelle scritte solitamente la ragione è che qualcuno, «i pochi», ne trae beneficio a danno di altri, «i molti».

Quindi la supremazia della legge può tanto più facilmente indebolirsi, e poi restare debole, quanto più tenui sono le motivazioni ideali e gli incentivi materiali che spingono la politica a fare prevalere l’interesse generale su quelli particolari. Il principale incentivo in questa direzione è l’armamentario della responsabilità politica: la soggezione delle autorità pubbliche al giudizio degli elettori, naturalmente, ma anche la democrazia interna dei partiti, i loro meccanismi di selezione di dirigenti e candidati, la voce della società civile, l’indipendenza dei media, e più in generale tutto ciò che agevola la critica pubblica dei governanti.

È un legame doppio, e capace di innescare circoli viziosi e virtuosi. Più la responsabilità politica è debole, meno le autorità pubbliche saranno spinte ad assicurare il rispetto della legge; ma più s’indebolirà la supremazia della legge peggio funzioneranno anche i meccanismi della responsabilità politica, molti dei quali dipendono dalla corretta applicazione della legge. E naturalmente vale anche il reciproco: al rafforzarsi della responsabilità politica tipicamente seguirà un rafforzamento della supremazia della legge, che avvierà un circolo virtuoso.

In Italia anche la responsabilità politica è relativamente debole. Le ragioni principali sono due, a mio parere. Da un lato, i partiti politici sono timorosi degli elettori, privi di cultura politica, instabili, abbracciati allo stato, vulnerabili alle minoranze organizzate, e spesso inclini a colludere tra loro e con le élite economiche, e in particolare con quel segmento di esse che è meno capace di innovazione e pertanto teme la distruzione creatrice. Dall’altro lato, i cittadini sono poco informati ed esigenti, capaci più di protesta silenziosa che di pressione organizzata.

È per questo che la vasta maggioranza dei cittadini, che ricava solo danni dalla debole supremazia della legge, non riesce a imporre l’interesse generale, che vorrebbe un ordine sociale più equo ed efficiente. È un problema di azione collettiva: la maggioranza disorganizzata soccombe di fronte a quelle minoranze organizzate che traggono benefici dallo status quo.

Di chi sono dunque le responsabilità principali?
Quello che ho tentato di descrivere è un fenomeno che coinvolge l’intera società e si è sviluppato sull’arco di decenni. Non ha un punto d’inizio preciso nella storia della penisola, e non dipende dalle scelte di singole persone o gruppi d’interesse. Dipende invece dai reiterati comportamenti di milioni di italiani.

Certo, alcune scelte possono avere favorito il declino del paese, e alcune occasioni di invertirlo sono state perdute. Ma è più utile riflettere su chi, ora, si opponga o altrimenti impedisca il miglioramento delle cose. Gli oppositori del cambiamento naturalmente sono coloro che traggono benefici dall’attuale assetto politico-economico. Essi sono pochi tuttavia, e si ritrovano soprattutto tra le élite del Paese. La loro forza risiede nel fatto che, come dicevo, la maggioranza non riesce a organizzarsi. Molti cittadini e molte piccole e medie imprese anzi accettano lo status quo: si piegano alla sua logica, e coi loro comportamenti la rafforzano.

Quello italiano, è un processo irreversibile?
È sicuramente reversibile. Ho già detto che la reciproca influenza tra supremazia della legge e responsabilità politica può generare sia circoli viziosi sia circoli virtuosi. Tutto dipende dal comportamento delle persone, che può cambiare perché dipende dalle loro idee.

Prendiamo un esempio: il clientelismo politico. Non è certo la singola maggiore causa dei nostri problemi, ma è molto semplice da analizzare. Spesso, dove esso prevale per avere lavoro bisogna legarsi a un politico. E questi raramente sarà un buon amministratore, perché il suo successo dipende più dal voto clientelare che dalla bontà dei programmi. Tutti sanno, pertanto, o possono facilmente capire, che quel sistema li danneggia: ma rifiutarlo può significare non trovare lavoro. Per cambiare le cose bisogna che tutti – o almeno molti – lo rifiutino, smettendo di votare per i politici clientelari.

Quindi può essere pienamente razionale accettare il clientelismo, se le sue vittime, prese singolarmente, non sentono che i loro pari sono pronti a rifiutarlo, o non vedono una politica migliore all’orizzonte.

Allora come se ne esce? Occorre prima capire la logica che ho appena descritto, affinché ciascuno riveda i propri interessi, e poi tutti devono ricevere segnali credibili che li spingano a muoversi assieme, nell’interesse comune e individuale.

In che modo si può, a Suo avviso, avviare il rilancio?
La chiave sono i segnali credibili ai quali ho appena accennato. Il compito della politica, nell’Italia di questo decennio, è soprattutto questo: spiegare ai cittadini le cause profonde dei loro problemi maggiori, e offrire loro una visione sufficientemente credibile e attraente da spingerli a muoversi collettivamente contro fenomeni che li danneggiano tutti.

È a questo che dedico l’ultima parte del libro. Perché non vedo altro modo per i cittadini di superare il problema dell’azione collettiva, che li lascia indifesi di fronte alla logica che ho descritto sopra.

Il grande rilievo che ha ora assunto il tema della disuguaglianza non può che aiutare, aumentando la pressione per spostare il paese verso un ordine sociale gradualmente più equo ed efficiente. Questi due obiettivi, infatti, possono essere perseguiti congiuntamente: e l’Italia, manifestamente, ha bisogno di entrambi.

Andrea Capussela è visiting fellow alla London School of Economics. Ha guidato l’ufficio economico dell’International Civilian Office in Kosovo, è stato consigliere del ministro dell’economia della Moldavia per conto dell’Unione europea e ha lavorato sullo sviluppo della Calabria. Tra le sue pubblicazioni: State-Building in Kosovo (Bloomsbury 2015), The Political Economy of Italy’s Decline (Oxford University Press 2018; trad. it. Declino. Una storia italiana, Luiss University Press 2019) e Declino Italia (Einaudi 2021).

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