“Debito pubblico. Come ci siamo arrivati e come sopravvivergli” di Massimo Bordignon e Gilberto Turati

Prof.ri Massimo Bordignon e Gilberto Turati, Voi siete autori del libro Debito pubblico. Come ci siamo arrivati e come sopravvivergli edito da Vita e Pensiero: innanzitutto, che cos’è il debito pubblico?
Debito pubblico. Come ci siamo arrivati e come sopravvivergli, Massimo Bordignon, Gilberto TuratiUna definizione semplice è che il debito è la somma di tutti i soldi che, in certo momento storico, le “amministrazioni pubbliche” nel loro complesso devono ai residenti italiani o esteri, banche, imprese o privati cittadini. È quello che gli economisti chiamano uno stock, una quantità misurata in un dato istante di tempo. Per esempio, secondo i dati ufficiali pubblicati dalla Banca d’Italia, lo stock di debito delle Amministrazioni pubbliche era pari a 2.410 miliardi al 31 dicembre del 2019, prima della pandemia, ed è arrivato a 2.734 miliardi di euro al 31 agosto 2021, prima di chiudere il volume. L’ultimo dato pubblicato dalla Banca d’Italia il 15 marzo di quest’anno parla di 2.713 miliardi di euro. Alcune precisazioni: la prima è che questo è il debito consolidato delle “Amministrazioni pubbliche”, quindi degli organi centrali dello Stato, delle amministrazioni locali (dalle regioni fino ai comuni), degli enti di previdenza. Se si guarda a questi tre settori appare chiaro che, in realtà, il debito è per la gran parte debito dello Stato inteso come “amministrazioni centrali”. La seconda è che si tratta di un debito “lordo”, cioè non si tiene conto del patrimonio pubblico, molta parte del quale è di fatto intangibile e, per la parte che può essere venduta, di difficile realizzabilità (si pensi agli edifici pubblici). La terza è che si tratta di debito “esplicito”, cioè non tiene conto dei debiti che implicitamente lo Stato si è già assunto, per esempio nei confronti dei pensionati futuri che oggi hanno già versato rilevanti contributi.

Da cosa è composto il debito pubblico?
La gran parte del debito pubblico, circa l’84%, è sotto forma di titoli di Stato; ad esempio, i Buoni Ordinari del Tesoro (i BOT) o i Buoni del Tesoro Poliennali (i BTP). Questi sono titoli che il Tesoro italiano (il MEF dei giorni nostri) emette per conto dello Stato e il cui capitale lo Stato si impegna a rimborsare alla scadenza del titolo. Essendo titoli possono essere venduti e acquistati facilmente tra i sottoscrittori anche prima della scadenza. Sono quindi una forma di investimento apprezzata e avere tanto debito in questa forma rende il mercato liquido. Le forme tecniche dei titoli, la scadenza, la valuta in cui i titoli sono denominati sono diverse; e sono diverse perché rispondono ad esigenze finanziarie di sottoscrittori diversi. Una compagnia di assicurazione può essere interessata a scadenze anche lunghissime per le sue riserve; una impresa che vuole collocare la sua liquidità ha esigenze esattamente opposte. Anche le monete metalliche però sono debito pubblico, così come (in parte) i depositi garantiti dallo Stato della Cassa Depositi e Prestiti.

Quando scade il debito pubblico?
Come detto, ci sono titoli con scadenza molto breve ed altri con scadenza molto lunga. Un obiettivo perseguito con successo dal Tesoro italiano negli ultimi decenni, è stato quello di allungare le scadenze medie del debito. La durata media del debito italiano all’inizio degli anni Novanta era attorno ai tre anni, adesso supera i sette. Questo significa che, in media, ogni anno solo circa 1/7 del debito scade e deve essere rinnovato; sono circa 400 miliardi all’anno. Il rinnovo naturalmente avviene alle condizioni di mercato vigenti e questo spiega perché allungare la scadenza del debito potrebbe essere una buona idea per un paese fortemente indebitato: se i tassi di interesse salgono il costo del debito cresce, ma solo per la quota che viene rinnovata in quel particolare momento.

A che serve il debito pubblico?
Non c’è una risposta semplice e condivisa a questa domanda, così come non c’è sicuramente accordo su quale sia il livello “ottimale” di debito pubblico che un certo paese dovrebbe accumulare in un certo periodo. Una prima risposta è che il debito pubblico si è accumulato nel tempo per offrire servizi e infrastrutture che consentono l’implementazione di politiche pubbliche che hanno avvantaggiato sia le generazioni presenti sia quelle future. Una scuola o un ospedale pubblico non sono solo per la generazione corrente, ma anche per quelle future. Una seconda risposta è che il debito pubblico può essere la soluzione più efficiente in presenza di gravi crisi i cui effetti si spalmano su più generazioni. Il riferimento classico è rappresentato dalle guerre; ma lo stesso ragionamento vale anche per altri fenomeni, come la pandemia che abbiamo appena vissuto. Infine, c’è almeno un’altra ragione per cui un certo livello di debito pubblico è utile per il funzionamento del sistema economico. Tolte situazioni eccezionali, in cui il livello del debito pubblico è talmente elevato da suscitare dubbi sulla solvibilità dello Stato, i titoli del debito pubblico sono considerati una attività priva di rischio da parte degli investitori (o comunque con il più basso livello di rischio tra tutti gli strumenti finanziari presenti sul mercato). Queste caratteristiche rendono il debito pubblico un’attività “sicura” (un safe asset); ed è sempre più evidente che i sistemi finanziari moderni hanno bisogno di un’attività di questo tipo per svolgere propriamente le loro funzioni.

Chi ha comprato il debito pubblico italiano?
L’ultimo dato disponibile fornito dalla Banca d’Italia prima di chiudere il libro, giugno 2021, diceva che il 23% del debito era detenuto dalla Banca d’Italia, il 25% dalle banche commerciali italiane, il 13% da parte delle altre istituzioni finanziarie residenti (fondi di investimento, fondi pensione, assicurazioni, etc.), l’8% infine da famiglie e imprese italiane. Complessivamente, quindi, circa il 70% era detenuto da cittadini o imprese italiane. Il 30% che rimane è detenuto da non residenti, cittadini o imprese straniere. Queste percentuali variano nel tempo e la quota più volatile è rappresentata proprio dai non residenti.

Quali sono gli indicatori sulla sostenibilità del debito?
La maggior parte della discussione sulla sostenibilità del debito si concentra su un semplice indicatore, il rapporto tra il debito pubblico lordo di un paese e il suo PIL in un anno. Tanto più questo rapporto è elevato, tanto più rischioso e meno sostenibile viene considerato il debito. Il nostro debito, dopo la pandemia, ha raggiunto il 155% del PIL, quindi un valore molto elevato e potenzialmente rischioso. Nel contesto europeo, a questo indicatore è stata data anche una base giuridica con il Trattato di Maastricht, quando i paesi europei si sono impegnati a mantenere il rapporto sotto il 60% o a tendere a quel livello, se l’attuale livello fosse stato maggiore. Non è però l’unico indicatore: per esempio, la Commissione Europea tiene conto anche del debito implicito in alcune sue valutazioni, cioè delle promesse fatte ai cittadini (in termini di servizi) con la legislatura attuale che non sono coperte dalla probabile evoluzione futura delle entrate fiscali; e, per quanto forse sorprendente, il nostro paese ne esce meno peggio di molti altri, come l’Olanda, la Germania o perfino il Lussemburgo. La ragione è che il paese ha già fatto importanti riforme nel campo della previdenza pubblica, ha un welfare poco sviluppato in alcuni settori e ha un fondo unico che facilita il controllo della spesa sanitaria.

Quando e come è nato il nostro debito pubblico?
Se vogliamo proprio iniziare da molto lontano, la storia del debito pubblico italiano parte subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia, il 17 marzo 1861, con la Legge 10 luglio 1861, n. 94, legge con la quale si istituisce il Gran Libro del Debito Pubblico Italiano sul modello francese. La dinamica del debito è fin da subito molto rapida, perché il neonato Regno d’Italia si accolla i debiti degli Stati preunitari e l’accesso ai capitali esteri viene considerato necessario per finanziare la crescita del paese, molto più povero degli altri paesi europei. Il debito pubblico già supera il 100% del Pil vent’anni dopo l’unificazione e arriva quasi al 160% del Pil alla fine della Prima Guerra Mondiale con i debiti della guerra. Ma pensare che il debito di oggi è frutto delle scelte di quell’epoca ormai lontana è sbagliato, perché l’inflazione del secondo dopoguerra brucia quasi per intero il debito dell’Italia monarchica. Per un lungo periodo, che va dalla fine della guerra agli anni Sessanta, il debito pubblico dell’Italia repubblicana non supera il 40% del Pil. È con le scelte di finanza pubblica degli anni Settanta e, ancora di più, negli anni Ottanta che il debito letteralmente esplode, quasi raddoppiando in un decennio; complice anche la politica monetaria nazionale e internazionale che cambia regime, facendo aumentare molto i tassi di interesse in funzione antinflazionistica (all’inizio degli anni Novanta la spesa per gli interessi sul debito supera il 10% del Pil). Purtroppo, sono le scelte di bilancio di quegli anni, con anche il continuo accumulo di disavanzi primari, a determinare il macigno che ci portiamo addosso oggi. Il riformismo dei governi degli anni Novanta guidato dalla volontà di agganciare l’euro fin da subito e poi l’entrata nell’euro e la risultante riduzione marcata dei tassi di interesse portano il debito su un sentiero di lenta ma costante decrescita. Poi però le crisi degli anni Duemila e Duemiladieci (la bolla delle dot.com, la crisi finanziaria internazionale del 2008-9, la crisi dell’euro innestata dal caso greco nel 2010-12, e il ritardo con cui l’Unione Europea reagisce) deprimono fortemente il reddito e contribuiscono a rispedire il debito su PIL in orbita, fin quasi ai livelli raggiunti dopo la Prima Guerra Mondiale.

In quali altre circostanze storiche il debito pubblico ha gravato sul nostro Paese?
L’Italia è sempre stato un paese ad alto debito. Per giunta, in alcune fasi, con una forte dipendenza dall’estero. E questo non solo durante il periodo monarchico, quando l’Italia era fondamentalmente un paese agricolo povero e ricorrere a prestiti dalla Francia, dall’Inghilterra o dagli Stati Uniti era una scelta quasi obbligata per finanziare gli investimenti. Negli ultimi vent’anni, la quota di debito sottoscritta da investitori esteri ha superato il 30% del debito, arrivando fin sopra il 40% nella seconda parte degli anni Duemila. I sottoscrittori esteri cambiano più facilmente idea rispetto ai residenti italiani: se vendono, perché percepiscono il debito italiano come più rischioso, come è avvenuto per esempio recentemente con il governo a guida giallo-verde, il tasso di interesse sale. Il tasso è un termometro del rischio e il debito diventa un problema quando il costo di servirlo, in termini di interessi da pagare, diventa più elevato della crescita economica. Gli anni Ottanta sono un esempio chiaro delle difficoltà: mostrano cosa succede quando si mette in moto l’effetto che viene chiamato “palla di neve”, perché è il debito stesso che genera nuovo debito richiesto per finanziare gli interessi. Questo è anche il rischio con la situazione attuale e le aspettative di inflazione che si sono generate, per combattere le quali le banche centrali potrebbero alzare i tassi, sebbene andrebbe ricordato che quello che conta per la sostenibilità del debito sono i tassi di interesse reali, cioè al netto dell’inflazione.

Perché abbiamo un debito pubblico così elevato?
Da un punto di vista puramente tecnico la risposta è semplice e l’abbiamo già data rispondendo alle domande precedenti. Ma è una domanda comunque rilevante se ci si chiede invece cosa ci sta dietro questi numeri, perché cioè l’Italia a differenza di altri paesi pur soggetti a fenomeni simili ha continuato ad accumulare debito e non è riuscita ad intervenire in tempo per bloccarne la crescita. Non c’è probabilmente una sola spiegazione; ce ne sono tante. Nel libro ne proponiamo alcune. Una ragione strutturale è certo quella dei grandi divari interni di sviluppo, molto più elevati che in altri paesi: in un paese unitario come l’Italia, se il bilancio fosse sempre in pareggio, le regioni più ricche riceverebbero meno servizi rispetto alle tasse che si troverebbero a pagare; il contrario avviene per le regioni povere. Ricorrere al debito permette quindi di fare contenti tutti evitando alla politica di affrontare i problemi strutturali. Qualcosa del genere, la necessità di fare contenti tutti, è anche il risultato di una rappresentanza politica molto frammentata, per effetto di leggi elettorali di stampo proporzionale. Sempre in tema di ragioni politiche, è bene ricordare poi che l’Italia non ha mai avuto un grande partito conservatore in senso classico, tipo la CDU in Germania. E se il tema del debito non viene interiorizzato dalle forze politiche presenti in Parlamento, le riforme istituzionali da sole non riescono a risolvere il problema. Lo si è visto con le riforme del processo di bilancio e dell’articolo 81 della Costituzione o con il famoso “divorzio” del 1981 tra Banca d’Italia e Tesoro. È chiaro però che il Parlamento lo votano i cittadini; la domanda importante è allora perché gli italiani sono sempre tendenzialmente favorevoli a governi che spendono e si indebitano. Qui ci sono due possibili storie, che valgono anche per altri paesi ma che probabilmente hanno una particolare rilevanza per il caso italiano. La prima è una storia di “illusione finanziaria”, i cittadini non si rendono conto che una maggiore spesa oggi in disavanzo comporterà quasi certamente maggiori tasse domani; la seconda è invece una storia di “scrocconi”, o di “free-rider”, perché la spesa comporta benefici individuali mentre il finanziamento è collettivo. La prima storia rimanda ai livelli di informazione finanziaria, particolarmente bassi nel nostro paese. Ma anche la seconda storia assume una valenza particolare per il nostro paese: richiama il “familismo amorale” che spesso caratterizza gli italiani, una idea di Stato che non è una forma di organizzazione del vivere civile, ma un organismo oppressivo al quale è dunque legittimo ribellarsi, evitando per quanto possibile di rispettarne le leggi. L’elevata evasione fiscale sostiene questa seconda spiegazione.

E dunque, come ne usciamo?
Non con le soluzioni facili da talk show, come l’uscita dall’euro, il ritorno alla lira e ad una banca centrale nazionale sempre pronta e disponibile a stampare moneta per finanziare la spesa dello Stato. O semplicemente rinnegando o rinegoziando il debito, come già abbiamo fatto in passato, negli anni Venti e Trenta, con l’effetto di non riuscire più ad emettere debito a lunga scadenza. Alla fine, un debito deve essere sempre ripagato: sia che lo paghino i creditori, perché non rimborsati, rimborsati in parte o in una valuta deprezzata; sia che lo paghino i debitori. La differenza è solo sul piano distributivo, ma non cambia il fatto che qualcuno dovrà per forza accollarsene l’onere. Né purtroppo è sufficiente una bella patrimoniale sui ricchi, che neppure sappiamo chi sono e che in buona parte hanno già messo al sicuro i propri patrimoni all’estero. Anche solo parlarne finisce con lo spaventare gli investitori, lo abbiamo sperimentato nel 1992 con l’Imposta Straordinaria sui Depositi.

Sopravvivremo al nostro debito pubblico?
Le condizioni sono favorevoli, o almeno più favorevoli che in passato, per liberarsi del debito a costi bassi, sempreché naturalmente si voglia farlo. La ragione è che i tassi di interesse sono molto bassi; e anche se la ripresa dell’inflazione potrebbe condurre ad un inasprimento dei tassi nominali, quello che conta davvero per la sostenibilità del debito sono gli interessi reali (cioè, al netto dell’inflazione) e le previsioni sono che questi continueranno a essere molto bassi ancora a lungo. In più, una parte consistente del debito è nelle mani delle banche centrali e probabilmente resterà lì ancora a lungo, e su questo debito, il Tesoro non paga neppure interessi. Il vero problema italiano è la bassa crescita; negli ultimi 20 anni, il paese è cresciuto solo dello 0,2% l’anno, e con questa crescita qualunque debito diventa difficilmente gestibile. Ma ci sono ora gli ingenti fondi del PNRR, che se utilizzati bene (e questo dipende dalle nostre scelte), promettono di riportare la crescita italiana in linea con quella dei nostri partner esteri. Per lo meno, è probabile che cresceremo molto più del passato nei prossimi 5-10 anni. Bassi tassi di interesse, un po’ più di crescita e il recupero di un limitato avanzo primario possono far ridurre rapidamente il debito, come mostrano le nostre simulazioni in fondo al libro. Ma dipende tutto da noi e dalla volontà di non sprecare questa occasione. Come scriviamo nel libro, la conclusione resta tutta da scrivere.

Massimo Bordignon è professore ordinario di Scienza delle Finanze presso la Facoltà di Economia dell’Università Cattolica (campus di Milano), dove ha anche diretto il Dipartimento di Economia e Finanza. È stato tra l’altro presidente della Società Italiana di Economia Pubblica (SIEP) ed è attualmente membro del Comitato Consultivo Europeo per le Finanze Pubbliche e del comitato scientifico di Ifel-Anci. Fondatore e redattore di Lavoce.info, collabora anche frequentemente con la stampa nazionale.

Gilberto Turati è professore ordinario di Scienza delle Finanze presso la Facoltà di Economia dell’Università Cattolica (campus di Roma), dove coordina il corso di Laurea Magistrale in Management dei Servizi. È membro del comitato direttivo della Società Italiana di Economia Pubblica (SIEP) e del comitato scientifico della Fondazione Utilitatis. Fa parte della redazione di Lavoce.info. È stato membro del board della European Public Choice Society.

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