“De rerum natura” di Lucrezio, a cura di Milo De Angelis

De rerum natura, Lucrezio, Milo De AngelisDe rerum natura
di Tito Lucrezio Caro
traduzione di Milo De Angelis
Mondadori

«Fin dal primo libro – fin dalla magnifica descrizione del vento (vv. 265-297) – un senso della natura impetuoso e costernato percorre l’intero poema, costringe l’uomo stesso a restare confinato nella gabbia del suo invano, a vedere frantumati i suoi sforzi e le sue opere. Sono numerose e formidabili le scene in cui la natura si manifesta in tutta la sua potenza, la sua catastrofica potenza: maremoti, bufere, voragini, trombe d’aria, uragani, forze immense e disordinate che ci schiacciano e beffano la nostra pretesa di governarle. La natura qui è leopardiana, ancora una volta, ignora le proteste dell’uomo e resta muta di fronte al suo grido. Ed è una natura attraversata da tumulti segreti che impediscono una visione serena e tanto meno elegiaca della sua anima convulsa. C’è sempre qualcosa di eccessivo, carico di presagi allarmanti, un disastro che è sul punto di avvenire e vieta all’uomo, canna al vento, di trovare pace nel grembo della natura. E nel secondo libro (vv. 352-370) è infinita la pietas che Lucrezio – così severo verso le colpe degli uomini – riserva a quella sua povera giovenca, smarrita dentro una natura improvvisamente irriconoscibile, scrivendo una delle pagine più delicate e commoventi dell’intero poema.

Il libro successivo, il terzo, insiste sulla labilità delle creature umane, sospese tra un vuoto alle spalle e un altro vuoto che le attende. “La morte è eterna, la vita è una sua breve interruzione.” Il senso della morte è dominante: ogni gesto è impregnato di finitudine, ogni progetto incontra lo spettro del suo fallimento, ogni orgoglio e ogni desiderio di gloria si rivelano nient’altro che un coriandolo nella notte infinita. Hunc ipsum quem agimus diem cum morte dividimus (“anche questo giorno che stiamo vivendo lo dividiamo con la morte”) scriverà un secolo dopo Lucio Anneo Seneca, il più lucreziano dei filosofi latini. E Lucrezio è accanito nel rappresentare l’angoscia dell’uomo, il suo desiderio che non trova un oggetto, la sua ansia che non trova una direzione e resta lì, ferma e vorticante, sprofondata dentro se stessa, come nella magnifica descrizione dell’uomo sbranato dalla propria inquietudine che fa la spola dalla sua villa alla città in un andirivieni senza tregua e senza pace (vv. 1050-1052): «tu che non capisci nemmeno qual è il tuo vero male / mentre ti aggiri senza meta infelice e ubriaco di paura, / azzannato dall’ansia, tu che ondeggi nella tua mente smarrita».

Il quarto libro del De rerum natura contiene alcune delle pagine più terribili che siano mai state scritte sul tema dell’amore. Corpi che si cercano disperati, corpi che non si incontrano e si affannano nel vuoto; il seme dell’uomo descritto come un fiume in piena che non trova sbocco nell’essere amato e si dirige urlante verso altri corpi; corpi avvinghiati nell’angoscia di non potersi congiungere o di non potersi separare: è un’epopea del disastro amoroso, epopea modernissima e persino novecentesca che ricorda certi racconti dell’esistenzialismo e della solitudine invalicabile. E sulla scena degli amanti domina un’atmosfera di lotta, di sfida letale. Gli amanti si affrontano come nemici in battaglia per conquistare il piacere e tutto il loro lessico è un lessico di guerra, pieno di traumi, ferite, assalti, aggressioni, violenze: abradere, laedere, lacerare, ferire, tundere.

E anche quando rappresenta la vita dei primitivi, nel quinto libro, Lucrezio ci precipita in una dimensione allucinata. Magari la descrizione parte in modo realistico, persino dettagliato nel tratteggiare un rifugio o una capanna. Ma poi, come in un film dell’orrore, basta un aggettivo ripetuto, il soffermarsi su un dettaglio, un’inquadratura troppo lunga su un oggetto, ed ecco scatenarsi l’incubo in tutta la sua forza incontrastabile. Gli uomini sentono un rumore sospetto, un fruscio, un passo felpato, intuiscono il sopraggiungere di una belva, lasciano i loro giacigli nelle caverne, si avventurano di notte in luoghi sconosciuti. Alcuni si salvano, altri vengono massacrati. Impressionante la scena dell’uomo sbranato vivo da un leone, che entra nelle sue fauci come in una tomba vivente (viva videns vivo sepeliri viscera busto, scrive Lucrezio marcando l’allitterazione – v. 993). L’incubo si ripete nelle mille scene di crolli e cataclismi, con la stessa ricorrente tecnica espressiva: prima una visione d’insieme, calma e descrittiva, talvolta persino bucolica alla maniera di Virgilio; poi lo sguardo si ferma su un particolare, a lungo, lo fissa come affascinato, finché l’intera scena carica di tensione è pronta a esplodere con esiti letali.

Tutto questo raggiunge il suo vertice alla fine, nel sesto libro, dove i segni della malattia si affacciano con un’evidenza magica: un neo sulla pelle viene fissato da Lucrezio fino a rivelarsi un universo, ed è un universo orribile, pieno di veleni e di odori schifosi che da lì entrano in tutto il corpo, attaccano le ossa e poi l’anima. È interessante un confronto con Tucidide. Anche quest’ultimo ci mostra uomini assetati che bevono nelle pozzanghere e si affacciano al bordo dei pozzi. Ma in Lucrezio questo affacciarsi diventa un precipitare, uno schiantarsi dei corpi dopo il volo: ore patente, «con la bocca spalancata» (v. 1175), dice il poeta latino, con una violenza che ingigantisce la bocca, come se il desiderio di bere tutta l’acqua del mondo ne allargasse i confini fino all’urlo cosmico che inghiottirà la terra. E infine, nel lungo racconto conclusivo della peste di Atene le forze distruttive della morte celebrano l’apoteosi e di fronte a loro appare in tutta la sua evidenza la nullità dell’uomo, la perdita di ogni dignità e di ogni pudore, il bisogno feroce di salvarsi a ogni costo, la rinuncia sistematica alla verità, un carnevale di inganni e di massacri, una carneficina che non esclude nessuno e rade al suolo il significato stesso della condizione umana.»

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