
Come si navigava nel mondo antico?
Gli antichi navigavano seguendo sostanzialmente dei sistemi empirici, affidandosi alla pratica e all’esperienza che derivavano da una vita “immersa” negli elementi. Fino al tramonto della vela, del resto, l’uomo ha combattuto ad armi pari col mare e col vento, riponendo proprio nella profonda conoscenza degli elementi la miglior garanzia di successo. Questo fatto non deve stupirci, considerando che i sistemi di navigazione non-strumentali possono risultare estremamente efficaci. Anzi, possiamo dire che il “senso marino” dei naviganti, ovvero la capacità di percepire, interpretare e utilizzare ogni minimo segnale proveniente dall’ambiente marino, ha rappresentato il più importante strumento nautico che l’uomo ha avuto a disposizione per millenni, fino a tempi molto recenti. Non a caso è stato spesso interpretato come un sesto senso, una capacità straordinaria e misteriosa, incomprensibile per le genti di terra. Un esempio eccezionale delle capacità sensoriali dei naviganti è certamente fornito dalle imprese dei navigatori polinesiani, capaci di attraversare spazi di oceano vastissimi senza terra in vista, navigando a bordo dei loro catamarani realizzati con piroghe e sfruttando i soli riferimenti ambientali, attraverso una percezione e una lettura raffinatissime dell’ambiente marino.
La navigazione antica in alto mare, al di fuori del raggio di visibilità della terraferma, non era dunque una navigazione stimata nel senso medievale e moderno del termine, cioè basata sul trasferimento dei dati di navigazione sulla carta nautica, ovvero dei tre parametri fondamentali che sono la direzione, il tempo e la velocità, rilevati rispettivamente con la bussola magnetica, il cronometro e il solcometro. Questo sistema consentiva e consente tuttora di tracciare sulla carta nautica il procedere della navigazione, dunque di visualizzare su basi geografiche e geometriche una sequenza di punti stimati che materializza il percorso. I naviganti antichi, invece, affrontavano i viaggi d’altura per mezzo di una stima “dinamica” del percorso, in cui i dati noti in base all’esperienza e quelli rilevati sul momento fornivano comunque un’idea abbastanza chiara del percorso e del suo progredire, pur in assenza di cartografia nautica, che, come è noto, rappresenta un’invenzione di epoca medievale.
Quali accorgimenti pratici venivano adottati durante la navigazione?
Praticamente erano tutti accorgimenti pratici. In particolare, risultano interessanti quelli impiegati per affrontare una tempesta inattesa, quando era necessario mettere in campo le conoscenze e le abilità necessarie a salvare la nave e i suoi uomini. Tra questi ricordiamo l’uso di uno strumento di fortuna chiamato speira in greco e spira in latino, il cui nome è sopravvissuto fino ai nostri giorni nella lingua italiana, in cui il termine spiera / spera indica uno strumento per rallentare la corsa dell’imbarcazione, affinché non venga travolta dal mare e dal vento che la investono da poppa. Oggi si tratta di un cono di tela che viene filato in acqua da poppa, mentre nel mondo antico era costituito da grosse cime avvolte in spire all’estremità (da cui il nome) che, filate sempre da poppa, servivano a rallentare il corso dell’imbarcazione, facendo sì che le ondate tempestose oltrepassassero lo scafo senza spingerlo violentemente in avanti, condizione pericolosissima, quest’ultima, spesso seguita dal traversarsi dell’imbarcazione al mare e infine, quasi sempre, dal suo rovesciamento. Nella tradizione marinaresca recente dell’Adriatico, a questo scopo si usava anche una grossa pietra che veniva trascinata da poppa in modo che radesse il fondo sabbioso, quando le barche si avvicinavano a terra con mare tempestoso, per spiaggiare o per entrare in porto. L’avvicinamento a terra era infatti un momento particolarmente pericoloso, in quanto la riduzione del fondale determinava la trasformazione dell’onda lunga in pericolosi frangenti, capaci di trascinare uno scafo fino a farlo traversare e rovesciare. La spiera, attrezzo assai semplice ma importantissimo, è stata uno strumento di salvezza di molte vite quando i marinai affrontavano le condizioni più estreme.
Quali velocità raggiungeva la navigazione e quanto duravano i viaggi in mare?
Bisogna distinguere, innanzitutto, tra velocità di punta e velocità media. La velocità di punta è quella massima che un’imbarcazione riesce ad esprimere, in condizioni particolarmente favorevoli e anche per solo brevi periodi. La velocità media è invece quella che esprime la durata complessiva del viaggio, rappresentando, appunto, una media tra le velocità più alte e quelle più basse, a cui si sommano anche le soste. Se una nave antica armata con vela quadra poteva raggiungere velocità di punta anche di 10-12 nodi, le velocità medie erano molto più basse, diciamo tra i 2 e i 4 nodi, ma ciò dipendeva fondamentalmente dal tipo di viaggio che si svolgeva e dalle condizioni meteo-marine, a cominciare dalla presenza di un vento favorevole. Appare ovvio, del resto, che una traversata d’altura in via diretta, senza scali, produceva velocità medie più alte rispetto a quelle che si potevano ottenere con una navigazione di cabotaggio lungo la costa.
Quali erano i più diffusi testi di nautica?
Il problema dell’esistenza nel mondo antico di una vera e propria letteratura nautica, cioè una letteratura tecnica destinata all’uso pratico, rimane tuttora dibattuto. Per certo, l’esperienza pratica rappresentava il fondamentale bagaglio di conoscenze su cui si basava l’arte della navigazione, ma vi sono elementi che consentono di ipotizzare anche l’esistenza di testi “tecnici”, eventualmente destinati alla preparazione dei piloti che operavano sulle rotte di lungo corso o nella marina militare. Non sappiamo se nel mondo antico esistessero effettivamente dei portolani, nel senso medievale e moderno del termine, ma esistevano verosimilmente delle raccolte di istruzioni nautiche, basate sull’esperienza dei naviganti e forse registrate in forma scritta. Il che lascia ritenere possibile anche l’esistenza di portolani parziali, dedicati a determinati settori di mare, le cui informazioni contribuirono certamente allo sviluppo degli studi geografici e alla redazione di quei testi noti come peripli, che sono però riconducibili a un genere letterario di tema geografico e non a dei testi destinati all’uso pratico. Alcune fonti, inoltre, lasciano intuire l’esistenza di testi destinati all’istruzione o all’uso da parte dei piloti, tra cui potevano rientrare anche testi di meteorologia nautica, basati sempre sull’esperienza empirica.
Come ci si orientava in mare?
Come ben noto, nelle ore notturne i sistemi di orientamento in mare erano basati sull’osservazione delle costellazioni, attraverso allineamenti noti tra astri e tra astri e parti dell’attrezzatura della nave, rilevati in una determinata stagione e in un determinato momento della notte. Durante il giorno il sole forniva almeno tre punti di riferimento importanti, per quanto approssimativi, al suo sorgere, al mezzogiorno e al suo tramonto sull’orizzonte; ma facevano parte dei sistemi di riferimento anche la direzione dei venti regnanti e quella del moto ondoso. In determinati settori di mare, fondamentalmente in zone caratterizzate da bassa profondità (entro i 20-30 m), anche lo scandaglio poteva fornire riferimenti di posizione. Il dato batimetrico e il piccolo campione di sedimento che la sonda raccoglieva toccando il fondo consentivano ai naviganti esperti, infatti, di stabilire una posizione approssimativa, facendo riferimento ad una sorta di mappa mentale del fondo marino che essi elaboravano grazie all’esperienza. Una pratica rimasta pressoché immutata tra i pescatori delle più recenti marinerie tradizionali, fino alla metà del secolo scorso.
Quali erano le vele più utilizzate e le relative manovre?
Il tipo di vela in assoluto più utilizzato nel mondo antico era la vela quadra. Le sue manovre correnti fondamentali erano la drizza (per sollevare il pennone e la vela), la trozza (collare regolabile che univa il pennone all’albero), le scotte, i bracci e i contro bracci (per orientare la vela e il pennone), gli amantigli (per variare l’inclinazione del pennone), gli imbrogli (per ridurre la vela dal basso verso l’alto). La vela quadra rendeva bene nelle andature larghe, di poppa e al lasco, e al traverso. Tuttavia, se opportunamente manovrata e con l’uso delle boline, consentiva anche di stringere ulteriormente l’andatura, per lo meno di navigare di bolina larga, pur riducendosi la sua efficienza aerodinamica. Esistevano, inoltre, altre tipologie di vela, come la vela a tarchia, un tipo di vela assiale noto dalla tarda epoca ellenistica, ancora presente fino a pochi anni fa nella marineria tradizionale, e la vela latina, che si diffuse dal V-VI sec. d.C. prevalendo poi per lunghissimo periodo di tempo, sia sulle grandi navi, come le galere medievali e moderne, sia nel naviglio di medio e piccolo tonnellaggio, dove è tuttora impiegata a livello tradizionale.
Stefano Medas è archeologo subacqueo e navale e ha condotto numerose campagne di scavo su relitti e siti sommersi. È stato docente a contratto di Storia della Navigazione Antica all’università di Bologna e di Archeologia e Storia Navale del mondo fenicio-punico all’università di Cagliari. È presidente dell’Istituto Italiano di Archeologia ed Etnologia Navale. In materia di archeologia subacquea, archeologia navale e storia della navigazione ha pubblicato oltre cento articoli su riviste scientifiche e atti di convegni nazionali e internazionali, oltre ad alcune monografie, tra cui: La marineria cartaginese. Le navi, gli uomini, la navigazione (Carlo Delfino Editore, 2000); De rebus nauticis. L’arte della navigazione nel mondo antico (L’Erma di Bretschneider, 2004); Lo Stadiasmo o Periplo del Mare Grande e la navigazione antica (Universidad Complutense de Madrid, 2008). È inoltre autore di due romanzi, editi da Mondadori: Rex Iuba e Il testimone.