
Con questa citazione posta in esergo, Andrea Marcolongo ci introduce al suo nuovo libro, De arte gymnastica. Da Maratona ad Atene con le ali ai piedi, edito da Laterza, per raccontarci della sua nuova “epifania”: la corsa. E così, «dopo anni trascorsi seduta alla scrivania tra libri e grammatiche, sento che è venuto per me il momento di alzarmi e provare a “correre come correvano i Greci”.»
L’Autrice prende le mosse dalla leggenda di Filippide (o Fidippide), raccontata per la prima volta da Plutarco, il soldato che corse i 41,8 km della prima maratona della storia nel 490 a.C. per informare gli ateniesi della storica vittoria sui persiani nella colossale battaglia di Maratona. Fece solo in tempo a dire “Abbiamo vinto!” (Νενικκαμεν) prima di stramazzare al suolo, morto per troppa fatica.
In realtà, la distanza geografica che separa la città di Atene dal demo, ovvero dal villaggio, di Maratona – da cui il nome della più nobile delle gare di corsa –, non corrisponde a quella delle moderne maratone. «Gli agognati 42,195 km attuali, infatti, fecero la loro prima apparizione soltanto durante i giochi olimpici del 1908 a Londra dove, per un capriccio del principe di Galles, la partenza della prova ebbe inizio nei giardini del castello di Windsor per fare in modo che i nobili potessero assistere alla gara in tutta comodità, tra gli
agi e all’ombra – così, da allora i corridori sono costretti a sobbarcarsi quasi 400 metri extra».
Per preparare la sua maratona, la Marcolongo si ispira all’unico trattato dell’antichità giunto fino a noi dedicato alla “ginnastica”. Autore di questo breve scritto intitolato Περγυμναστικς e noto come De arte gymnastica in latino, fu Flavio Filostrato, detto l’Ateniese, retore e filosofo nato nell’isola di Lemno intorno al 170 d.C., «in quella stagione della storia greca che era già romana: attivo a Roma nel circolo letterario raccolto intorno a Giulia Domna, l’illuminata moglie di Settimio Severo, ottenne grazie alla sua fama un posto in Senato prima di morire in un anno imprecisato tra il 244 e il 249.»
Per i greci l’attività fisica era una vera e propria scienza, ovvero rigoroso sapere, e, per spiegare le ragioni della decadenza ellenica, «Filostrato non aveva dubbi: l’inizio della fine era da rintracciarsi nei muscoli fiacchi dei Greci suoi contemporanei […]. I grandi risultati sportivi degli atleti ellenici alle Olimpiadi erano ormai un lontano ricordo da contemplare nelle statue di marmo sbreccate che ritraevano i vincitori e nelle poesie dimenticate che ne cantavano le gesta. Se infatti, come scrive il filosofo, “la natura produce oggi leoni che non sono più fiacchi di quelli di un tempo, né i muscoli di cani, cavalli e tori sono diventati flosci; se gli alberi, le vigne e i frutteti sono rimasti fecondi come un tempo e nemmeno la durezza dell’oro, dell’argento e delle pietre si è rammollita”, allora va da sé che il carattere degli uomini, biologicamente rimasti identici, all’improvviso è diventato molle a causa della pigrizia e della mancanza di allenamento.»
Rivela l’Autrice: «È anche e soprattutto per questa ragione che ho deciso di scrivere questo libro: per provare a capire come, in un’epoca che ha fatto della sciatteria e della velocità un valore, la fatica e la costanza richieste dalla preparazione restino ineludibili, e inaggirabili, per raggiungere un obiettivo».
Andrea Marcolongo ci accompagna dunque a conoscere il suo piano di allenamento, nel quale si affida anche a quella che da sempre per lei è «la bussola di ogni fatica di esistere, la letteratura»: «Filostrato escluso, del running nei testi antichi non c’è traccia e neppure in opere più recenti […] Escludendo saggi più specifici e biografie di grandi atleti, gli unici libri sulla corsa che hanno trovato posto accanto alle riviste dedicate al running, nel mio caso, sono stati due: Correre del francese Jean Echenoz, biografia romanzata del grande corridore cecoslovacco Emil Zátopek, e ovviamente L’arte di correre di Murakami Haruki.»
«In ogni manuale di running […] sta scritto a chiare lettere che tutto ciò che serve per arrivare in fondo a una competizione, o anche a un più banale allenamento – corsetta della domenica compresa –, è una buona ragione. Un motivo per correre così solido da compensare la fatica, la frustrazione, le suppliche dei polpacci che non chiedono altro che smettere». Per la Marcolongo correre «è il modo più concreto ed efficace per sentirmi viva, o almeno l’unico che conosco. Detto in altri termini, corro perché ho paura di morire.»
Un racconto avvincente, che ci proietta fin nella psicologia dei corridori di ogni età: come afferma una massima di settore, «“Non esiste runner che, dopo una corsa, rientri a casa sentendosi peggio di quando è uscito”. In effetti, è proprio questo il punto che ogni corridore al mondo ammette con sconcertante chiarezza: si esce a correre per scappare, più o meno consciamente, dal carico quotidiano di stress, di fatica, di frustrazioni, di aspettative e di pressioni. E, dopo una corsa – lunga o breve che sia, al top oppure sottotono, non importa –, è una versione se non migliore almeno sgravata di sé a tornare a casa e infilarsi sotto la doccia.»
Una ragione più che valida, da sola, a giustificarne l’immane fatica.