“Dante tra Ipocràte e Galieno. Il lessico della medicina nella Commedia” di Donatella Lippi

Dante tra Ipocràte e Galieno. Il lessico della medicina nella Commedia, Donatella LippiProf.ssa Donatella Lippi, Lei è autrice del libro Dante tra Ipocràte e Galieno. Il lessico della medicina nella Commedia edito da Angelo Pontecorboli: quali competenze mediche aveva Dante?
La domanda se Dante avesse competenze mediche è una domanda antica, che si sono posti molti studiosi, anche nella Letteratura scientifica internazionale: Was Dante a doctor?

Questo il titolo di una serie di contributi, usciti sul British Medical Journal a partire dal febbraio 1910 (BMJ 5, 1910, pp. 331-333), volti a rispondere a questa annosa domanda. Muzio Pazzi, bibliotecario della Società Medica Chirurgica di Bologna, aveva risposto sul Bullettino delle Scienze Mediche (vol. X, p. 352):

«Dato il valore enciclopedico del nostro più grande poeta, non fa meraviglia che in mezzo alla miriade di commentatori che brulicano intorno alla base del superbo monumento dell’opera dantesca, come sciami di laboriose formiche ai piedi di torri gigantesche, o delle muraglie della Cina, né che si contino medici, letterati e dilettanti di cronache estasiati per le profonde cognizioni di Dante intorno all’ars medica, oltre che alla teologia, alla filosofia e alla giurisprudenza, né che i medesimi siano tentati a scoprire se l’autore dell’insuperato ed insuperabile Poema nazionale abbia studiato medicina»

Dove Dante avesse acquisito questa preparazione è una vexata quaestio: medicina e filosofia, nel Basso Medioevo, avevano numerosi punti di tangenza.

Quali elementi biografici avvicinano Dante al mondo della medicina?
Ci sono numerosi dettagli della biografia di Dante, che permettono di ipotizzare una sua frequentazione diretta col mondo della Medicina.

– Dante era iscritto all’Arte dei Medici e degli Speziali e poteva indossare la lunga e ampia veste rossa (lucco), ornata di vaio bianco, con il capo ricoperto da un cappuccio (becchetto) con le punte ricadenti ai lati del viso, abbigliamento tipico del medico: è così che viene ritratto dalla Scuola di Giotto tra i beati, nel Giudizio universale dipinto nel palazzo del Bargello a Firenze, prototipo di tutte le raffigurazioni successive.

Scrive, inoltre, Raffaele Ciasca nel 1931: “l’Alighieri, se non voleva troncarsi la possibilità di correre i pubblici onori, non aveva che da scegliere fra le sette arti maggiori, le sole cioè che si mantenevano sicuramente al potere, dalla disfatta dell’elemento magnatizio in poi. Tenendo egli in dispregio i mercanti di panni e di seta, reputando a vile vaiai e pellicciai, e non avendo i denari e l’inclinazione per fare, come suo padre, il cambiatore, si trovava al bivio fra l’arte dei medici e quella dei giudici che rappresentavano l’aristocrazia dell’intelletto, antitetica, in certo senso, a quella dei capitani dell’industria e della banca …”

Quanto alla scelta dell’Arte, “li davano diritto di cittadinanza la sua preparazione filosofica, la sua cultura nella medicina e in quel complesso di arti liberali che allora erano fondamento così della filosofia come della medicina”.

– Si dice avesse frequentato le lezioni di Taddeo Alderotti a Bologna, di cui furono allievi sia Fiduccio de’ Milotti, che si trasferì a Ravenna nel 1300, sia Mondino de’ Liuzzi, ambedue ritenuti toscani: quando Dante raggiunse la Corte di Ravenna, Fiduccio divenne suo medico personale e lo assistette fino alla morte;

– Tra il 1304 e il 1306, Dante fu a Padova, dove frequentò vari medici, fra i quali, verosimilmente, anche Pietro d’Abano (1250 c. – 1315 c.), interprete di una nuova cultura coltivata con l’apporto della scienza greco-araba, assimilata attraverso l’approccio diretto alle fonti, destinato ad essere sottoposto più volte al tribunale dell’Inquisizione.

Anche a Verona fu in stretti rapporti con vari medici, primo fra tutti il lettore di medicina Antonio Pelacani (1275-1327), medico di Matteo I Visconti, accusato d’eresia e negromanzia, a cui, forse, allude nella Quaestio de aqua et terra, la redazione scritta di una conferenza tenuta da Dante a Verona, nella chiesa di Sant’Elena, il 20 gennaio 1320, la cui prima edizione a stampa fu in Venezia nel 1508.

– Dante amò Beatrice Portinari, il cui padre, Folco di Ricovero, fondò l’ospedale di Santa Maria Nuova e la cui governante, Monna Tessa, fu la prima Oblata e fu testimone della nascita, nel 1288, di questo ospedale, ancora oggi in funzione, senza soluzione di continuità.

Ma, al di là di questi spunti, che mettono in luce particolari circostanze formative e determinati elementi biografici, è la sua opera che offre le testimonianze più evidenti relative al rapporto col mondo della medicina e della sanità.

Testimonianze più o meno dirette, riferimenti più o meno marcati, compongono un ordito su cui è possibile ricostruire il corpus delle conoscenze del poeta, che sostanziano la Commedia di concretezza e di immanenza.

Quali testimonianze offre il capolavoro dantesco relativamente al rapporto del Divin Poeta col mondo della medicina e della sanità?
La Commedia è un viaggio nei tre regni dell’Oltretomba: se l’Inferno descrive la discesa di Dante nella voragine infernale, Virgilio lo accompagnerà attraverso l’Inferno e il Purgatorio, ma, per raggiungere il Paradiso, Dante avrà bisogno dell’aiuto di un’anima più degna, Beatrice, che veglia da sempre sul suo cammino.

L’Inferno è il regno del dolore e il dolore costituisce un capitolo autonomo, particolarmente suscettibile di una lettura in una prospettiva medica, in quanto i supplizi dei dannati mostrano sorprendenti coincidenze con i descrittori del dolore del McGill Pain Questionnaire dei nostri tempi.

La terminologia di Dante è estremamente aderente: nella silloge di dolori e di dolore delle creature dell’Inferno, analizzati con una straordinaria attenzione anche in riferimento agli effetti che la pena produce dal punto di vista affettivo e critico, la precisione descrittiva consente di individuare almeno 46 dei 78 termini riportati nel MGPQ, anche se in differenti forme.

Nello stesso modo in cui la solitudine dell’odio marca la solitudine dell’individuo, così l’armonia e l’unità dell’amore avvicinano le anime del Purgatorio e la musica e il canto si declinano in una ricca varietà di voci e di strumenti.

La musica del Purgatorio è umana, terrena, legata a momenti particolari della vita, ricca di una forte dimensione etica, ed è sempre riconoscibile e identificabile.

Il Purgatorio è, infatti, il regno della liturgia cantata: le anime cantano in coro salmi e inni, esprimono preghiere in relazione a cerimonie, occasioni rituali, stati d’animo, fasi della giornata: testo sacro e testo poetico si integrano in una simbiosi, attraverso la quale l’uno arricchisce l’altro, rafforzando un messaggio comune.

La musica, nel Purgatorio, diventa un mezzo per avvicinarsi a Dio e assume una funzione, che potremmo definire “terapeutica”.

Il Dio della liturgia, sol salutis, che risplende sul fondo dorato della pittura e dei mosaici, illumina, invece, il Paradiso, che può essere concepito proprio come la cantica della luce, della gioia, della letizia.

Ne viene di conseguenza che la luce sia stata considerata da sempre una risorsa terapeutica e, come tale, è stata, infatti, impiegata nel trattamento di diverse patologie sin dall’antichità e anche ai giorni nostri.

Il viaggio nell’Oltretomba è, quindi, un percorso alla ricerca della salute/salvezza.

Ma, al di là di questa impostazione generale, Dante, nel IV Canto dell’Inferno, dimostra di conoscere i numi tutelari della Medicina: Ippocrate di Cos (V sec. a.C.), fondatore della Medicina “scientifica”, che emancipò dall’ambito della religione, sottolineandone gli aspetti organico-biologici; Avicenna, medico arabo (980-1037), autore del famoso Canone, in cui veniva compendiata e commentata tutta la scienza medica; Claudio Galeno (129-200), medico di Pergamo, autorità indiscussa fino all’età rinascimentale; Averroè (1126-1198), medico e filosofo arabo, autore di un celebre commento ad Aristotele.

Dante cita gli ospedali (Inf. XXIX, 46-51); Dante descrive i corpi degli scismatici divisi a metà dalla testa all’orifizio anale o al pube, come se fossero desunti da un trattato di anatomia o esser frutto di una esperienza autoptica, nel momento in cui il lector mostra agli allievi la cavità addominale: sono visibili i visceri (intestino tenue), non più trattenuti dalla parete addominale, e gli altri organi (cuore, fegato, milza, polmoni) (Inf. XXVIII, 22-33).

Dante descrive con precisione la differenza tra un’emorragia venosa, nel caso di Jacopo del Cassero, e di un’emorragia arteriosa, nel caso di Bonconte da Montefeltro; conosce le teorie galeniche sulla respirazione e la digestione (Purg. XXV, 37-78), che, nella teoria del sangue perfetto, gli danno lo spunto per una dotta dissertazione embriologica…

Non solo. Dante dimostra di conoscere diverse patologie, che descrive con accuratezza e precisione clinica: l’epilessia (Inf. XXIV, 112-118), la narcolessia (Inf III, 130-136), forse citata in chiave autobiografica, le malattie dermatologiche (Inf. XXIX, 58-84), la malaria (Inf. XVII, 85-87), i problemi della vista, attraverso i quali spiega l’impossibilità, per Cavalcante Cavalcanti, di conoscere il destino del figlio Guido tra le arche infuocate della Città di Dite (Inf. X, 100-108) …

Anche la descrizione della malattia di Maestro Adamo (Inf. XXX, 100-103), che, a una prima analisi, sembra non coincidere né con una forma di ascite, né di timpanite, in realtà lascia ipotizzare che Dante abbia descritto un caso di idrope-ascite in corso di cirrosi epatica, cirrosi causata da intossicazione da rame, metallo a cui Maestro Adamo era esposto, dato il suo mestiere di monetier.

La scelta lessicale di Dante è precisa, ricca, segno di una straordinaria capacità creativa: le schede di Chiara Murru, in fondo al volume, confermano questa aderenza descrittiva, così come la Postfazione di Giovanna Frosini ribadisce come “Per il grande poeta della vita e del destino dell’uomo, il tema del corpo, straziato, offeso, ma anche amato e infine glorificato, è un tema centrale: perché centrale è il tema dell’incarnazioneEt verbum caro factum est et habitavit in nobis» del Vangelo di Giovanni 1.14), perché tutto passa attraverso la realtà della vita vera, che rende viva e vera la poesia: così che anche dell’intelletto si può dire, con sintesi ardita e davvero sovrana, che accarna l’intenzione altrui:

«Se ben lo ’ntendimento tuo accarno | con lo ’ntelletto, allora mi rispuose | quei che diceva pria, tu parli d’Arno» (Purg. XIV 22-24).

Donatella Lippi è Professore Ordinario di Storia della Medicina presso l’Università di Firenze. Giornalista pubblicista, è Presidente della Fondazione Scienza e Tecnica di Firenze e del Lyceum Club Internazionale di Firenze. Membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Santa Maria Nuova, è tra i Soci fondatori della Società Italiana di Scienze Umane in Medicina-SISUMed. Autrice di più di 400 pubblicazioni scientifiche, tra cui molte monografie, tra le quali La penna di Florence Nightingale (Firenze 1820-Londra 1910). Aforismi e riflessioni della fondatrice dell’Infermieristica moderna (con L. Borghi) e Gentili impossibili finzioni. Dialoghi teatrali di storia della medicina.

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