
Il mio libro non nega la presenza ovvia e capillare di una intertestualità dotta nella Commedia, ma sostiene che tale presenza, fatta all’ingrosso di cultura classica e scritturale, non è sufficiente a spiegare la popolarità del poema dantesco; anzi, in condizioni normali ha l’effetto opposto sul lettore ordinario. Ci dev’essere qualcos’altro nel poema, una o più componenti di natura diversa, legate all’esperienza diretta di Dante, alla sua conoscenza dell’anima umana, della vita e della cultura quotidiana del suo tempo e del suo pubblico: qualcosa che attrae e coinvolge direttamente il lettore/ascoltatore senza obbligarlo a passare attraverso la nota a piè di pagina. Il mio libro vuole incominciare a studiare questo aspetto inesplorato della Commedia, ma già chiarissimo, ad esempio, a un Petrarca che, proprio a causa di esso, considerava il poema un lavoro indegno di uno scrittore serio.
In che modo il Divin Poeta fu in grado di captare e assimilare la cultura ‘bassa’ con la stessa serietà con cui assorbe quella ‘alta’?
Non si tratta tanto di ‘captare’ la cultura bassa, si tratta di viverla in prima persona, di rifletterci sopra e di elaborarla. Sono convinto che Dante riflettesse intensamente, profondamente, genialmente non soltanto su tutto quel che leggeva ma anche e specialmente sulle sue esperienze quotidiane, dalle più umili alle più elevate. Dante è uomo del suo tempo, indubbiamente cristiano, impegnato quant’altri mai nelle battaglie civili, politiche, etiche del suo tempo. Inoltre è schiettamente fiorentino e toscano, ma anche conoscitore di molti altri ambienti linguistici, politici, intellettuali, in cui fu costretto a vivere per vent’anni, una volta bandito da Firenze all’inizio del 1302. In che modo captava e assimilava la cultura ‘bassa’? Direi che Dante la ‘registrava’. Dante era una specie di registratore ambulante che mandava a memoria tutto quel che leggeva, vedeva, udiva, odorava, assaggiava, toccava. Aveva poi nella testa, sempre secondo me, una specie di processor o elaboratore elettronico, che istantaneamente analizzava, divideva, valutava, sistemava i dati secondo categorie, temi e forme predisposte, e li faceva interagire producendo all’occorrenza materia nuova, adatta ai progetti a cui andava lavorando. Aveva in particolare un dono speciale per la parola precisa, la lingua scritta e parlata, in versi e in prosa: del fiorentino conosceva tutte le sfumature e tutti gli strati, dal più basso e plebeo al più alto e rarefatto, e li poteva all’occorrenza impiegare, come in effetti fa, integrandoli con altre lingue e forme che prende dal latino, dagli altri dialetti italiani e dalle altre lingue romanze che ‘registra’ leggendo o viaggiando. Di qui la ricchezza e varietà inaudita della lingua di Dante come specchio di un’esperienza di vita estremamente varia, complessa e – non si può dimenticare – non facile.
Quali esempi di fonti modeste, prossime più al sapere popolare che a quello universitario, è possibile rinvenire nel capolavoro dantesco?
Noto che la domanda parla giustamente di “sapere” e non di “cultura popolare”, che è realtà così vaga e sfuggente che certi studiosi negano addirittura che esista come qualcosa di diverso e separato dalla cultura tout court. Ma quale che essa sia, è necessario fare in via preliminare una distinzione metodologica piuttosto delicata. La cultura popolare è per definizione orale assai più che scritta, e come tale, più indietro si va nel tempo e più si fa irrecuperabile. Il che è ovviamente vero per la cultura del Due-Trecento che è quella che qui ci riguarda. Per fortuna, nel tardo Medioevo ci sono scrittori che ci conservano opere, quasi tutte in latino, che riflettono e, talvolta, dipendono in buona parte dalla cultura orale. Queste sono, come dire, fonti secondarie alle quali noi ci possiamo rifare per farci un’idea della cultura che circolava nel Due-Trecento. È del tutto possibile che Dante ne conoscesse qualcuna, per es. qualche silloge su vizi e virtù, ma non si dimentichi che Dante si poteva servire delle fonti ‘primarie’, cioè della cultura orale del suo tempo. I testi scritti, quando ci sono, non offrono dunque ‘fonti’ specifiche vere e proprie, ma solo testimonianze di una interdiscorsività nella quale Dante e i suoi contemporanei ‘vivevano’.
Fatta questa premessa, quali sono i testi scritti sui quali si può fare affidamento per individuare il ‘popolare’ nella Commedia? Le ricerche storiche e filologiche degli ultimi cinquant’anni hanno fatto emergere l’importanza, al fine di ricostruire un quadro oggettivo della mentalità tardomedievale, di opere di compilazione considerate tradizionalmente ‘minori’, se non del tutto trascurate, quali – le elenco un po’ alla rinfusa – manuali liturgici e per confessori, raccolte di sermoni e vite dei santi, laudari e canti religiosi, repertori di exempla, collezioni di storie memorabili e mirabilia, bestiari e lapidari, glosse ai testi antichi, volgarizzamenti, enciclopedie e dizionari etimologici, cronache, novelle, fonti documentarie di storia degli ordini mendicanti, nonché ovviamente i racconti predanteschi di viaggi e visioni dell’aldilà. Questo è il genere di scritti che ci possono orientare sulla cultura di base di Dante o, se proprio si desidera perseguire un’ipotesi di lavoro impossibile, su quel che Dante sarebbe senza il suo bagaglio di cultura alta.
Quali ruvidezze plebee connotano l’opera?
Qui veramente c’è solo l’imbarazzo della scelta. L’Inferno offre esempi estremi della latitudine linguistica di Dante. Il quale, come scrittore in volgare, non esita sia a utilizzare parole singole tuttora giustamente bandite dalla conversazione della buona società, sia a creare situazioni e scene terribilmente plebee. Penso per esempio alla rappresentazione dei peccatori nelle prime bolge, o a quella dei papi simoniaci nella terza, o dei diavoli nella bolgia dei barattieri, i quali, per così dire, parlano con l’ano e defecano con la bocca, o allo scontro fisico e linguistico tra Mastro Adamo e Sinone nell’ultima bolgia (canto XXX), uno scontro che Virgilio rimprovera Dante di stare a guardare e a sentire. Giunto quasi al fondo del grande imbuto infernale, Dante ci comunica esplicitamente di essere costretto a ricorrere a rime “aspre e chiocce” per descrivere il fondo dell’universo. Ossia, il poeta sente di dover adeguare alla sua materia non solo il senso ma il suono dei propri versi. Per Dante, esiste dunque un’ineffabilità del brutto, dello sconcio, del perverso, ed è a questo strato linguistico che cerca in tutti i modi di approssimarsi in Cocito. Ma quasi tutto l’Inferno è percorso da correnti basse, da stravolgimenti osceni, da contatti orripilanti. L’opposto avverrà in Paradiso ma non senza eccezioni. Per esempio, Cacciaguida non esita a usare espressioni popolaresche, e nel XXVII canto san Pietro, in veste per così dire michelangiolesca, non esita a denunciare nei termini più plebei, osceni e maleodoranti la curia romana.
Quali problemi storico-metodologici solleva una lettura ‘popolare’ della Commedia?
I problemi sono molti e tutti formidabili. Il problema di fondo è come stanare modi e forme popolari in un testo ai nostri occhi così compatto e ovviamente cólto come la Commedia. Per far ciò sarebbe idealmente desiderabile poter isolare il popolare dal cólto, l’ordinario dall’individuale, il vernacolare dal letterario: operazioni alle quali si oppongono difficoltà piuttosto serie, prima fra tutte il fatto che il popolare non è monolitico ma esiste, specialmente nella Commedia, in interazione con altri strati culturali, intrecciati e spesso organicamente fusi nel tessuto dell’opera. Per altro non sono da poco le altre difficoltà: in primo luogo, la contaminazione di lessico, registri e generi produce un elemento nuovo rispetto al sostrato da cui deriva; in secondo, la natura e l’aspetto dei reperti, cólti o popolari che siano, possono variare con il tempo e quel che in origine poteva essere o sembrare cólto, può presentarsi più tardi in veste popolare; in terzo, tutti gli elementi della composizione poetica, anche i più semplici, sono in misura minore o maggiore, elaborati, manipolati, trasformati dal poeta; in quarto, nella nostra ricerca non disponiamo di un serbatoio o repertorio di concetti, temi, immagini, forme espressive specificamente popolari e caratteristiche dell’Italia del XIII-XIV secolo: si corre il rischio di attribuire al tempo di Dante quel che è nato dopo e viceversa non vedere quel che, essendo ormai del tutto obsoleto, non si riconosce più.
Ma lo studio del ‘popolare’ nella Commedia solleva anche problemi di ordine diverso. Gli elementi identificati come popolari vanno sempre rigorosamente storicizzati, per non far dire al poema ciò che noi vogliamo che dica. Un fenomeno del genere si è verificato nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale e in particolare, come si può leggere nella prima parte del mio libro, durante il ventennio fascista quando il Dante popolare divenne un’icona del regime.
Quali temi, concetti ed episodi del grande poema una lettura ‘popolare’ illumina di luce nuova e inaspettata?
La Commedia condivide temi, idee, episodi, incidenti diversi con opere precedenti, specialmente modeste relazioni di visioni e viaggi immaginari nell’aldilà, raccolte in luoghi e tempi diversi e circolanti in tutta Europa in forma scritta (perlopiù in latino) e orale. Per es., l’insistenza sulla verità dei fatti raccontati, la contesa tra angeli e demoni, la compresenza di fuoco e ghiaccio in inferno, il calderone in cui i diavoli immergono i dannati, la scala che sale al cielo, la luminosità dei beati, l’ineffabilità del paradiso sono tutti ingredienti largamente condivisi. Comuni sono anche gli usi ‘politici’ delle visioni; i ricchi, potenti e superbi della terra vi si vedono spesso severamente castigati; cospicua ovunque la presenza di re e vescovi in inferno – ma solo Dante offre nomi e cognomi! Nelle rappresentazioni sia figurative che letterarie del mondo dei morti, desiderio di giustizia, fede religiosa e arte si nutrono, intrecciano e influenzano a vicenda. Sono opere popolari che rispondono ad ansie assai diffuse sul destino dell’anima dopo la morte, ma anche a frustrazioni causate da una giustizia terrena che dà a chi già ha e toglie a chi nulla possiede. Non c’è dubbio che Dante conobbe, nell’originale latino o in traduzione, almeno alcuni dei testi popolari dedicati all’oltremondo, e se non proprio i testi scritti, non poté non conoscere le tradizioni che li trasmettevano in forma orale nelle leggende agiografiche, nei sermoni, nelle sacre rappresentazioni, nei racconti popolari; e in forma figurativa nelle miniature dei libri (in generale accessibili solo ai letterati) e soprattutto nei rilievi che ornavano i portali delle chiese e nei grandi affreschi di cappelle, battisteri e cattedrali da Torcello, a Padova, a Ferrara, a Firenze, a Roma. È difficile per noi immaginare quanto pervasivo potesse essere il pensiero dell’aldilà in una cultura nella quale il confine tra vita e morte sembrava vago e permeabile e al cui centro si poneva l’ansia o addirittura l’ossessione escatologica. Le visioni sono la testimonianza, sopravvissuta fino a noi in forma quanto mai frammentaria e modesta, dell’esperienza quotidiana di questa realtà.
Ma il segno, secondo me inconfondibile, della presenza della sensibilità e della cultura popolare si trova proprio nella cantica più originale di Dante, il Purgatorio, il luogo dell’aldilà che nel 1300 aveva ancora un’identità quanto mai vaga e a cui Dante dette appunto la forma in cui poi continuò per sette secoli e continua tuttora a venire immaginato. Quel continuo meravigliarsi, quel sentirsi pellegrini, quell’aria di chiesa, già sottolineata da Francesco De Sanctis, i canti, le preghiere, la devozione della croce e della Madonna, la pietà, la letizia nella sofferenza, il dolore che a Dio ne rimarita: sono tutti ingredienti popolari che Dante intreccia con straordinaria sapienza nella seconda cantica. È quanto di più vicino abbiamo alla cultura e alla sensibilità dei movimenti pauperistici e di tutti coloro che si ribellano alla nuova cultura materialistica e mercantesca della “gente nuova e dei sùbiti guadagni”, del fiorino e del successo. Penso a Francesco d’Assisi ovviamente, al suo sacro matrimonio con Madonna Povertà, ma anche a molte figure di donne che nella rinuncia trovarono la loro realizzazione, per es. Chiara da Montefalco e Angela da Foligno, o a opere mistiche come lo Stimulus amoris o le Meditazioni sulla passione di Cristo, che probabilmente nascono in latino ma sono subito volgarizzate e hanno, com’è il caso della seconda, una eccezionale diffusione. Si pensi soltanto al culto della Madonna e della Croce e alla rappresentazione del Cristo sofferente nella seconda metà del Duecento. I crocefissi di Cimabue e di Giotto ne sono forse gli esempi artisticamente più fulgidi, ma dietro a questi capolavori ce ne sono moltissimi altri, nati allora e in parte ancora visibili in tante chiese d’Italia, che danno un’idea del fiorire di questo culto popolare. Di questo culto Dante offre appunto nel suo Purgatorio l’espressione poetica più intensa e articolata.
In che modo la Commedia rappresenta un libro sulla vita?
Tutta o quasi tutta la Commedia è un libro sulla vita. L’Inferno offre un catalogo, più o meno completo, dei tanti modi diversi in cui gli esseri umani, in questa vita, fanno agli altri quel che non vorrebbero che gli altri facessero a loro. Si pensi soltanto all’ottavo cerchio, il cerchio di Malebolge, che è un’esplorazione dei modi diversi in cui l’individuo utilizza la propria intelligenza per fare il proprio interesse – mi scuso della volgarità – ‘fregando’ gli altri: ruffiani e seduttori, adulatori, simoniaci, indovini, amministratori corrotti, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di discordia, falsificatori di metalli, di persone, di moneta, di parole. Quando Roberto Benigni, sorridendo sornione, dice in qualche piazza d’Italia che tutti questi sono tipi che, grazie a Dio, non esistono più nella nostra Italia attuale, il pubblico ride e applaude fino a spellarsi le mani. Applaude Benigni, ovviamente, ma applaude prima un padre Dante che è dalla loro parte perché non ha peli sulla lingua e mette alla gogna i profittatori e gl’imbroglioni della sua e di ogni epoca. È un’intelligenza che Dante condanna, naturalmente, ma che, come mostra il capitolo finale del mio libro, viene recuperata e messa in uso nei mondi, moralmente assai meno intransigenti, del Decameron di Boccaccio o della Mandragola e del Principe di Machiavelli.
Ma a parte quest’aspetto del poema, altrettanto importante è anche un altro, a questo in qualche modo contrario: la capacità tutta dantesca di scavare nell’anima umana fino a scoprire le radici della sua debolezza e del peccato che alla fine la condanna per sempre. Si pensi ai grandi personaggi dell’Inferno, da Francesca a Pier delle Vigne a Ulisse a Ugolino: le storie delle loro morti, ignote a tutti tranne Dante Alighieri, continuano a commuovere i lettori di tutto il mondo perché Dante, mentre ne riconosce e condanna la colpa, è capace di sentire e trasmettere, spesso con pochissimi versi, tutta la tragica grandezza delle loro passioni colpevoli. Nel mio libro mi occupo in particolare di un abbastanza inedito Ulisse popolare, anche alla luce del modo in cui Dante tratta o maltratta il povero Sinone, primo agente segreto della letteratura occidentale.
Sul Purgatorio ho già detto qualcosa che in parte risponde a questa domanda. Ma dovrei aprire tutto un discorso in parte diverso sui canti del Paradiso terrestre e dell’incontro di Dante con Beatrice. La ramanzina che Beatrice fa al fedifrago poeta è di quelle che parlano agli innamorati di ogni età e di ogni epoca, e non richiede annotazioni e glosse per farsi capire. Infine anche il Paradiso, nonostante tutte le sue temute disquisizioni teologiche, filosofiche e scientifiche, ha i suoi aspetti popolari che vanno dal ‘passatismo’ di Cacciaguida, tipico dei vecchi di ogni età, a certi momenti felici del rapporto di Dante con Beatrice, alla grande rappresentazione dei beati nell’Empireo, alla preghiera di san Bernardo alla Vergine. Per tutti questi aspetti, la Commedia continua a parlarci oggi, come parlava ai lettori di sette secoli fa.
Lino Pertile è Professore Emerito nel Dipartimento di Lingue e Letterature Romanze della Harvard University. Laureatosi all’Università di Padova nel 1965, a partire dal 1968 ha insegnato lingua e letteratura italiana in Inghilterra (Reading e Sussex University) e Scozia (Edimburgo) prima di passare a Harvard nel 1995. Dal 2010 al 2015 è stato Direttore di Villa I Tatti, The Harvard Center for Italian Renaissance Studies, Firenze. Ha pubblicato saggi sulla letteratura italiana (dal Tre- al Novecento) e francese (specialmente su Montaigne) e ha curato con C. P. Brand The Cambridge History of Italian Literature (paperback 1999). In campo dantesco ha curato l’edizione critica delle Annotationi nel Dante fatte con M. Trifon Gabriele in Bassano (1993) e, con Z. G. Barański, il volume Dante in context, Cambridge University Press, paperback 2017. È inoltre autore di numerosi articoli e dei volumi La punta del disio. Semantica del desiderio nella “Commedia” di Dante, Cadmo, 2005 e La puttana e il gigante: dal “Cantico dei cantici” al Paradiso terrestre di Dante, Longo, 1998. Fresco di stampa è il suo Dante popolare, Longo, 2021. Dal 2015 è socio dell’Accademia Ambrosiana e dell’Accademia Nazionale dei Lincei.