
Terminata la stesura del libro, Sergio-Baḥīrā lo attaccò alla corna destra di una vacca; poi lasciò andare l’animale perché raggiungesse il resto della sua mandria. Gli Arabi e Maometto erano in quel momento seduti non lontani dalle bestie. Il profeta, che era stato messo al corrente di questa farsa, vedendo apparire la vacca, saltò, si alzò con segni di venerazione e paura. Si lanciò allora in mezzo alla mandria, staccò il libro dalle corna della vacca, lo baciò, lo portò ai suoi occhi, ci coprì il suo viso e infine pronunciò queste parole «Gloria a Dio che ci ha inviato una guida perché ci possa mettere sulla strada giusta. Gloria a Dio che ci guida quando noi non sappiamo che direzione prendere e dove andare. Quest’animale è il messaggero che io vi avevo annunciato». Poi aprì il Libro e lesse la prima pagina che attestava formalmente la sua origine celeste Maometto chiamò il Libro El-Forkan perché era separato (mofarrak) in molti capitoli e composto di molti libri.In realtà il nome di Forkan dato al Corano significa ‘distinzione’, perché questo Libro serve a discernere il bene dal male.
Molti autori cristiani dal XII in poi (ad. es Guibert di Nogent, Pietro Alfonso, Gautier, Embrico di Mainz, e vari altri) producono moltissime varianti di questa leggenda, nel corso della quale la vacca fu perfino trasformata in toro. E fu un particolare che diceva senza lasciare dubbio alcuno che la leggenda era apocrifa e che di conseguenza la supposta “rivelazione” di Maometto era una impostura. Nel libro offro una rassegna dettagliata di queste versioni e della vasta area europea in cui circolarono, della fitta rete interstestuale che crearono e che impegnarono anche teologi come Tommaso; devo dire nel loro insieme creano una narrativa degna delle belle favole da Mille e una notte, nonostante la tramatura erudita che ne offre i dati filologici. Non posso indugiare a riferirli perché ci vorrebbe troppo spazio e tempo. Posso solo dire che nella mia ricerca ho cercato di evidenziare quegli elementi che poi servono a spiegare, almeno in gran parte, perché Maometto sia fra gli scismatici nell’Inferno di Dante, e molti motivi che poi spiegheranno la resa pittorica di Filippino Lippi. Né posso dilungarmi a riferire che di tutta questa leggenda in Dante non faccia cenno alcuno, mentre di essa danno molte informazioni i suoi commentatori. Eppure senza quella leggenda non capiremmo il particolare contrappasso con il quale è punito Maometto nell’Inferno. Lascio che i lettori vedano come Dante presupponga nei lettori la conoscenza di queste leggende, e soprattutto perché la presenza di Maometto sia indispensabili nella concezione della Commedia, del personaggio “visionario” e della trascrizione nel “libro” delle verità viste nel viaggio. Mi pregio di aver restituito a Maometto l’importanza “poetica”, proprio nella concezione strutturale del poema, importanza fino ad ora mai rilevata con la dovuta giustificazione.
In che modo la leggenda del toro compare nel canto XXVIII dell’Inferno di Dante e qual è il pensiero del Sommo Poeta su Maometto?
Vedo che la mia risposta non ha appagato la curiosità ma anzi l’ha stimolata, e vedo perché “intrighi” il mio accenno all’assenza/presenza della leggenda di Maometto nella Commedia. Risponderò in modo specifico ma anche essenziale. Ripeto che Dante non solo conosce le leggende su Maometto me presuppone che siano familiari ai suoi lettori, e in questo non sbagliava perché i suoi commentatori lo confermano. Più difficile è capire che non sia fra gli eretici. Ma riusciremmo ad immaginarlo vicino a Farinata o a Cavalcante dei Cavalcanti? È uno scismatico e per giunta “fraudolento”. Prevedendo che i miei lettori vogliano sapere che differenza intercorra fra eresia e scisma, ha dedicato non poco spazio a chiarire questo problema dal punto di vista teologico sperando di averli persuasi che la differenza ci sia e che sia pertinente. In quanto scismatico Maometto è un seminatore di discordia e il suo contrappasso fende o spacca il suo corpo. L’immagine delle budella che gli pendono è impressionante. Maometto, però, oltre al diavolo che lo fende con la spada ogni volta che ritorna al punto del cerchio dove questo diavolo lo attende, si autosquarcia in un modo singolarissimo, cioè “squartandosi il petto” come se fosse un libro. Questo è il suo contrappasso. è un particolare al quale dedico molta attenzione perché, ricordiamo, Maometto è l’autore di un libro che nasce dai frammenti del Libro per antonomasia, ossia la Bibbia che lui ha “squadernato” o scerpato per fare il suo libro falso. Faccio notare che il la parola “risma” usata in rima da Dante è un termine tecnico editoriale o librario, e per giunta di origine araba. Senza la leggenda di Maometto e della sua figura di falso profeta non capiremmo quel singolarissimo contrappasso. Ma sottolineo anche due altre cose: che il libro è un simbolo cristiano dell’Universo e di Dio Stesso che raccoglie il creato in un volume; inoltre noto che anche Dante è autore di un libro “rivelato”, se così possiamo dire, perché il suo contenuto è la giustizia di Dio distribuiti nell’oltretomba. Quindi Maometto in questo senso è un antagonista di Dante, e da questo ricavo tutta l’importanza che Dante gli conferisce nella Commedia. La audience, il pubblico di Dante, poteva cogliere tutti questi significati perché conosceva la leggenda di Maometto e del suo libro consegnatoli da un animale. E credo che anche il lettore moderno, una volta conosciuta questa leggenda, valuti la finezza dell’arte di Dante che “scrive per i suoi contemporanei”, e che proprio per questo è il “grande autore d’attualità” e non solo di valori eterni. Ed è per questo che ho voluto ricostruire la leggenda di Maometto perché anche noi, lettori ormai lontanissimi dal mondo i cui valori portarono alle crociate, possiamo apprezzare il rapporto che il viator poteva presentare ai suoi lettori senza dover spiegare allusioni o cose che a quelli apparivano ovvie.
Quali ipotesi di lettura del toro sospeso in aria, all’interno del ciclo di affreschi di Filippino Lippi in Santa Maria sopra Minerva, è possibile fornire?
Dunque, cosa c’entra giustamente la leggenda del toro e del libro sacro con la chiesa di Santa Maria sopra Minerva a Roma? Per anni mentre ero alle prese con le ricerche per Dante, il Profeta e il Libro mi son interrogata sul titolo di un dipinto di Filippino Lippi chiamato l’Adorazione del vitello d’oro come Apis: un bovino, un vero e proprio toro, figura sospeso in aria tra due monti, leggero e dinamico come se fosse appena arrivato dal mare che si intravede sullo sfondo. L’opera realizzata su un disegno del pittore dal suo allievo, il cosiddetto Maestro di Memphis, sarebbe stata parte del ciclo delle Storie di Mosè, insieme a altri due quadri di tela riguardanti le storie del profeta di cui restano solo Mosé fa scaturire l’acqua e l’Adorazione del vitello d’oro.
I dubbi relativi al titolo dato a questo dipinto sorgono alla luce dello studio che stavo portando avanti sulla genesi e la trasmissione della leggenda nel Mediterraneo del toro e del Libro sacro, in quanto l’animale non è un vitello e non è d’oro come nell’episodio dell’Antico Testamento (Esodo 32: 1-6,) a cui questo dipinto sembra pur alludere. Per i critici d’arte – che non si spiegano la presenza di un toro al posto del vitello così come ci racconta il libro dell’Esodo -, è una questione chiusa: si tratta del dio egizio Apis venerato sotto le spoglie di un toro che veniva scelto dai sacerdoti in base a certi particolari contrassegni: una macchia bianca sulla fronte a forma di triangolo; una macchia a forma d’aquila sul collo; una macchia a forma di mezza luna sul fianco. Effettivamente il toro del dipinto di Lippi presenta una luna crescente sul fianco, ma se dalla fusione dei metalli fosse venuto fuori un toro, e non un vitello, ci sarebbero le premesse per pensare che l’idolo venerato dagli israeliti in assenza di Mosè riproducesse proprio Apis. È altrettanto vero che il vitello e il toro erano considerati entrambi dalle popolazioni del Vicino Oriente simboli di forza e di fecondità e per questo venivano associati alla divinità, ma nella rievocazione pittorica di questo specifico episodio del libro dell’Esodo, non si tratta mai di un toro, bensì di un vitello.
Il caso del dipinto di Filippino è straordinariamente unico dunque. Un fatto è emerso con certezza da questo studio dell’enigmatico dipinto: il pittore decide di offrire una rappresentazione del tutto singolare della sfrenata idolatria degli israeliti, quale momento di rottura di quella codificazione della Legge che Mosè aveva ricevuto attraverso i dieci Comandamenti. In questo senso ho colto nell’enigmatico dipinto, la stessa preoccupazione civica di Dante che punisce Maometto tra gli scismatici.
Nel dipinto il toro allude al messo celeste che ha portato quel Libro sacro dell’Islam: il nuovo idolo che aveva provocato una nuova rottura della Legge mosaica, un riferimento peraltro suggerito da quel crescente sul corpo del bovino, proprio al regno turco che aveva fatto della mezza luna l’emblema della loro fede maomettana perché nel Corano (Sura 54: 1-2) si fa riferimento alla spaccatura della luna – a Maometto cadde un pezzo di luna dalla sua manica, ed egli ebbe l’abilità di raccorciarlo – da cui prende il nome la Sura che racconta questo suo miracolo. Con la capitolazione nel 1453 della città di Costantinopoli, ovvero il centro politico e spirituale di un impero percepito come il centro del mondo e l’ultimo baluardo cristiano al confine con l’Asia Minore, per mano dei turchi ottomani, quella mezza luna finì per racchiudere tutte le ansie e i timori del mondo cristiano che percepiva un’espansione dell’Islam come una nuova barbarie: un attacco al cuore e ai valori profondi della civiltà occidentale. Ma come provare che quel toro nel dipinto di Filippino alludesse a quello della leggenda anti-Maometto?
Nel tentativo di rispondere a queste, e altre domande su cui mi soffermo in Dante, il Profeta e il Libro, ho intrapreso dunque un’indagine sulla funzione del Libro, custode del sapere antico e cristiano, nella poetica pittorica di Filippino Lippi per leggere il dipinto enigmatico nel quale riconoscevo tracce della leggenda del toro volante, come lo chiama Franco Cardini. Sono partita dagli affreschi della cappella Carafa in santa Maria sopra Minerva a Roma, allo scopo di individuare le dinamiche culturali e storiche che portarono Filippino a concepire l’episodio biblico dell’adorazione del vitello d’oro in una maniera che lascia intravedere una critica al fanatismo per un nuovo idolo che è venuto, in tutta la sua vitalità, a espropriare quello immobile, venerato dagli israeliti.
Nella disputa di san Tommaso con gli eretici nella cappella Carafa Tommaso d’Aquino, il teologo domenicano con il quale il cardinale Oliviero aveva una lontana parentela, è seduto in cattedra e tiene nella mano sinistra un libro aperto, come Cristo. Nella mano destra indica una serie di libri chiusi, uno dei quali sotto il suo piede sinistro, su cui si appoggia a mo’ di cuscino la figura losca di un vecchio laido e corrucciato, la personificazione del male che in mano ha un cartiglio con su scritto «Sapientia vincit malitiam», un versetto dal libro della Sapienza (8: 30), con un’allusione al ruolo assegnato al sapere dai domenicani che vedevano nella conoscenza lo strumento per riconoscere e sconfiggere il vizio e l’eresia. La mutilazione fatta al Libro, alla sapienza, va di pari passo con quella perpetuata ai danni della fede e viene punita col contrappasso della lacerazione di Maometto e da Filippino con libri e manoscritti strappati ai piedi degli eretici che li guardano delusi.
Non si sa se il Corano sia tra quei libri lacerati, ma di sicuro Filippino è al corrente dei fatti di Costantinopoli e aveva in mente anche il libro sacro dell’Islam. Ci sono vari elementi che invitano a credere che Filippino possa aver anche pensato al Corano tra quei libri lacerati dalla distorsione che venne fatta alla parola scritta, ne parlo in modo più approfondito nel mio saggio, ma non dimentichiamo che Oliviero Carafa, a cui era dedicata la cappella in Santa Maria sopra Minerva, aveva guidato una spedizione cristiana di successo contro i turchi, presso Smirne, facendo recuperare il porto di Antalya ai veneziani nel 1472.
Cosi alla luce delle riflessioni maturate sulla lettura della cappella Carafa, ho visto in quel toro sospeso in aria il nuovo idolo adorato dal popolo ottomano ormai di casa a Costantinopoli, come sembra suggerire quel crescente sul fianco del leggiadro bovino. Dato l’evidente richiamo a Mosè nella costruzione della leggenda, non si può pensare che quei dettagli – che riconducono inevitabilmente all’episodio di Esodo 32: 1-6 – siano casuali, certamente non tenendo conto dei recenti fatti storici e al timore dilagante dell’Islam nel Mediterraneo.
Filippino nel quadro chiamato l’Adorazione del vitello d’oro come Apis sta pensando all’Islam e identifica il nuovo idolo con il toro che quella Legge e dietro cui si nasconde Maometto che dalla consegna del Libro sacro per mezzo del bovino celeste divenne Profeta. La riflessione sull’idolatria lo porta a vederla come forma di oscurantismo, che non rimane isolata se si pensa anche alla sconfitta dell’idolo ai piedi di Simon Magonella chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze. Se così fosse, allora con il dipinto dell’Adorazione del vitello d’oro di Lippi saremmo di fronte a una vera e propria riscrittura di un momento chiave dell’Antico Testamento alla luce di un pregiudizio contro Maometto risvegliato dalla paura dell’Islam. E se così fosse, sarebbe un fatto insolito e del tutto eccezionale che testimonia l’immissione del dato storico e contemporaneo – la sconfitta di Costantinopoli e dell’Impero Romano d’Oriente – nella rilettura di un episodio biblico che aveva dato la genesi alla fabbricazione della leggenda contro il Profeta. Ma questa è la cifra della modernità di Filippino, come quella di Dante.
Roberta Morosini è Professore Ordinario di Studi Romanzi presso la Wake Forest University (NC) nonché Speroni Visiting Professor UCLA (Fall 2019) in Medieval and Renaissance Italian Literature and Culture.