“Dante e la medicina. L’arte medica e farmaceutica nell’opera dantesca” a cura di Alessandro Di Nuzzo

Dott. Alessandro Di Nuzzo, Lei ha curato l’edizione del libro Dante e la medicina. L’arte medica e farmaceutica nell’opera dantesca pubblicato da Aliberti; una silloge di saggi dedicati al rapporto fra il Poeta e la medicina: quali legami presenta l’opera di Dante con la medicina e con le arti a essa collegate, la spezieria fra tutte?
Dante e la medicina. L’arte medica e farmaceutica nell’opera dantesca, Alessandro Di NuzzoDante e la medicina è una proposta di lettura ispirata da una doppia attualità. L’una è naturalmente il settecentenario dantesco. L’altra è l’anno e mezzo di mondiale pandemia che abbiamo vissuto e dal quale stiamo faticosamente uscendo – almeno si spera. Credo si possa affermare che mai come in questo periodo la medicina abbia letteralmente invaso le nostre vite. Virus, malattie, farmaci, terapie, luoghi di cura: la visione di un ospedale, di una terapia intensiva, di un pronto soccorso, è stata per lunghi mesi, “grazie” ai media, quotidiana. Ansie, paure, sconforti si sono moltiplicati; il nostro stesso immaginario ne è stato ampiamente suggestionato.

L’anniversario dantesco del 2021 ci offriva un’occasione imperdibile di proporre, o riproporre se vogliamo, al lettore un tema “classico”: i molteplici legami dell’opera di Dante con la medicina e con le arti ad essa collegate. Prima di tutte la spezieria, una disciplina ricca di affascinanti suggestioni.

Il tema “Dante e la medicina” è vastissimo, e studiato sin dalla metà dell’Ottocento. Noi abbiamo cercato di fare una sintesi ragionata dell’amplissima bibliografia in materia, toccando tutte o quasi le questioni, a volte complesse, che ruotano attorno all’argomento. Il volume non ha carattere di studio o di ricerca; piuttosto di divulgazione, per il lettore attento, curioso e appassionato, che si ritrova immerso in un’atmosfera fra Otto e Novecento, fatta di storia della medicina allo stato nascente o quasi; di antropologia imperante fino alle sottigliezze della fisiognomica; di positivismo come clima e sottofondo culturale, non privo di ingenuità ma caratterizzato da un grande amore per la cultura e da una volontà di avvicinare i mondi della scienza e quelli della letteratura, di unificare i due pilastri del sapere.

Difficile riassumere in una battuta i molteplici legami tra Dante e la medicina. Potrei citare le parole di Arturo Castiglioni che chiudono il bel saggio del 1922 dedicato all’argomento: “In tutta la meravigliosa opera del Poeta, cenni ed osservazioni e citazioni e raffronti e descrizioni precise indicano come della medicina del suo tempo l’Alighieri sia stato conoscitore profondo, e quanto abbia aperto il grande animo allo spirito innovatore della critica razionale e come la mente divinatrice abbia inteso le prime affermazioni delle verità che dovevano luminosamente trionfare nel volger dei tempi”.

Di quale rilevanza è il saggio di Arturo Castiglioni sulla Medicina ai tempi e nell’opera di Dante posto al principio della raccolta?
Abbiamo posto in apertura dell’antologia il saggio di Castiglioni La medicina ai tempi e nell’opera di Dante perché ci pare sia una sorta di testo base della bibliografia dantesca sull’argomento. È vero che il tema fu affrontato ben prima di Castiglioni da saggi come quello di Michelangelo Asson – straordinaria figura di medico, patriota e amante delle belle lettere della prima metà dell’Ottocento – o di Salvatore De Renzi – altra bella figura di medico e di pioniere della storia della medicina, contemporaneo del precedente.

Il Castiglioni però ci offre, negli anni Venti del Novecento, una panoramica sull’argomento Dante-medicina relativamente sintetica, piuttosto esaustiva e di notevole chiarezza espositiva. Fu un grande scienziato e un fine intellettuale: docente a Trieste, Siena, Padova, Yale e Milano, autore di una fondamentale Storia della medicina, estensore della voce “Medicina” per il ventiduesimo volume dell’Enciclopedia Italiana. Si era formato nella Vienna di fine Ottocento, e senza dubbio da lì, dalla frequentazione di personaggi come il fisiologo von Brücke (uno dei maestri di Freud, per chiarirci il contesto) nacque il suo interesse per gli intrecci fra la scienza e l’arte, fra la dimensione psico-fisica e quella creativa nell’essere umano.

Come si sviluppò il “caso Lombroso”?
Il “caso Lombroso” nacque in realtà da quella che si chiamerebbe una noterella dell’antropologo apparsa originariamente sulla rivista “Gazzetta Letteraria” nel 1893. Un testo breve, intitolato significativamente “La nevrosi in Dante e Michelangelo”, ovviamente in linea con la nota teoria dell’”uomo di genio”. L’ipotesi lanciata da Lombroso sull’epilessia di Dante riprendeva in realtà uno spunto del francese Durand Fardel; proposta nella patria del sommo poeta, però, suscitò immediate reazioni. Letterati come il De Leonardis risposero indignati: Dante matto? Dante isterico? si chiesero inorriditi e furiosi. Venne a dare manforte a Lombroso il suo devoto allievo Bernardo Chiara, con un saggio questa volta più lungo e articolato, che si può leggere nel libro, in cui si ribadisce la tesi di una possibile patologia nervosa di cui Dante poteva soffrire, identificandola appunto con una forma di epilessia – nel senso clinico molto esteso, per così dire, che si dava all’epoca a questo termine.

In realtà, il saggio di Chiara apre le porte a un tema ancora più ampio, quello di una possibile lettura “psichiatrica” di alcuni aspetti – figure, personaggi, situazioni – dell’opera di Dante, se non proprio dell’autore stesso. Da qui nasce un filone di studi non privo di interesse e curiosità, come quello dello psichiatra Salvatore Saitta, il quale in un saggio del 1921 rileva nell’opera dantesca e nei suoi personaggi – prima di tutto i degenerati dell’Inferno – chiare e molteplici descrizioni di gravi stati psicopatologici, fornendoci una specie di lettura manicomiale della prima cantica.

Quanto è diffusa, negli autori da Voi antologizzati, l’ipotesi che Dante abbia avuto personali intuizioni pre-scientifiche?
Che Dante abbia avuto personali intuizioni pre-scientifiche è un’ipotesi piuttosto diffusa negli autori della nostra antologia, che fra Otto e Novecento tendono quasi spontaneamente, sulle ali dell’entusiasmo, a dare una visione “leonardesca” del poeta. È un’enfatizzazione probabilmente, anzi di sicuro eccessiva.

Un fatto però è certo. Ai fenomeni di natura medica e clinica, il poeta della Commedia riservò un interesse e un’inclinazione del tutto particolari e uniche, come non se ne trovano in nessun’altra opera della letteratura a lui contemporanea o immediatamente precedente. Invocare dei presunti topoi letterari cui Dante si sarebbe rifatto per queste descrizioni “cliniche” così dettagliate e rigorose è fare un torto all’originalità e in qualche modo al genio stesso dantesco. Non sappiamo se Dante abbia partecipato alle famose dissezioni anatomiche di Mondino de’ Liuzzi a Bologna – probabilmente no. Quel che sappiamo per certo, perché la sua opera ce lo testimonia, è che Dante fu un grande osservatore: e in questo senso forse si può declinare il suo spirito prescientifico.

Di quali affezioni e malattie Dante pare aver sofferto in vita?
Quella sullo stato di salute dell’uomo Dante è una questione piuttosto delicata. Prima di tutto perché, come ci ricorda il prof. Galassi nel suo saggio contenuto nel volume, non abbiamo che informazioni indirette circa le eventuali patologie dei personaggi storici, non potendo esaminarli dal punto di vista clinico.

Mi lasci dire una cosa, però: si è persa una grande occasione in questo anno di celebrazioni. Quella di riesumare i resti del poeta per una nuova ricognizione. Oggi, se si procedesse a una terza analisi delle ossa e del teschio di Dante, dopo le due che sono state compiute in passato, avremmo un’arma molto importante in più: le analisi genetiche, che si avvalgono di tecniche sul dna antico molto avanzate. Si potrebbe ricercare qualche gene oggi noto per poi associarlo alle presunte patologie di cui Dante soffriva. Non si è fatto: speriamo in futuro.

La principale questione sulla salute del poeta ruota attorno alle numerose manifestazioni di svenimenti, perdita dei sensi o di stati alterati della coscienza che Dante descrive frequentemente lungo tutta la Commedia. Il più celebre è naturalmente quel “caddi come corpo morto cade” con cui si conclude l’incontro con Paolo e Francesca. È su questi elementi, come dire, “anamnestici” raccontati da Dante stesso che si fondava l’ipotesi lombrosiana dell’epilessia, cui seguì tutta una serie di congetture formulate nel Novecento. Negli ultimi quindici-venti anni si è invece fatta strada l’ipotesi che questi stati possano ricondursi ad una forma di narcolessia, associata alla cataplessia. Una tesi proposta dal professor Giuseppe Plazzi per primo, neurologo dell’Università di Bologna, e ripresa da altri studiosi fra i quali appunto Galassi che ne scrive nel nostro libro.

Dicevo che la questione è delicata, proprio perché l’ipotesi formulata dagli scienziati ha faticato molto ad essere anche solo discussa, se non accettata, in ambito storico-letterario. Un po’ come se la semplice possibilità che Dante possa aver avuto una patologia neurologica ne diminuisca lo status di sommo poeta. Si tratta per gran parte di un equivoco: nessuno, credo, vuole affermare, come faceva il Lombroso, che un eventuale squilibrio neurologico sia alla base del genio dantesco, o che sia la premessa alla sua personalità artistica e alle relative creazioni. Come ricorda Galassi, sono molti i pazienti narcolettici nel mondo, e non vi è certo una contestuale prevalenza di scrittura di opere come la Commedia.

Negli ultimi tempi, però, la sensazione è che si vada nella direzione di un dialogo molto maggiore sopra questi temi fra la cultura scientifica e quella umanistica. Ci sono degli avanzamenti fra le diverse posizioni, pur nei distinguo e nella difesa dei propri campi di indagine.

Cosa sappiamo, dal punto di vista clinico, della morte di Dante?
Molto poco, purtroppo. Le fonti sono notoriamente scarse, e qui appunto l’analisi condotta con i mezzi attuali che la scienza ci metterebbe a disposizione potrebbe darci risultati molto importanti.

Nel libro, la questione sulla morte di Dante è affidata alla voce di uno studioso degli anni Venti del Novecento: Antonino Del Gaudio, medico ed erudito di storia della medicina, un vero appassionato della ricerca, che scrisse una storia clinica di Dante e dei personaggi della Commedia “a puntate” su una rivista scientifica dell’epoca.

L’ipotesi più accreditata è quella della morte per “perniciosa malarica”, come la definisce Del Gaudio, contratta durante il viaggio d’ambasceria a Venezia del luglio 1321 per conto di Guido Novello da Polenta. I biografi contemporanei, penso per esempio a Santagata, concordano sostanzialmente con questa ipotesi. Dante si spegnerà il 13 settembre dopo un mese e mezzo da quel viaggio compiuto attraverso terre al tempo paludose: e a questo proposito Del Gaudio osserva, non senza ragione, come il fisico del poeta fosse già “macro” e “faticato” (il “faticato spirito” di cui parla Boccaccio nel Trattatello) a quell’età, cosa che potrebbe aver influito sugli esiti della malattia.

È un’ipotesi, ripeto, come la gran parte di quelle contenute in questo libro. Ma un’ipotesi fondata, e che ci aiuta ad inquadrare la personalità dell’artista nelle sue vicende umane, nel dare un volto – anche della fisiognomica applicata al volto di Dante si parla nel libro – e un corpo, con le sue forze e le sue debolezze, ad una delle menti più alte della letteratura e della cultura di tutti i tempi.

Alessandro Di Nuzzo è direttore editoriale del marchio Aliberti dalla sua nascita, nel 2001. Ha curato volumi antologici di poesia e narrativa italiana e straniera. È autore del romanzo La stanza del Principe

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