“Dalle Alpi all’Africa. La politica fascista per l’italianizzazione delle “nuove province” (1922-1943)” di Roberta Pergher

Prof.ssa Roberta Pergher, Lei è autrice del libro Dalle Alpi all’Africa. La politica fascista per l’italianizzazione delle “nuove province” (1922-1943) edito da Viella: quali strategie mise a punto il regime fascista per consolidare il dominio sulle recenti acquisizioni territoriali?
Dalle Alpi all’Africa. La politica fascista per l’italianizzazione delle “nuove province” (1922-1943), Roberta PergherIl mio progetto è partito dall’interesse per il carattere totalitario del regime fascista. La mia domanda iniziale era: in che modo un regime totalitario poteva trasformare territori e popolazioni non italiane in italiane? Come poteva attuare smisurati piani di trasformazione sociale e ambientale in regioni dove l’autorità italiana era largamente contestata? Ho quindi pensato di analizzare sotto quest’ottica sia i territori recentemente annessi dall’Italia, cioè le cosiddette province “redente” che fino alla Prima guerra mondiale avevano fatto parte dell’impero austro-ungarico, sia le colonie conquistate poco prima della guerra, cioè la Tripolitania e la Cirenaica sulla costa libica del Mediterraneo. Volevo capire come e quando queste terre e le sue genti erano state percepite come italiane o “quasi” italiane o perlomeno trasformabili in italiane. La mia ricerca però non è stata tanto una comparazione tra terre nazionali e terre coloniali quanto un’esplorazione di come il regime concepì la sua sovranità su questi territori e in che modo cercò di renderli italiani non solo di nome ma di fatto.

In entrambi i contesti – sia quello nazionale che quello coloniale – l’uso della violenza era fondamentale. Prima di poterli italianizzare, i territori dovevano essere conquistati. Per le terre ex-asburgiche ciò avvenne attraverso tre lunghi anni di guerra che costarono la vita a 600.000 combattenti italiani. Per le colonie libiche, strappate all’impero ottomano in una guerra d’aggressione nel 1911-1912, fu invece necessaria una lotta serrata contro la resistenza anticoloniale della popolazione autoctona sconfitta soltanto nel 1932.

Conquistare però non basta: l’Italia doveva ora amministrare queste terre e il mio interesse principale era capire la loro integrazione nel contesto italiano. Idee sull’“italianità” di questi territori avevano preceduto e, per i nazionalisti italiani, giustificato la guerra. Trento e Trieste, la linea di confine al Brennero, l’Istria ma anche la Dalmazia (negata all’Italia alla conferenza di pace di Parigi) erano terre pensate come italiane mentre in Tripolitania e Cirenaica il dominio italiano era legittimato dall’antica appartenenza della Libia all’impero romano. Inoltre, con un’immagine molto suggestiva e divenuta dominante con il fascismo, la Libia fu immaginata come “quarta sponda” d’Italia a rimodellare i confini della penisola. Il mio studio, allora, dimostra il ruolo fondamentale delle politiche d’insediamento demografico nel realizzare e attuare l’italianità di queste terre.

In che modo il regime si impegnò a formulare e imporre la sovranità italiana su territori e popolazioni molto diversi fra loro, ma ugualmente estranei alla nazione?
I territori annessi dopo la Prima guerra mondiale e le colonie libiche conquistate qualche anno prima erano senza dubbio molto diversi tra loro: le due regioni si trovavano in continenti diversi; erano governate con sistemi legislativi diversi – i primi erano appunto province integranti della nazione, i secondi colonie; avevano un passato diverso ed erano abitate da popolazioni diverse, e anche il loro status agli occhi degli osservatori stranieri era diverso. La Libia era stata devastata dalla guerra di conquista e la popolazione locale continuò la lotta contro l’invasore anche dopo l’accordo di pace con l’impero ottomano, mentre nelle zone ex-asburgiche la popolazione aveva assecondato, quando non pienamente accettato, il passaggio alla sovranità italiana. Verso la fine degli anni Trenta, la maggior parte degli abitanti della Libia non aveva – e non avrebbe mai avuto – i requisiti per ottenere la cittadinanza italiana, mentre la maggior parte della popolazione annessa dopo la Grande guerra era a pieno titolo cittadina dello Stato italiano. In Libia, il regime si sentì legittimato ad assegnare ai coloni in arrivo vaste porzioni di terra coltivabile: in realtà, si trattava di ampie aree espropriate ai “ribelli”. A Nord, c’era poco spazio per insediamenti di massa, anche perché il regime non poteva espropriare estese proprietà a cittadini che, in linea di massima, non avevano messo in discussione in modo violento la sovranità italiana sulla provincia. E sebbene il regime cercasse di creare insediamenti in entrambe le regioni, l’ordine di grandezza dei due programmi fu molto differente, così come furono diversi il raggio d’azione e l’impatto sulla popolazione locale. Inoltre, programmi di popolamento venivano realizzati anche in altri luoghi della penisola italiana.

Nonostante queste grandi differenze, in entrambi i contesti il regime puntò sulle politiche d’insediamento per assicurare l’italianità dei territori. Quindi, anche quando queste ultime seguivano traiettorie diverse, esse avevano un fine ben preciso: con il loro duro lavoro, i coloni si sarebbero appropriati della terra rendendo l’affermazione di sovranità dell’Italia reale nei fatti. Nel caso libico la politica demografica fascista fu una forma di violenza, un’aggressione contro la popolazione autoctona che aveva conteso il potere italiano dal momento dell’invasione nel 1911. La resistenza libica fu sconfitta definitivamente solo nel 1932 con un’incursione contro la popolazione civile che può essere definita un genocidio. In seguito, per salvaguardare il potere dell’Italia, il regime fascista passò ad una politica d’insediamento intesa a rivoltare le proporzioni etniche per arrivare ad una maggioranza italiana. Il progetto era di insediare mezzo milione di italiani in Libia. Il primo grande contingente fu avviato nel 1938, quando i famosi “ventimila” sbarcarono in Tripolitania e Cirenaica. Nel 1939 furono spediti altri 10 mila coloni. Inoltre, nel 1939 il regime arrivò a dichiarare la zona costiera, cioè la zona più fertile della Libia, una regione d’Italia divisa in quattro nuove province. Queste province erano considerate non più colonie ma parte integrante del regno.

Nelle cosiddette “terre redente” – in Alto Adige, come nelle provincie annesse del Friuli e dell’Istria – progetti d’insediamento furono avviati già negli anni Venti e i proponenti dell’italianizzazione, e molti di loro erano stati fervidi nazionalisti durante i governi liberali che poi si unirono o fiancheggiarono il fascismo, continuarono a ribadire l’importanza della “conquista del suolo”. Proprio perché non c’era stata un’insurrezione violenta dopo le annessioni fu difficile per il regime trovare terra da cedere ai coloni italiani. Ma gli sforzi compiuti in questo senso furono comunque notevoli. Inoltre, in queste terre il problema della sovranità italiana si presentò un’ulteriore sfida: bisognava integrare le popolazioni non italiane nella comunità nazionale. Il dilemma che dovette affrontare il regime consisteva nel mantenere l’omogeneità interna, nonostante la recente acquisizione di minoranze. Dal momento in cui salirono al potere, e ben prima di seguire le loro ambizioni espansionistiche, i fascisti furono pertanto messi a dura prova in due territori molto diversi fra loro ma dove l’autorità dell’Italia veniva contestata in modo analogo.

Quali caratteristiche assunse la politica di insediamento fascista in Alto Adige e in Libia?
Nel caso della Libia si partì nei primi anni Trenta con progetti statali contenuti che coinvolsero poche famiglie. Fino al 1937 erano stati realizzati in tutto solo due villaggi con circa 250 case coloniche in Tripolitania e quattro villaggi abitati da poco meno di 300 famiglie in Cirenaica. Inoltre, molti coloni chiesero di essere rimpatriati e, addirittura, in un caso particolare, solo 12 capi famiglia su 26 decisero di rimanere in Libia. Nonostante questi scarsi risultati, la cosiddetta “colonizzazione demografica intensiva” venne avviata nel 1938 con l’invio dei ventimila (anche se in realtà si trattava all’incirca di 16,000 coloni – un numero comunque considerevole). In questa nuova fase, lo Stato italiano non fornì solo terra e

infrastrutture come in precedenza ma concesse agli enti incaricati della colonizzazione demografica anche finanziamenti e vantaggiosi prestiti per la costruzione di villaggi, strade e pozzi. Il 30% dei costi di bonifica era sostenuto dallo Stato tramite sovvenzioni concesse ai coloni, mentre per il restante 70% lo Stato stesso si faceva creditore a tassi vantaggiosi. Da tali interventi conseguì che più di venti villaggi furono edificati lungo la costa della Tripolitania e della Cirenaica. La guerra interruppe il progetto di mandare 20,000 coloni ogni anno per 5 anni consecutivi in Libia. E l’obbiettivo finale della colonizzazione di massa di mezzo milioni di abitanti italiani in Libia non fu mai raggiunto.

In Alto Adige lo Stato non poteva usufruire di vasti territori “liberati” dalla popolazione autoctona, ed anche i progetti dell’Opera Nazionale Combattenti per l’Alto Adige e per l’Istria non giunsero a buon fine per mancanza di fondi ma anche per considerazioni politiche. Ciò nonostante, il governo fascista continuò ad appoggiare politiche di insediamento agricolo e nel caso di Bolzano, anche di tipo industriale. La possibilità di un insediamento di massa si presentò però solo nel 1939, quando un accordo tra Mussolini e Hitler diede alla popolazione di lingua tedesca e ladina la possibilità di prendere la cittadinanza tedesca e trasferirsi in Germania. Il risultato delle cosiddette “opzioni” fu un duro colpo per il regime, quando quasi il 90% della popolazione ammessa al voto optò per la Germania. A causa dell’avvio della guerra solo una piccola parte di questi si trasferì – per lo più nullatenenti – ma per la prima volta si aprì la possibilità di una trasformazione etnica di grandissime dimensioni per il regime e le sue istituzioni anche in Alto Adige. Furono quindi avviati progetti e discussioni su come meglio impostare questo trasferimento, e anche di questo parlo nel mio libro.

Come reagirono gli italiani agli sforzi del regime per italianizzare i territori in cui l’autorità era contestata?
Innanzitutto, dobbiamo definire chi erano gli “italiani” che in qualche modo erano coinvolti negli sforzi del regime per italianizzare i territori contestati. Sia nelle terre annesse dopo la Prima guerra mondiale che nelle colonie libiche vivevano persone di lingua e cultura italiane che accolsero e supportarono le politiche del regime. C’erano poi i coloni che arrivarono in queste terre tramite i progetti d’insediamento del fascismo. Coloro che decisero di partecipare a questi progetti lo fecero in gran parte non per convinzione ideologica ma per ragioni economiche. Sia in Libia che in Alto Adige o in Istria si trattava di famiglie che spesso non vedevano altre possibilità per farsi una vita. Sotto un certo punto di vista condividevano i ragionamenti e le logiche del regime. Andavano a lavorare terre che erano state conquistate con sangue italiano. Ma non sempre le loro visioni combaciavano con quelle del regime. Il fascismo voleva coloni che avrebbero per generazioni lavorato la terra rendendola definitivamente italiana. I coloni che andavano in Libia invece si muovevano da un immaginario coloniale più vicino al modello inglese in Kenya (immaginario che non necessariamente combaciava con la realtà): più padroni che lavoratori. I coloni, inoltre, sia in Libia che in Alto Adige, spesso consideravano il loro spostamento come un passo transitorio, un’opportunità di guadagno prima di tornare nei paesi d’origine. Insomma, la loro mentalità era quella tradizionale dell’emigrato e non necessariamente quella del colono fascista.

Infine, c’erano le popolazioni locali, anche queste diventate “italiane” con il loro passaggio sotto il dominio italiano. In Libia vivevano arabi, berberi, maltesi, greci, ebrei. Nelle province nordorientali c’era chi parlava il tedesco, il ladino, lo sloveno, il croato. Le popolazioni locali quindi non erano uniformi, né di lingua né di costumi, e nemmeno nella loro visione politica o ideologica. C’era chi assecondava il potere italiano e chi lo contestava. C’era però una grande differenza tra le popolazioni annesse nel Nord d’Italia e quelle libiche riguardo il loro status all’interno della società politica italiana. Le prime erano considerate cittadini italiani a pieno diritto, mentre quelle libiche erano “cittadini italiani libici” con uno status inferiore a quello dei cittadini italiani. Per quanto riguarda le loro reazioni ai progetti di insediamento fascista, li vedevano generalmente in modo negativo e con grande preoccupazione. Nel caso della Libia, la terra era stata “liberata” dalla popolazione autoctona con metodi violenti. La popolazione civile della Cirenaica era stata raccolta in campi di concentramento lontani dalle loro zone di abitazione. Il lavoro di bonifica tanto celebrato dal regime si basava quindi su un sopruso di grandissime dimensioni. Anche nelle province annesse dopo la Prima guerra mondiale l’arrivo di contadini italiani, e nel caso della costruzione della zona industriale di Bolzano di lavoratori italiani, veniva percepito come un’incursione con l’intento di rimpiazzare la popolazione locale – impressione che in gran parte coglieva correttamente le intenzioni del regime. Anche se i coloni spesso non trovarono “l’America” che si aspettavano in Libia, ed anche se loro speranze in Alto Adige furono spesso stroncate, furono le popolazioni locali a pagare il prezzo più alto per l’occupazione fascista di queste terre.

Roberta Pergher è professore associato di Storia all’Indiana University. Si occupa di fascismo, colonialismo e cittadinanza. Tra le sue pubblicazioni Mussolini’s Nation-Empire: Sovereignty and Settlement in Italy’s Borderlands, 1922-1943 (Cambridge University Press, 2017). Con Giulia Albanese ha curato In the Society of Fascists: Acclamation, Acquiescence and Agency in Mussolini’s Italy (Palgrave, 2012) e con Marcus Payk, Beyond Versailles: Sovereignty, Legitimacy, and the Formation of New Polities after the Great War (Indiana University Press, 2019).

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