
Nell’analisi dei contributi del Genovese sull’Europa, due considerazioni devono sempre essere tenute presenti: in primo luogo, l’idea europea si trasforma nel corso delle riflessioni dell’Esule, impegnato a riadattare e riorganizzare filosofia e prassi politica in base alle mutevoli condizioni geopolitiche italiane ed europee; in secondo luogo, Mazzini rimane un uomo dell’Ottocento, secolo che, a parte alcune eccezioni come Carlo Cattaneo, avrebbe realizzato quel concetto di nazione sovrana e indipendente che rendeva difficile un suo inquadramento in un’architettura sovranazionale. Infine, devo aggiungere che un ulteriore terzo elemento deve essere ricordato, non solo relativamente agli aspetti europeistici del pensiero mazziniano ma più in generale in ogni analisi sulla filosofia del Genovese: Mazzini scrisse davvero moltissimo, la maggior parte dei suoi contributi sono stati pubblicati nella monumentale raccolta dei suoi Scritti editi e inediti, ma ancora oggi vengono alla luce nuovi contributi. Dunque, l’analisi che parte da questi documenti è resa complessa da tale abbondanza di fonti, tra le quali ho provveduto ad analizzare quelle che, a parer mio, sono le più significative e, di queste, mi soffermerò a breve su alcune che possono contribuire a meglio descrivere la rilevanza degli aspetti europeistici dell’analisi teorica del Genovese.
Ciò chiarito, passo a rispondere alla domanda.
L’Europa non fu un aspetto secondario nei quarantadue anni di attività pubblicistica di Mazzini: dal primo articolo organico, il solo che riconobbe della sua produzione giovanile, apparso sul numero di novembre-dicembre 1829 della «Antologia» di Giovan Pietro Vieusseux, sino a quello del 1871, Politica internazionale, pubblicato sulla «Roma del Popolo», il tema europeo ritornò costantemente.
L’articolo del 1829 s’intitola D’una letteratura europea e viene considerato il manifesto programmatico del nucleo dei romantici genovesi, ricoprendo un’importanza particolare nella misura in cui Mazzini, a soli ventiquattro anni, raccoglie in un’opera unica le sue prime idee europeiste.
Come si evince dal titolo, in D’una letteratura europea si fa riferimento non a una cultura nazionale, bensì a quella europea. L’autore sottolinea come non esista una causa che produca differenze incancellabili tra i popoli: le distanze tra le varie comunità sono create dalle istituzioni divergenti, ma il progresso della civiltà permetterà alla cultura europea di affratellare i popoli facendo loro superare le barriere morali innalzate dagli enti statali.
L’europeismo di Mazzini derivava quindi dal profondo concetto dell’unità della cultura europea, intesa come sintesi di successivi ineliminabili apporti intellettuali: ellenismo, romanità, cristianesimo, germanesimo, umanesimo, nuova scienza. A questo esito lo conduceva la sua educazione largamente aperta, anche in età giovanile, alla cultura francese e, per suo intermediario, a quelle inglese e tedesca, per non parlare del vivo interesse per le letterature slave.
Qualche anno più tardi, dopo l’esperienza della “Giovine Italia” e la nascita della “Giovine Europa”, Mazzini scrisse Dell’iniziativa rivoluzionaria in Europa, articolo uscito nel gennaio 1835 sulla «Revue républicaine» di Parigi: «L’unità Europea come l’intese il passato è disciolta: essa giace nel sepolcro di Napoleone. L’Unità europea, com’oggi può esistere, non risiede più in un popolo: essa risiede e governa suprema su tutti (…). La legge dell’Umanità non ammette monarchia d’individuo o di popolo; ed è questo il segreto dell’Epoca che aspetta l’iniziatore. Quegli che tra voi, popoli, ha più patito e più lavorato sia tale. Il suo grido sarà ascoltato da tutta l’Europa, e la palma ch’ei coglierà stenderà l’ombra sua su tutte le Nazioni (…). Il progresso dei popoli sta in oggi nell’emanciparsi dalla Francia» (in Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini, vol. IV, Politica, vol. III, Imola, Galeati, 1908, pp. 177-178). Piuttosto preoccupato di liberare i rivoluzionari del Vecchio Continente dalla tradizionale riverenza all’iniziativa d’Oltralpe, l’Esule è invece reticente sull’aspetto istituzionale della nuova carta europea.
Il decennio successivo avrebbe visto Mazzini vivere il suo primo esilio inglese. In quel nuovo ambiente, il Genovese seppe ben integrarsi e diventare un polo per tutti gli altri rivoluzionari europei che in Inghilterra potevano trovare rifugio. Di questo periodo, mi limito qui a citare l’articolo The European Question, apparso il 9 gennaio sul giornale «The People’s Journal» diretto da John Saunders. Lo scritto non è riconducibile al “ciclo”» dei Pensieri sulla democrazia in Europa, oggetto di una magistrale riflessione di Salvo Mastellone, ma è comunque rilevante al fine di un quadro più completo sull’evoluzione della filosofia mazziniana relativa all’idea d’Europa e al futuro assetto territoriale del Continente. Non a caso, il testo propone una considerazione sulla situazione europea di quel momento, generata da scelte miopi degli statisti che avevano preso parte al Congresso di Vienna. Il saggio era rivolto agli «Englishmen» coevi dell’Apostolo, che quest’ultimo ipotizzava non in molti essere informati sulla situazione del «popolo d’Europa». L’Autore era invece certo che tutti gli uomini seri del Continente l’avessero ben chiara. Mazzini sottolineava la turbolenta situazione continentale, a cui non veniva prestata molta attenzione in Inghilterra. In Europa era in corso una battaglia, il cui fine era il medesimo di tutte le altre lotte combattute ovunque: la libertà, lo sviluppo di tutte le facoltà che costituiscono l’essere umano, il progressivo perfezionamento della società e dell’individuo. Ciò che cambia è la forma che la questione assume e i mezzi con cui se ne cerca la realizzazione: in quell’Europa, la nazionalità è la bandiera della lotta. Mazzini passava poi in rassegna le nazionalità europee oppresse: la Polonia, vittima di una nuova spartizione dopo la fine della breve esperienza della Repubblica di Cracovia, gli slavi assoggettati dall’Impero austriaco (facendo riferimento in particolare ai Cechi, agli Slovacchi, ai Rusniacchi e ai Vendi), che costituivano oltre la metà della popolazione asburgica e che chiedevano, insieme agli Italiani del Lombardo Veneto e ai Valacchi di Transilvania e Bucovina, di autodeterminarsi. L’Esule non dimenticava la Svizzera, le cui lotte intestine tradivano un vivo bisogno della centralizzazione nazionale che avrebbe potuto sottrarla alle influenze straniere troppo potenti. Un altro riferimento era alla Grecia, che legittimamente aspirava a radunare sotto la bandiera nazionale i suoi figli di Tessaglia, di Candia, di Macedonia, di Rumelia e che avrebbe potuto rappresentare, contro lo Stato zarista, una barriera più naturale e più forte del morente Impero ottomano. Non si dimenticava la Germania, che anelava a trasformare l’unità intellettuale e commerciale in unificazione politica. Nell’articolo si criticava duramente la gestione delle relazioni internazionali continentali, delegate a poche grandi potenze impegnate più nelle ambizioni di quel momento che non nella costruzione, nel prossimo futuro, di un ideale, quale quello della emancipazione delle nazionalità oppresse e della loro trasformazione in Stati indipendenti e democratici. Era dunque il tempo di prendere coraggio e di avviarsi verso l’iniziativa rivoluzionaria per procedere verso le unificazioni nazionali, denunciando il principio di intervento inaugurato dalla Santa Alleanza: alla non ingerenza negli affari interni di uno Stato era subentrato il principio politico della sovranità limitata e l’ideale della solidarietà internazionale era diventato una periodica consultazione dei governi reazionari europei nei Congressi. A questo modello doveva sostituirsi quello di un governo europeo, non chiarito nella forma, ma delineato come un’assise di Stati democratici capaci di tutelare i popoli nazionali sia come collettività sia come individui. L’articolo non contribuisce a definire l’idea mazziniana di Europa unita, perché non era quello il messaggio prioritario del Genovese. Egli, piuttosto, era concentrato su un compito “educativo”, che era connesso alla necessità di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica inglese sulle nazionalità oppresse e condividere la denuncia della politica internazionale gestita da tre potenti imperi egemoni e multinazionali. Il saggio proponeva però tre punti chiave del pensiero di Mazzini sulle relazioni internazionali. Innanzitutto, delineando gli elementi che definiscono un popolo come nazione, rimane prioritaria una autodeterminazione dei popoli ante litteram: ogni nazione ben definita ha il diritto di decidere il proprio futuro e di conquistare l’indipendenza politica. In secondo luogo, se questo cambiamento non può avvenire attraverso mezzi pacifici e mediante un accordo con i super Stati egemoni europei, l’insurrezione popolare è un mezzo legittimo per rovesciare i regimi dispotici e raggiungere l’unificazione. Infine, le già esistenti nazioni liberali, come il Regno Unito, dovrebbero moralmente e diplomaticamente sostenere l’emancipazione delle nazionalità oppresse nella lotta contro il dispotismo attraverso manifestazioni pacifiche, ma senza impegnarsi e compromettersi in crociate militari che non intendeva invocare. Principi fondamentali, che, come quello di nazione, evolvono nel lungo e complesso percorso mazziano, sempre capaci di riadattarsi al contesto, rimodularsi sulle necessità e maturare alla luce delle sconfitte, ma mai negati o contraddetti nella loro sostanza.
In uno dei suoi ultimi scritti, Politica internazionale del 1871 (pubblicato sulla «Roma del Popolo»), Mazzini si avventurò anche in alcune ipotesi sull’espansione coloniale nel Mediterraneo dei paesi europei, interpretate da taluni come fasi di un discorso o di possibili sviluppi nazionalisti e colonialisti.
La funzione italiana di guida delle nazionalità rimaneva l’obiettivo dominante della politica estera mazziniana, che vedeva nella confederazione slava comprendente i tre gruppi jugoslavo, boemo-moravo e polacco un potente ostacolo al germanesimo da un lato e al panslavismo dall’altro: da questa parte la Russia sarebbe stata dunque contenuta nei suoi limiti naturali e indirizzata all’espansione nell’Asia. Probabilmente senza saperlo, Mazzini riprendeva la concezione di un altro Mazzini, Andrea Luigi, che in un libro anteriore al 1848 aveva teorizzato l’estraneità della Russia dall’Europa.
Negli scritti mazziniani, dunque, non si accennò a un possibile assetto europeo con precisi tratti istituzionali di carattere confederale o federale, nonostante il Genovese, laureato in Giurisprudenza e attento osservatore del passato e del presente, ben conoscesse le diverse forme di Stato e di governo.
Fu sempre costante, invece, il riferimento all’unità culturale europea. L’azione di Mazzini tese, più che a promuovere l’unità del Continente, a favorire la realizzazione in ciascun paese di regimi democratici e repubblicani analoghi. In questo senso parlava di unità morale dell’Europa e non politica e statale. Il Genovese era un uomo del XIX secolo e poteva abbracciare quella «illusione ottocentesca» legata alla certezza che la piena sovranità delle nazioni avrebbe garantito la pace, senza bisogno di – e anzi proprio a prescindere da – vincoli istituzionali perché in fondo la fratellanza delle nazioni era garantita dalla loro libertà e democrazia, che ne avrebbero naturalmente impedito ogni altra eventuale pretesa territoriale, appannaggio invece degli imperi assoluti.
L’importanza di Mazzini sta nella rigorosa coerenza della sua attività, interamente volta a mostrare che la democrazia, la libertà, la difesa della dignità dell’uomo devono essere solidali a livello europeo; in caso contrario, sono destinati a perire.
Che idea ebbe Mazzini dell’Europa e del suo assetto?
Dall’analisi degli scritti mazziniani, emergono vaghezza e approssimazione nell’indicazione dell’ordinamento istituzionale della futura Europa. E questa genericità non derivava certo da insufficienti conoscenze giuridiche. Mazzini si era laureato in Giurisprudenza presso l’Ateneo genovese e, risiedendo in quel periodo in Svizzera, dalle pagine de «La Jeune Suisse – Die Junge Schweiz» prendeva parte diretta e attiva per la trasformazione in senso federale della confederazione elvetica del 1815: fortemente critico nei riguardi del concetto di confederazione, perché si traduceva in una lega di cantoni con poteri e ordinamenti spesso diversi, sosteneva invece una federazione che affidasse al governo centrale peso determinante nelle scelte essenziali.
A differenza della pubblicistica italiana contemporanea, Mazzini ebbe chiara la distinzione tra confederazione e federazione: le ragioni della ritrosia del Genovese ad abbozzare i contorni dell’ordinamento giuridico europeo sono a parer mio da rintracciare piuttosto nella consapevolezza che il cammino per formare le singole nazionalità libere, che ne erano alla base, fosse ancora lungo e pieno di ostacoli: la questione dell’assetto istituzionale europeo poteva dunque essere rimandata.
Quali prassi politiche intraprese per l’unificazione continentale?
Tenendo presente le avvertenze sopra esposte e ricordando che per Mazzini erano prioritari la costruzione di un’Italia quale “nazione una, indipendente, libera e repubblicana” e di altre nazioni sorelle nell’Europa centro-orientale, le prassi politiche che il Genovese ebbe a intraprendere riguardarono prioritariamente la costituzioni di associazioni e reti di rivoluzionarie che condividessero i suoi ideali democratici e nazionali per sconfiggere l’assolutismo dei sovrani europei, a cominciare da quello asburgico.
Come è stato ben analizzato da Giuseppe Tramarollo, è possibile distinguere nell’azione “europeista” di Mazzini tre periodi: il primo va dalla fondazione della “Giovine Europa” sino alle rivoluzioni del 1848-’49; il successivo si sviluppa tra la seconda Restaurazione e l’unificazione italiana; il terzo si dispiega dall’unità statale della penisola sino alla morte del Profeta.
Occorre però precisare che in tutte le fasi del percorso mazziniano due elementi rimangono costanti: l’indissolubile legame tra l’idea di Europa e quella di “Umanità” e la necessità di ricondurre il problema italiano all’Europa.
In Mazzini, Europa e “Umanità” sono due principi che fra loro si confondono e si compensano, tanto che la prima contiene potenzialmente in sé la seconda: l’“Umanità”, cioè la “Patria delle Patrie”, la “Patria” di tutti, è l’Europa, un’Europa giovane, che sta per sorgere succedendo all’Europa morente del papato, dell’impero, della monarchia.
In merito al secondo punto, il Genovese riteneva che il problema italiano non fosse isolato da un contesto più vasto a cui era invece intimamente legato, perché era una questione europea. In tal senso era fondamentale un legame stretto tra tutti coloro che nel continente fossero animati da comuni sentimenti di libertà e di democrazia.
Dunque, a caratterizzare la prima fase dell’europeismo mazziniano fu la “Giovine Europa”: è tra il 1834 e il 1849 che il discorso sull’Europa diviene più esplicito e preciso nei programmi politici e nell’azione rivoluzionaria.
Com’è noto, nel 1834 Mazzini era esule in Svizzera: alla feroce repressione sabauda della cospirazione dell’estate precedente si era aggiunto il fallimento dell’invasione della Savoia, cui erano seguite altre condanne a morte. L’impegno di Mazzini non era peraltro scemato: il 15 aprile di quell’anno il Genovese firmava a Berna con diciassette profughi (sette italiani, cinque tedeschi e cinque polacchi), a nome della “Giovine Italia”, della “Giovine Germania” e della “Giovine Polonia”, l’Atto di fratellanza della Giovine Europa, all’insegna della “fogliuzza di ellera” e del motto «Libertà, eguaglianza, umanità».
La parola d’ordine per il riconoscimento degli affiliati era, non sorprendentemente, “Humanitas”. Il giornale «L’Europe centrale», diretto dal ginevrino James Fazy, uomo politico radicale che successivamente sarebbe entrato in dissidio con Mazzini, ne fu il primo organo di stampa; l’Esule avrebbe voluto dar vita a Berna a una nuova testata intitolata «Jeune Europe», ma dovette poi accontentarsi del più modesto bisettimanale bilingue fondato a Bienne, «La Jeune Suisse – Die Junge Schweiz», organo della “Giovine Svizzera”, sorta alla fine del 1834 e immediatamente aggiuntasi alle tre associazioni nazionali firmatarie dell’Atto.
Tra le sezioni della “Giovine Europa” ebbe vita precaria anche una “Giovine Francia”. Mazzini pensò a una “Giovine Spagna” e una “Giovine Savoia” e avrebbe voluto analoghe associazioni in Ungheria, nel Tirolo, in Serbia e in Grecia, cioè in quei territori dove esistevano nazionalità oppresse, che il programma della “Giovine Europa” si proponeva di risvegliare. Un manifesto di vasta portata rivoluzionaria, che non sfuggì all’occhio acuto di Metternich, il quale menzionava con orrore la “Giovine Europa”, descrivendola come la più diabolica impresa del “Catilina moderno”.
In effetti, i progetti della “Giovine Europa” superavano nettamente quelli nazionali della “Giovine Italia”. È vero che nell’Atto di Berna non v’è traccia di disegno di unità federale europea, ma l’intento di Mazzini era diverso: la “Giovine Europa” doveva essere l’organizzazione rivoluzionaria delle forze democratiche europee per l’abbattimento dell’ordine metternichiano e la liberazione delle nazionalità. Del resto, Mazzini non dimenticava che una rivoluzione italiana in nome del principio di nazionalità in un’Europa restaurata sul principio di legittimità non aveva possibilità di successo.
È utile inoltre sottolineare come spesso le iniziative mazziniane non andassero oltre l’affermazione di principi comuni e non potessero sopperire alla crisi generale dell’azione rivoluzionaria. Fu in queste condizioni che l’Esule attraversò un profondo turbamento psicologico e morale, la celeberrima “tempesta del dubbio”: i risultati pratici, così scarsi politicamente eppure tanto costosi in vite umane e in dispendio di energie, non erano tali da mettere in discussione lo schema ideologico mazziniano? Mazzini uscì da questo smarrimento convinto che, nonostante ogni sacrificio, le ragioni delle rivoluzioni nazionali dovevano essere affermate al di là di ogni altra considerazione e di qualsiasi insuccesso contingente. Quando, nel gennaio 1837, il Genovese giunse in Inghilterra, dopo essere stato colpito da un decreto di espulsione dalla Svizzera sollecitato dalla Francia, la crisi era superata.
Nel decennio successivo, Mazzini fu impegnato a ricostituire la “Giovine Italia” e a riprendere le file dell’azione rivoluzionaria. Occorrerà aspettare il 1847 per vederlo ritornare energicamente sul tema europeo con la proposta di una “Lega internazionale dei Popoli”, che sarebbe tuttavia rimasta un’enunciazione di principi più volte ribaditi, senza alcuna realizzazione concreta.
Nel 1848, anno di rivoluzione europea, Mazzini vide la possibilità di uno sbocco liberale e nazionale, di un mutamento radicale che potesse dare avvio a quel nuovo assetto auspicato come base del suo europeismo.
Le rivoluzioni del 1848 diedero a Mazzini l’illusione del successo, speranza che svanì l’anno seguente. La difesa di Roma volle ad ogni modo essere la riaffermazione del diritto nazionale come fondamento della nuova Europa di fronte alla repressione attuata in nome della vecchia Europa. Ma il Genovese non comprese subito che, nonostante l’apparente sconfitta, il principio nazionale aveva vinto. Ne seguì una durissima autocritica, da cui scaturì la seconda fase del pensiero europeista di Mazzini, che fu caratterizzata dalla creazione di nuove organizzazioni rivoluzionarie di respiro continentale.
All’inizio del 1850, l’Esule annunciò la nascita di un “Comitato centrale democratico europeo”, che avrebbe dovuto sia coordinare le azioni del movimento democratico sia «cacciar le basi di quell’Alleanza di Popoli che il Congresso delle Nazioni fatte libere trasmuterà un giorno in legge d’Europa» (Organizzazione della Democrazia [1850], in Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini, vol. XLIII, Politica, vol. XVI, Imola, Galeati, 1926, pp. 202-203).
Un passaggio importante, questo, perché in esso l’Esule sembra fissare l’ordinamento futuro dell’Europa non in una federazione, ma in un “Congresso delle Nazioni”, che richiama piuttosto la “Dieta generale” dell’Abbé de Saint-Pierre.
Poco tempo dopo, nel luglio 1850 fu firmato a Londra da Giuseppe Mazzini, Alexandre Auguste Ledru-Rollin, Arnoldo Ruge e Albert Darasz il programma del Comitato che, come già la Giovine Europa”, non si trasformò in un movimento per l’unificazione europea, ma rimase un ordinamento federativo della democrazia continentale sotto un’unica direzione. Questo comportava, dal punto di vista politico, la ricerca di un compromesso e di una genericità che consentissero l’adesione con un denominatore comune di democratici divisi tra loro su temi di fondo: monarchia o repubblica, unità o federalismo, socialismo o quella che Mazzini definiva “democrazia sociale”.
Nel 1852, l’Esule ipotizzò un nuovo rifacimento della geografia europea. In Condizioni e avvenire dell’Europa delineò un continente suddiviso in tredici o quattordici nuclei equilibrati, con un riparto fondato su lingua, tradizioni, credenze e condizioni geografico-politiche, così da unificare le troppe e deboli frazioni. In questa nuova Europa dei popoli deve poi essere ricordata la funzione essenziale che il Genovese assegnava agli slavi. Così annotava a proposito in una delle Lettere slave del 19 giugno 1857: «Gli Slavi erano, trenta anni addietro, utopia; oggi la questione Slava dirige le mosse politiche della Russia e dell’Austria, e predomina sui fati dell’Oriente d’Europa: gli antichi discendenti delle colonie di Roma, i Rumeni, essi pure chiamati far parte, Stato precipuo, della Confederazione delle razze che costituiscono l’Impero turco, erano ignoti quasi trenta anni addietro: oggi la loro tendenza al concentramento è vertenza Europea» (in Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini, vol. LIX, Politica, vol. XX, Imola, Galeati, 1931, p. 36).
Queste tesi furono completate l’anno successivo, quando Mazzini affrontò il tema della famiglia europea, suddivisa in tre grandi nuclei, il greco-latino, il germanico e lo slavo. L’Esule affermò che nella grande famiglia europea sarebbero entrate: l’Italia; la Francia; la Confederazione delle Alpi accresciuta dalla Savoia e dal Tirolo tedesco; due grandi confederazioni alleate che avrebbero unito da un lato Boemia, Moravia, Ungheria e Romania, dall’altro gli slavi meridionali dal Montenegro e alla Croazia sino alla Bosnia, alla Serbia, alla Bulgaria; la Grecia con le sue vecchie province della Vessalia, della Macedonia, della Romelia sino a Costantinopoli; la Germania per cui prospettava o unità politica o confederazione; la Russia allargata verso l’Asia; l’unione iberica e quella scandinava.
In questo modo l’Europa avrebbe avuto sul suo territorio forze pressoché uguali e ciò avrebbe permesso di raggiungere tre obiettivi: innanzitutto, avrebbero cancellato quella moltitudine di piccoli Stati che erano allora oggetto delle pericolose intenzioni dei grandi imperi; in secondo luogo, avrebbero appagato quell’istinto di nazionalità che era l’anima dell’epoca; infine, avrebbero annullato ogni ragione di guerra, facendo sorgere in sua vece uno spirito di affratellamento e di pacifica emulazione sulle vie del progresso.
Si trattava sempre di ipotesi, proposte generiche che non precisavano i modi e le norme di associazione delle varie nazioni d’Europa.
È sempre in questa fase del suo pensiero che Mazzini articolò nel 1858 la proposta di fondazione di un partito d’azione continentale, il cui programma fu felicemente riassunto nella formula della “Santa Alleanza dei Popoli”, secondo il titolo di un articolo apparso nella nuova «Italia del Popolo» di Losanna.
Ma l’attualità delle idee che Mazzini seppe esprimere in questo momento del suo percorso teorico risiede nella visione della stretta interdipendenza tra unificazione politica e integrazione economica, cioè nella necessità che il riassetto dell’Europa dovesse fondarsi contemporaneamente su economia e politica. Si tratta di una teoria innovativa, che prevede Stati europei costituiti su basi economiche uniformi, con l’abolizione di ogni dogana tra nazione e nazione.
Con la nascita di uno Stato italiano unito sotto la corona dei Savoia, Mazzini aprì una nuova fase del suo pensiero europeo, caratterizzato non tanto dalla ricerca di un ordinamento istituzionale di una nuova Europa, quanto piuttosto dall’elaborazione di una politica estera europea per l’Italia.
Sotto questo angolo visuale, il nuovo riparto continentale, cui egli non manca mai di accennare, si atteggia piuttosto con un nuovo equilibrio di nazionalità. Per quanto nel programma dell’“Allenza Repubblicana Universale” (ARU) il conseguimento degli Stati Uniti d’Europa figuri tra gli articoli statutari, per quanto nella polemica del 1871 con l’Internazionale marxiana-bakuniniana egli contrapponga al cosmopolitismo l’Alleanza repubblicana dei popoli insistendo sulla formula di Cattaneo degli “Stati Uniti d’Europa”, di fatto la tesi federale e addirittura quella confederale scomparivano.
In che modo, nella visione mazziniana, la costituzione di uno Stato italiano unitario e indipendente avrebbe modificato l’equilibrio europeo?
Mazzini rivendica all’Italia la funzione di banditrice del rimaneggiamento della carta d’Europa in vista di un equilibrio europeo, che dovrebbe garantire la vita nazionale della Penisola. Anzitutto l’Italia dovrebbe promuovere una lega di Stati minori europei stretta a un patto comune di difesa contro le possibili usurpazioni d’una o d’altra grande potenza. L’influenza dell’Italia ingrandita da tale lega si eserciterebbe nella direzione del futuro riordinamento europeo: unità nazionali frammezzate possibilmente da libere confederazioni. Questo il termine ultimo del pensiero mazziniano, in cui non manca nemmeno l’indicazione dell’espansione coloniale italiana a garanzia dell’equilibrio mediterraneo: Tunisi, Tripoli, Cirenaica spettano visibilmente secondo Mazzini all’Italia, come il Marocco alla Spagna e l’Algeria alla Francia.
La funzione italiana di guida delle nazionalità rimane l’obiettivo dominante della politica estera mazziniana, che vede nella confederazione slava comprendente i tre gruppi jugoslavo, boemo-moravo e polacco un potente ostacolo al germanesimo da un lato, al panslavismo dall’altro: da questa parte la Russia sarebbe dunque consegnata nei suoi limiti naturali e indirizzata all’espansione nell’Asia. Probabilmente senza saperlo, Mazzini riprendeva la concezione di un altro Mazzini, Luigi Andrea, che in un libro anteriore al 1848 aveva teorizzato l’estraneità della Russia dall’Europa.
Lara Piccardo è ricercatore di Storia delle relazioni internazionali presso l’Università degli Studi di Genova. È autrice dei volumi L’Europa del nuovo millennio. Storia del quinto ampliamento (1989-2007), Bologna, CLUEB, 2007, Agli esordi dell’integrazione europea. Il punto di vista sovietico nel periodo staliniano, Pavia, Interregional Jean Monnet Centre of Excellence, 2012, e Ai confini dell’Europa. Piccola storia della Crimea contesa, Bari, Cacucci, 2017, e ha al suo attivo diversi saggi su URSS/Russia e integrazione europea e sui rapporti tra i rivoluzionari ottocenteschi italiani e slavi.