“Dalla parte di Proust” di Stefano Brugnolo

Prof. Stefano Brugnolo, Lei è autore del libro Dalla parte di Proust, edito da Carocci. Come scrive nel testo, «troppo spesso si tende a monumentalizzare e sacralizzare l’opera di questo autore, incutendo una sorta di timore reverenziale nei suoi potenziali lettori»: in che modo Proust, a cent’anni dalla sua morte, parla ancora a noi e di noi, della nostra condizione contemporanea?
Dalla parte di Proust, Stefano BrugnoloProust nella sua opera parla molto delle relazioni che si svolgono nei salotti alto-borghesi e aristocratici. Potrebbero sembrare ambienti e situazioni diversissimi dai nostri, potrebbero farci dire che Proust è scrittore superato, che si occupa di realtà obsolete. In realtà quegli ambienti funzionano come serre dove una serie di dinamiche psicologiche anche molto sottili e sfuggenti si sviluppano in modo complicato e abnorme: lo snobismo, l’invidia, la gelosia, la permalosità, la persecuzione del timido, del diverso, del goffo, ecc. Ebbene pensiamoci: sono meccanismi che si sono diffusi tantissimo nelle società cosiddette democratiche e di massa contemporanee e questo mi fa dire Proust è stato profetico. I fenomeni di bullismo che possiamo osservare in certe classi scolastiche sono per esempio fondamentalmente gli stessi che Proust osservava nei suoi salotti, dove il più debole finiva sempre per fare da capro espiatorio. Ma nel mio libro m’è capitato anche di dire che la Rete e in particolare i social funzionano un po’ come i salotti proustiani: anche nei social è tutto un osservarsi, un criticarsi, un pavoneggiarsi, un invidiarsi a vicenda, ecc. Anche in questo senso si può allora dire che Proust parla a noi e di noi.

Perché si può affermare che l’opera dello scrittore francese è un invito a guardare il mondo con occhi nuovi e a riscoprirlo senza accontentarsi di cliché e convenzioni?
La grande bestia nera di Proust erano proprio i luoghi comuni o quella che lui chiamava la conoscenza convenzionale della vita e del mondo. Quella presunta conoscenza che noi adottiamo per proteggerci dalla verità, per poter giustificare i nostri errori e le nostre viltà. Nel suo grande romanzo ci sono continui momenti in cui lui lascia il racconto per proporci delle riflessioni che sono spesso dei veri e propri saggi. In essi lui demistifica gli alibi e le menzogne che i personaggi raccontano a se stessi e agli altri. Ma nel fare ciò egli smonta le menzogne e gli alibi, la cattiva coscienza di tutti noi. A volte questi momenti durano poche righe a volte decine di pagine, ma sono sempre momenti in cui brilla la sua sensibilità e intelligenza, momenti in cui lui quasi si diverte a fare strage di tutte le nostre presunzioni e vanità. Eppure lo fa in modo affettuoso perché lui è uno di noi, e non vanta certo nessuna superiorità morale o intellettuale sulla comune umanità L’assunto fondamentale di questo scrittore è che quel che noi ci raccontiamo mentre viviamo e cerchiamo di emergere nella vita, nelle relazioni d’amore, nel lavoro, nei campi dell’arte e del pensiero, è sempre una finzione, un tentativo di giustificare il nostro amor proprio, il nostro naricisismo. Leggere Proust è fare i conti proprio con queste piccole e grandi menzogne che noi tutti ci raccontiamo proprio avvalendoci di cliché. In questo Proust è anche uno scrittore comico perché appunto ci rivela che i suoi personaggi dietro le grandi arie che si danno sono degli egocentrici infantili e in fondo risibili. E questo suo spirito dissacrante un po’ ci fa male ma un po’ ci consola perché significa che c’è almeno un luogo nella vita in cui la verità può essere detta e questo luogo in definitiva per lui è la letteratura.

Quale concezione sviluppa, Proust, della letteratura?
Come dicevo sopra per Proust la vera, la grande letteratura cerca di dire la verità. Questo può sembrare facile da dire ma è certo difficile da praticare. Anzi oggi si tende a negare che la letteratura “dica la verità”, un po’ perché la si considera un gioco fine a se stesso, un po’ perché la si considera complice dei poteri costituiti. Ora per Proust la verità non va cercata nel mondo delle idee, della morale, delle scienze, ma osservando proprio i dettagli della vita comune. Questo per lui è il segreto del grande romanziere, e anche la prova del nove per giudicare del valore di uno scrittore: uno scrittore è grande se sa raccontare la vita nei suoi aspetti minuti. Alle volte basta saper osservare un gesto, una certa parola, una certa intonazione della voce ed ecco che la verità emerge anche contro le intenzioni del personaggio. Il bello è questo dunque: la verità è a disposizione di tutti, ce l’abbiamo davanti agli occhi, ma non vogliamo vederla, Proust ci presta la sua lente per permetterci di vederla, e quasi sempre essa ci riguarda, ci chiama in causa, ci fa male, ma anche “ci salva” dalla menzogna in cui per lo più viviamo immersi.

Che funzione svolgono, in Proust, percezioni, memoria e oblio?
Andiamo per ordine.
Percezioni. Per Proust noi tutti quando descriviamo agli altri le nostre percezioni le tradiamo, ne diamo cioè una rappresentazione impoverita, sbiadita. Per esempio: il protagonista ad un certo punto visita Venezia; per lui si tratta di una grande occasione, si aspetta tantissimo da quella visita, ma ecco che quando è lì rimane deluso, perché invece che percepire Venezia “com’è”, la percepisce per come lui si aspetta che sia. Marcel ha letto molti scritti su quella città e perciò la vede attraverso “lo sguardo degli altri”, non con il suo. Come spesso accade in questo autore il sapere prevale sul sentire. Situazioni simili si danno spessissimo in Proust: l’esperienza attuale e vitale della realtà risulta pressoché impossibile da fare, perché su quella prevale il “sentito dire”. Quest’ultima è una dimensione in cui noi uomini della civiltà dell’informazione e dei media viviamo più che mai immersi e che Proust ancora una volta ha anticipato. C’è una sola possibilità di recuperare la vivacità delle esperienze soggettive, ed è attraverso il ricordo: ci sono infatti come dei momenti magici in cui improvvisamente ritroviamo, riscopriamo sensazioni che credevamo di avere dimenticato, perduto. Alla fine dell’opera per esempio Venezia gli ritorna in mente e finalmente è davvero la “sua” Venezia. Non se l’era dimenticata, stava intatta da qualche parte dentro di lui e solo il caso le ha permesso di riemergere.

Memoria. Come si capisce dall’esempio che ho appena portato Proust non si fida della memoria volontaria ma solo di quella involontaria. È solo quando Marcel, il protagonista, credeva si essersi dimenticato per sempre di Venezia che all’improvviso, per una imprevista associazione di idee, quel ricordo ritorna, lo invade, procurandogli una specie di gioia estatica, un sentimento di immortalità. È il momento-madeleine. E anche in quei casi Proust non parla di qualcosa di ineffabile ma ci fa portare a coscienza che in ognuno di noi esiste questa possibilità di provare queste estasi metacroniche: basta un profumo, una sensazione, l’ascolto di una canzone, una piccolo accidente della vita ed ecco che il passato ritorna, quasi come un Lazzaro che ritorni alla vita, quando invece noi lo avevamo creduto morto per sempre.

Oblio. La Ricerca del tempo perduto ci dice una verità semplice e terribile: che l’oblio alla fine trionfa e che niente resta, permane. Eppure l’autore ci invita a ricercare il “tempo perduto”. Come spiegarlo? Così: che in un contesto post-religioso dove s’è persa la fede nell’eternità c’è però… un però. E quel piccolo e grande però è l’arte, e in questo caso il romanzo proustiano. La storia che ci racconta Proust è infatti sì una storia di fallimenti, di errori e di erranze del protagonista e degli altri personaggi. Alla fine tutto pare perduto definitivamente, eppure… eppure proprio in quel momento il personaggio comprende che finalmente potrà scrivere quella grande opera che aveva sempre sognato di scrivere, ed essa tratterà proprio della sua vita passata, del tempo perduto, sarà cioè un tentativo di salvarlo dall’oblio definitivo. Insomma l’oblio non ha l’ultima parola, l’arte, la letteratura si oppone sia pure debolmente, fragilmente al suo trionfo definitivo e inappellabile.

Cosa ha da dirci, lo scrittore francese, sulla storia, la società e la politica?
Molto. Ma secondo modalità indirette, oblique. È sbagliato trattare i testi letterari come fossero dei documenti storici uguali agli altri, ma è ancora più sbagliato in questo caso. Proust ci parla sì del suo tempo ma lo fa alla sua maniera. Per esempio, centrale nella Recherche è l’affare Dreyfus. Proust era dalla parte di Dreyfus ma nel romanzo non è tanto interessato a proclamare l’innocenza dello sventurato capitano, ma si interessa molto invece delle ricadute che quel caso politico ha avuto sulla vita delle persone, sulle relazioni interpersonali. Anche la politica dunque entra nel gioco della mondanità qui latamente intesa. Non solo, Proust ci dimostra che in politica si può avere ragione in astratto ma torto nel concreto a causa della presunzione, del fanatismo con cui pretendiamo di imporre le nostre ragioni. Swann nel momento in cui riscopre la sua ebraicità giudica tutte le persone sulla base del loro posizionamento rispetto a Dreyfus. E anche per quanto riguarda la società vorrei dire che Proust è in ritardo e contemporaneamente in anticipo rispetto al suo tempo. Come ha scritto Walter Benjamin i personaggi di Proust sono in fondo tutti dei “consumatori”, non producono cioè ricchezza ma la consumano. Ebbene, certo ciò è tipico del mondo dei cosiddetti rentiers di quella fine secolo, ma in questo loro way of life essi anticipano il mondo del consumismo di massa in cui oggi viviamo tutti. Per quanto riguarda la Storia infine direi invece che a Proust manca di senso storicistico, per lui la Storia è metamorfosi, cambiamento incessante, ma senza un senso, uno scopo.

Proust, ispirandosi a Le mille e una notte, riuscì nell’intento di «rendere straordinario l’ordinario senza ricorrere al fantastico»: come riecheggiano, nel romanzo, grandi temi come snobismo, gelosia, omosessualità ed ebraismo?
Sono due domande in una. Intanto rispondo di sì, ci riuscì, riuscì cioè a rendere straordinario l’ordinario. Non c’è infatti aspetto della vita che Proust non renda incantato. Il mondo della gelosia è per esempio un mondo da una parte soffocante ma dall’altra pieno di sorprese e incanti. Quando per la prima volta Swann prova gelosia per Odette e si mette a cercarla attraverso una Parigi notturna, ebbene la città diventa una città d’ombre, di fantasmi, di pericoli incombenti. Ma qualunque situazione o condizione o aspetto della vita può prestarsi a queste metamorfosi magiche. Quando per esempio l’amico di Marcel, Saint-Loup, ritorna dal fronte grazie a una licenza per Marcel è come se ritornasse dalle “rive della morte”. Si tratta certamente di una metafora ma il suo effetto è potente, pervasivo: Saint-Loup ritorna “davvero” dalla morte. In Proust infatti la metafora non funziona mai come un abbellimento ma sempre come una lente di deformazione e trasfigurazione della realtà. Grazie a essa la realtà diventa “altra”. Per quanto infine riguarda l’omosessualità e l’ebraismo dirò solo questo: che sono condizioni che lo scrittore esplora in quanto le ha vissute e conosciute in proprio, soprattutto la seconda. Le esplora andando ben al di là di pregiudizi e prevenzioni all’epoca molto diffusi. Ma anche con grande libertà e senza nessun partito preso ideologico, politico o morale, come siamo abituati a fare oggi. Sia dell’omosessualità che dell’ebraismo Proust non ci dà infatti delle rappresentazioni “militanti”. Anzi, in certe occasioni egli può perfino essere accusato di omofobia e antisemitismo, ma di fatto queste accuse non rendono ragione della ampiezza e complessità della rappresentazione che di quelle realtà egli ci offre. Io direi che per esempio la Recherche è la prima grande rappresentazione complessa e dettagliata dell’omosessualità come forma di vita. ll personaggio che sta al centro della Recherche, un personaggio immenso, e cioè il Barone di Charlus, è un omosessuale che vive contraddittoriamente ma anche vitalmente quella sua condizione. È evidente che più l’opera avanza e più lui campeggia e svetta sugli altri personaggi. Sfido perciò chiunque a dire che la rappresentazione di quel personaggio sia significativamente viziata da stereotipi omofobici.

Stefano Brugnolo è nato nel 1956 e si è laureato nel 1980 a Venezia sotto la direzione di Francesco Orlando, ha insegnato Letterature comparate, e dal 2009 è docente di Teoria della letteratura presso l’Università di Pisa (dal 2018 in qualità di professore ordinario). Si è occupato e ha scritto di autori e testi appartenenti a varie tradizioni linguistiche e nazionali, che ha però sempre studiato in una chiave teorico-comparatistica. Si è occupato di umorismo, della relazione tra scritture scientifiche e scritture letterarie, di letteratura coloniale, del soprannaturale in letteratura, di letteratura delle periferie, di Proust e altri autori.

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