“Dall’arte… allo zero. Piccolo dizionario filosofico dell’ingegneria” di Vittorio Marchis

Prof. Vittorio Marchis, Lei è autore del libro Dall’arte… allo zero. Piccolo dizionario filosofico dell’ingegneria edito da Mondadori Università̀, «un vademecum, un log-book» – come Lei stesso lo definisce – per «un viaggio nel pensiero e nelle contraddizioni dell’ingegneria»: cosa significa fare filosofia dell’ingegneria?
Dall’arte... allo zero. Piccolo dizionario filosofico dell’ingegneria, Vittorio MarchisL’ingegneria da troppo tempo è stata confinata in un mondo deterministico in cui si ritiene che l’ingegnere possa risolvere autonomamente i problemi che gli vengono posti sul piano tecnico. Ovviamente nessuno pensa che la soluzione che l’ingegnere fornisce a un problema possa essere la migliore, ma spesso c’è la convinzione che all’ingegnere sia di competenza solamente il progetto, la costruzione, la industrializzazione, la manutenzione e persino la rottamazione di un artefatto. Ma tutti sappiamo che non è così perché – e lo dimostrano quotidianamente i fatti – i problemi etici, ma anche estetici, retorici e narrativi non sono disgiunti dal “progetto”.

A questo punto faccio una breve digressione autobiografica. Quando negli anni ’80 del secolo scorso ebbi la fortuna di essere nominato all’interno del Comitato di consulenza per le scienze di architettura e ingegneria del CNR ebbi l’occasione di uscire dal mio specifico settore di ricerca (l’ingegneria meccanica e aerospaziale) per guardare da un altro punto di vista le logiche e le dinamiche di tutte le discipline soprattutto dell’ingegneria e subito fu evidente che se anche i ricercatori nell’ingegneria erano ottimi essi poi dimostravano poche capacità di relazionarsi con i loro colleghi che operavano al di là dei loro “confini”. A questo punto mi convinsi che era necessario che anche gli ingegneri si riappropriassero delle loro capacità narrative, perché solo la narrazione (ossia il fare storia) permette di trasferire le proprie conoscenze specialistiche al di fuori della propria disciplina al fine di renderle comprensibili ad altri. E così decisi che dopo anni di ricerca nell’ingegneria pura dovevo aprirmi alla storia della tecnologia, importandola anche nei curricula degli ingegneri. Così questa disciplina è diventata, non solo per me, una sorta di “cavallo di Troia” per aprire anche le istituzioni accademiche in questa direzione. Del resto Jonathan Gottschall ha chiaramente stigmatizzato il fatto che noi apparteniamo a una “specie animale con l’istinto di narrare”. Anzi siamo l’unica specie che può essere definita di storytelling animal. Questa nostra caratteristica di “raccontarci” ha permesso all’Homo Sapiens di nono estinguersi come invece fece l’uomo di Neanderthal, che peraltro aveva sviluppato molte più tecniche senza costruire innovative mappe di conoscenza. E qui per ritornare sui nostri passi non si tratta di fare della divulgazione: una parola che non mi piace perché sembra portare a un livello inferiore quella che una delle più alte facoltà della nostra mente. E così sono arrivato attraverso una mutazione della “storia” in un campo più ampio con i miei corsi e le mie ricerche che oserei definire “antropologiche” in quanto guardano più ampiamente ai rapporti conoscitivi, ma anche emotivi, che abbiamo con ciò che costituisce il nostro “fare”. E se all’inizio della nostra “storia” l’umanità sopravvive perché “sa cercare e trovare” quando ancora siamo stati una specie nomade, successivamente con le rivoluzioni agricola del neolitico e industriale del sette-ottocento, siamo diventati “coloro che sanno fare” e poi “coloro che sanno far fare”. Che cosa ci aspetta dietro l’angolo? O forse siamo già immersi nella nuova “rivoluzione digitale”? di questo nessuno può dirlo perché solo a posteriori si potranno valutare gli effetti dei cambiamenti che la tecnologia sta introducendo nella nostra società. Come si vede se la tecnologia cambia il mondo, queto cambiamento contamina ogni nostra altra attività e soprattutto il nostro pensiero. Oserei dire molto più della “grande scienza” i cui effetti si riscontrano solo a tempi più lunghi. Le grandi rivoluzioni sociali del secolo diciannovesimo furono innescate dalle nuove tecnologie della produzione industriale e dei trasporti e certamente molto meno dalle scoperte scientifiche di un Isaac Newton. Ma anche questo comporterebbe una riflessione più ampia, se non che anche la filosofia, ossia quel sapere che ci pone di fronte ai grandi dilemmi , non può trascurare la tecnica, e l’ingegneria in particolare. Così spero che anche nei piani formativi dei futuri ingegneri nel nostro Paese possano trovare spazio discipline che appartengono al settore delle “scienze dell’uomo e della società”. Posso affermare che almeno nel mio ateneo, il Politecnico di Torino, qualcosa si muove in tal senso. Gli ingegneri sempre più a fianco della razionalità dovranno affiancare narrazione e fantasia.

Il libro si sviluppa in ventuno voci, quante sono le lettere dell’alfabeto italiano, a struttura binaria: qual è il senso dei contrappunti che si presentano nei «titoli»?
Innanzitutto sarebbe bene ricordare queste “parole” che ho inserito, anche per una mia passione per gli abbecedari, in una griglia strettamente alfabetica. È certamente un esercizio di stile, non una forzatura proprio perché i termini di questi “accoppiamenti” non inseguono opposizioni o dicotomie ma soprattutto “scarti” proprio come li definisce il filosofo francese François Jullien. Eccoli: Arte / Tecnica, Beni / Cose, Caso / Causa, Disegno / Immagine, Efficacia / Rendimento. Fantasia / Invenzione, Gioco / Competizione, Habitat / Ecosistema, Intelligenza / Ragione, Linguaggio / Segni, Macchina / Corpo, Naturale / Artificiale, Ordine / Disordine, Piacere / Dolore, Qualità / Quantità, Resilienza / Fragilità, Sistema / Finalità, Tempo / Spazio, Utensile / Lavoro, Vita / Morte, Zero / Uno / Infinito. Incomincio dalla fine perché subito saltano agli occhi tre parole e non due. Ma in realtà Zero-Uno è il centro della rivoluzione digitale che sta cambiando oggi più che mai il nostro modo di vivere e di gestire le nostre relazioni. E proprio in questo senso lo ZeroUno (lo dico come se fosse una sola parola) sta cambiando la nostra concezione di Infinito, sia sul piano strettamente matematico sia su quello ontologico. Come spero si possa comprendere dalla lettura dei ventuno capitoli, che ovviamente possono essere letti in maniera random, come sta diventando anche ogni altra nostra “lettura”, queste ventuno lettere rimandano a ventuno termini che a stretto rigore possono comparire in un dizionario di ingegneria. Ma ben presto si vuole trasmettere al lettore che questi concetti si allargano dal contesto della tecnica, in generale alla cultura, da quella filosofica a quella narrativa o artistica. Una classificazione rigida delle varie discipline è la morte della conoscenza stessa perché ogni nuovo sapere, sia a livello privato e individuale, sia nei più ampi contesti della tecnoscienza, trova la sua ragione d’essere proprio nella interdisciplinarietà. E questo termine vorrei proprio fosse il leit-motiv di questo libro. Partendo strumentalmente dall’ingegneria – il complesso di discipline che ho sempre frequentato e insegnato – sino alla filosofia, intesa nel senso etimologico del termine. Quel significato che ebbe sino alla metà dell’Ottocento quando filosofo era sinonimo di scienziato e quando non c’erano – come non ci dovrebbero essere – confini tra le scienze della natura e le cosiddette “scienze morali”. Ma questo sarebbe un discorso troppo lungo che spero possa insorgere nel lettore in maniera naturale.

Che rapporto esiste tra arte e tecnica?
Se arte è termine che deriva dal latino ars, allora proprio perché l’arte è tecnica non esiste soluzione di continuità tra il fare più primitivo e la tecnologia più progredita. Ho scritto nel libro che “parlare di filosofia delle arti significa qui guardare alla filosofia della tecnica tralasciando le considerazioni sulla filosofia dell’arte che richiederebbero uno spazio autonomo, anche se non si può in alcun modo dimenticare che anche nei confronti della tecnica, e in particolare della tecnologia più moderna, esistono aspetti che coinvolgono quella disciplina che si chiama estetica. In un piccolo dizionario come questo, naturalmente bisogna privilegiare lo spazio destinato alla definizione dei termini perché solo in questo modo si possono evitare fraintendimenti o ragionamenti ambigui, ma non solo. Cercando di non porre troppe distinzioni tra tecnica e tecnologia (termini che variano sottilmente di significato nelle traslitterazioni delle lingue più diffuse nel mondo occidentale) nella nostra lingua si lascia alla tecnica l’ambito più generale e alla tecnologia il dominio dell’incontro delle attività progettuali e produttive di beni e servizi con la fisica e le scienze dei materiali, con le scienze mediche e biologiche, con la logica e la matematica. In questo senso sempre più la tecnologia diventa «tecnoscienza» e spesso la si identifica con l’ingegneria anche se a quest’ultima è attribuito il ruolo di disciplina accademica e dell’insieme delle conoscenze necessarie alla tecnologia.” Del resto, Claude Lévi-Strauss nel suo libro Il pensiero selvaggio, afferma “l’esistenza di due diverse forme di pensiero scientifico, funzioni certamente non di due fasi diseguali dello sviluppo dello spirito umano, ma dei due livelli strategici in cui la natura si lascia aggredire dalla conoscenza scientifica: l’uno approssimativamente adeguato a quello della percezione e dell’intuizione, l’altro spostato di piano; come se i rapporti necessari che costituiscono l’oggetto di ogni scienza, neolitica o moderna che sia, fossero raggiungibili attraverso due diverse strade, l’una prossima alla intuizione sensibile, l’altra più discosta.” E la creatività spesso si fonda proprio su forme eteroclite di pensiero perché viaggia ai confini del sapere dove le conoscenze non solo consolidate. Quello che oggi vediamo essere la peculiarità dell’agire nell’artista (sia esso visivo o musicale o coreutico o letterario) non si discosta molto da chi opera in un laboratorio o in un ufficio studi e sviluppo di una industria. L’ingegneria deve ancor più oggi riappropriarsi della “poesia del bricolage”.

Come si manifesta il dualismo naturale/artificiale e quale distinzione esiste in ingegneria tra artificiale e artefatto?
In una visione antropologica tutto l’artificiale è naturale e tutta la natura in quanto entra nel rapporto con il soggetto conoscente diventa artificiale. Lo dimostra bene il concetto di “paesaggio” che esiste solamente in una dimensione antropizzata. La definizione di “artificiale” in senso stretto dovrebbe riferirsi solo a quei prodotti tecnologici che replicano una realtà presente in natura: Si dovrebbe quindi parlare a stretto rigore di logica di prato artificiale, di arto artificiale, ma anche di orizzonte artificiale. Artefatto in generale è invece ogni prodotto della tecnica, senza che per questo la parola debba avere solo un carattere negativo, come invece assume quando è aggettivo. Per tornare al dualismo naturale/artificiale nel libro lo troviamo anche fuori dal capitolo ad esso intitolato.

“Da quando il lavoro è sempre più legato alla conoscenza, quali sfide porrà la coabitazione tra Intelligenza Artificiale e intelligenza umana? Come coordinare la crescente rapidità di calcolo e di esecuzione di programmi da parte di sistemi dotati di IA con la maggiore lentezza degli uomini (che è, per certi aspetti, un vantaggio non solo per il pensiero individuale, ma anche per la democrazia, la quale richiede un tempo adeguato per elaborare le questioni su cui decidere)?” La citazione di Remo Bodei nelle sue ultime riflessioni contenute in Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale (2019) fa esplicitamente a quella “intelligenza digitale” in cui sono riposte le utopie per un futuro prossimo venturo. Perché oggi la sfida della intelligenza artificiale coinvolge la politica come l’economia, e l’impatto dei big data nella gestione globale dell’informazione richiedono nuove e impellenti attenzioni alla qualità e alla sicurezza dei dati e ci costringono a considerare l’impatto di tutto quanto riguarda il trattamento dei dati sui diritti fondamentali e sui valori collettivi sociali ed etici. L’artificiale fa la sua comparsa tra i linguaggi artificiali con cui parliamo con le macchine, ma l’artificiale non deve oscurare la natura. A questo proposito il capitolo si apre con due citazioni: la prima tratta dal Trattato sull’emendazione dell’intelletto scritto da Baruch Spinoza intorno al 1661 e la seconda dall’enciclica Laudato si’ (2015) di Papa Francesco. Lascio al lettore la continuazione di questo tema in cui ho voluto coinvolgere il famoso libro Silent Spring scritto nel 1962 da Rachel Carson, che diede un impulso fondamentale a nuove politiche dell’ambiente. Anche questo capitolo si conclude con un disegno a penna che sottolinea la necessità di “pensare per immagini”, e l’immagine rimbalza al distico “fogli e foglie”.

Quali, tra i termini da Lei analizzati, ritiene costitutivi e necessari per l’ingegneria?
Quest’ultima domanda mi sembra superflua perché nel progetto tutti i termini sono costitutivi dell’ingegneria, mentre ciò che, a mio avviso, ancora manca sono i ponti che questi concetti dal loro “essere” nell’ingegneria stabiliscono con gli altri saperi. Anche quei termini che a prima vista potrebbero sembrare alieni all’ingegneria, dopo un primo sguardo si capisce che non lo sono. Che l’ingegneria, come la tecnica in generale, – scrivo all’inizio del capitolo 15 – sia la causa efficiente del piacere e/o del dolore è certamente un tema che difficilmente trova spazio nelle aule dei politecnici, ma proprio per le interazioni sia con la salute sia con il divertimento, l’etica del piacere e del dolore trova ogni giorno fortissimi legami con i prodotti della tecnologia. E non è necessario aggiungere degli esempi.

Vittorio Marchis, ordinario di Storia e filosofia della scienza al Politecnico di Torino, è autore di decine di saggi e di centinaia di articoli. Ha insegnato in atenei italiani e stranieri ma è noto anche al grande pubblico per le sue trasmissioni radiotelevisive.

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