“Dal principio di legalità allo Stato giurisdizionale. Analisi critica dell’interpretazione giudiziaria” di Arturo Maniaci e Marco Antonioli

Prof. Arturo Maniaci e prof. Marco Antonioli, Voi siete autori del libro Dal principio di legalità allo Stato giurisdizionale. Analisi critica dell’interpretazione giudiziaria edito da Giappichelli: quale profonda trasformazione caratterizza la relazione fra il potere legislativo e l’ordine giudiziario nella società contemporanea?
Dal principio di legalità allo Stato giurisdizionale. Analisi critica dell’interpretazione giudiziaria, Arturo Maniaci, Marco AntonioliI filosofi il cui pensiero è all’origine del liberalismo moderno avevano teorizzato tre poteri: potere legislativo, esecutivo e federativo, nella originaria versione offerta da J. Locke; potere legislativo, potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti e potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto civile, secondo la più compiuta e nota visione di Montesquieu. Non veniva, quindi, neppure menzionato il potere giudiziario, che, essendo concepito come ‘invisibile e nullo’, non era poi stato richiamato nel Preambolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 né della Costituzione francese del 1791, mentre la Costituzione francese del 1799 riservava la qualifica di “potere” soltanto al legislativo e lo Statuto albertino considerava quello giudiziario alla stregua di un “ordine” (lemma che è stato significativamente riproposto dai nostri Padri Costituenti: v. art. 104, 1° comma, Cost.). Da guardiani della legalità i giudici hanno oggi acquisito un ruolo sempre meno persuasivo e sempre più pervasivo, svolgendo un’attività nomopoietica che li colloca ben oltre la dimensione di “terzo potere” e che costituisce un grave vulnus al modello dello Stato di diritto parlamentare: si registra, infatti, una vera e propria inversione del primato della legge sulla giurisdizione, e cioè una rivoluzione silenziosa (o ‘clandestina’, come l’ha recentemente definita un illustre giurista tedesco), generalmente sottaciuta dall’establishment, con l’inspiegabile consenso di larga parte degli organi d’informazione di massa.

Da cosa trae origine il fenomeno dell’espansionismo giurisprudenziale?
Si tratta di un fenomeno che dipende da una pluralità di fattori, tra i quali: la crisi della capacità regolativa della legge e la progressiva debolezza del potere legislativo; un sistema di fonti del diritto multilivello (domestiche, europee, internazionali, soft), contrassegnate da un rango differente; il crescente primato del precedente giudiziale rispetto al testo legislativo, anche nei Paesi di Civil Law; la degradazione dell’attività interpretativa giudiziale ad attività manipolativa, e quindi arbitraria; il ruolo egemone che le magistrature hanno assunto nella c.d. società civile e la loro sostanziale deresponsabilizzazione; le gravi degenerazioni di componenti dell’ordine giudiziario e dell’organo preposto al controllo dell’operato dei corpi giudiziari. Al di là delle cause, comunque, appare un fenomeno che ha in sé una carica sovversiva dello Stato di diritto, essendo il frutto di un processo di metamorfosi occulta di un modello politico-istituzionale basato su check and balance.

Come si esprimono, nel panorama politico-giudiziario attuale, i principi della separazione dei poteri e dello Stato di diritto, nonché valori quali la democrazia rappresentativa, l’uguaglianza e la certezza del diritto?
Volendo semplificare, non c’è, o non c’è più: (a) separatezza dei poteri, se il corpo giurisdizionale si appropria della potestà normativa, riservata agli organi politici cui è costituzionalmente e istituzionalmente delegato l’esercizio della sovranità popolare; (b) democrazia rappresentativa, né Stato di diritto, se le regole vengono fatte da chi non è stato eletto con suffragio universale; (c) uguaglianza, certezza e prevedibilità delle decisioni, se le regole non sono regole di diritto scritto ed esprimono valori che fanno capo al corpo giudiziario o, peggio, opinioni personali, ideologie, pregiudizi radicati o altri, più o meno ‘nobili’, sentimenti che fanno capo al singolo giudicante. Peraltro, tuttora la legge appare come la massima espressione della democrazia degli Stati moderni (o quantomeno di quelli appartenenti alla famiglia di Civil Law), e l’unica forma di democrazia possibile rimane – come scriveva già Hans Kelsen nel 1929 – quella rappresentativa, o indiretta, o parlamentare (tant’è vero che la democrazia diretta non esisteva neppure nella Grecia antica, considerato che nell’agorà ateniese avevano diritto di voto soltanto i cittadini adulti di sesso maschile che avessero completato il percorso di addestramento militare, chiamato ‘efebia’, e cioè votava una percentuale corrispondente a non più del 20% della popolazione ateniese).

Il volume contiene un’analisi critica di alcune pronunce giudiziali: in che modo si manifesta l’atteggiamento creazionista esibito dal corpo giurisdizionale statale?
Il libro offre al lettore, come prove eloquenti del creazionismo giudiziario, numerosi casi e decisioni, tratte dall’esperienza giurisprudenziale in ambito civile, penale e amministrativo. Il fenomeno del creazionismo giudiziario (già denunciato da autorevoli giuristi, appartenenti a diversi rami o discipline) si manifesta, soprattutto, nel mancato rispetto dei confini per così dire semiotici dell’enunciato normativo, che si traduce nell’assegnare significati non ascrivibili ad esso o anzi con lo stesso incompatibili, anche alla luce dei canoni dell’ermeneutica postgadameriana. In questo modo, si può giungere ad avallare soluzioni che contravvengono platealmente all’assetto costituzionale e istituzionale dello Stato di diritto, che ha come suo pilastro la soggezione del giudice alla legge (art. 101, 2° comma, Cost.), e dunque il vincolo di subordinazione gerarchica della giurisprudenza (chiamata eufemisticamente ‘diritto vivente’) alla legge. Si badi: con ciò non si vuole negare il ruolo attivo e propulsivo del giudice-interprete. Ma l’eccessiva discrezionalità giudiziale, che spesso traligna in sprezzante arbitrarietà, e cioè la possibilità di decidere liberamente (cioè emancipandosi dal vincolo dettato dal testo normativo) ogni caso concreto sottoposto all’attenzione delle corti porta con sé anche il rischio di una perdita di fiducia del cittadino, già minata da oscillazioni giurisprudenziali inattese, repentine e ingiustificate (così, a titolo meramente esemplificativo, in un caso una sentenza di una delle Sezioni della Suprema Corte ha condannato penalmente chi ha omesso il pagamento del pedaggio autostradale, e in un altro caso, identico, un’altra sentenza della medesima Sezione ha, però, affermato che la medesima condotta non integra gli estremi di un reato; così, a distanza di soli sei giorni l’una dall’altra, una decisione di legittimità ha affermato che l’obbligazione restitutoria dell’accipiens, soccombente in sede di azione revocatoria, è debito di valuta, e un’altra ha, invece, affermato che la medesima obbligazione è debito di valore).

Quale rinnovato ruolo è dunque auspicabile per la giurisprudenza?
La pars construens appare sempre quella più difficile e complessa. Volendo aspirare ad un risultato minimale, ci si attenderebbe (da parte non soltanto dei giuristi, ma anche dei comuni cittadini) che, quantomeno, i giudici non oltrepassino quel limite invalicabile rappresentato da quella che un giurista sensibile come Natalino Irti ha chiamato ‘legalità linguistica’: il messaggio comunicativo del legislatore infonde nei destinatari affidamenti e attese semantiche che non appaiono suscettibili di essere frustrate da chi è specificamente deputato a preservare e custodire le parole contenute in quel messaggio (così, ad esempio, la parola ‘cane’ può significare, in astratto, un determinato animale a quattro zampe, una determinata parte del fucile o una determinata costellazione celeste, ma non può significare impianto fotovoltaico con accumulo e pompa di calore reversibile). Certo è che, se i giudici facessero, davvero, i giudici (che, etimologicamente, ‘dicono il diritto’) in modo responsabile e senza protagonismi di sorta, se fossero valutati, anche ai fini della progressione di carriera, per la qualità delle motivazioni che offrono agli utenti del servizio della giustizia, se, ancor più a monte, fossero selezionati e reclutati in base a sistemi che valorizzino sia cultura, competenze e capacità, sia equilibrio psico-fisico ed equidistanza dagli interessi delle parti in causa, se ci fosse una legge che li rende responsabili (anziché renderli, come quella attuale, irresponsabili) per i loro errori, allora l’Italia potrebbe sperare di diventare un Paese ‘normale’.

Marco Antonioli è professore associato presso l’Università Statale di Milano, dove insegna diritto amministrativo, diritto amministrativo europeo ed Environmental Sustainability. Tra i suoi contributi scientifici, si segnalano le seguenti monografie: Comunicazioni della Commissione europea e atti amministrativi nazionali (Milano, 2000), Mercato e regolazione (Milano, 2001), Arbitrato e giurisdizione esclusiva (Milano, 2004), Società a partecipazione pubblica e giurisdizione contabile (Milano, 2008) e Sostenibilità dello sviluppo e governance ambientale (Torino, 2016).
Arturo Maniaci è professore aggregato di Istituzioni di diritto privato e di diritto minorile presso l’Università Statale di Milano. Fra i suoi contributi scientifici, si segnalano le seguenti monografie:
La promessa di matrimonio (Milano, 2015), Rimedi e limiti di tutela dell’acquirente (Pisa, 2018), Onere della prova e strategie difensive (Milano, 2020), nonché (insieme ad altri Autori) Il filtro dell’appello (Torino, 2013) e I patti preconflittuali (Torino, 2019). È abituale Relatore a Convegni, Master e Corsi di formazione in materia giuridica e di public speaking.

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