“Dal paesaggio all’ambiente. Sentimento della natura nella tradizione poetica italiana” a cura di Roberto Rea

Prof. Roberto Rea, Lei ha curato l’edizione del libro Dal paesaggio all’ambiente. Sentimento della natura nella tradizione poetica italiana pubblicato dalle Edizioni di Storia e Letteratura, che raccoglie gli atti del convegno internazionale di studi tenutosi presso l’Università di Roma Tor Vergata nel maggio 2019: come si è evoluto il rapporto tra uomo e ambiente nella tradizione poetica italiana?
Dal paesaggio all’ambiente. Sentimento della natura nella tradizione poetica italiana, Roberto ReaL’intento di fondo del nostro convegno era proprio cercare di dare una prima risposta a questa domanda. Ma è una risposta che non può essere né semplice né univoca, poiché riguarda una tradizione che si sviluppa nel corso di otto secoli, dal Medioevo al Novecento, e quindi deve tenere conto, oltre che degli intrinseci valori linguistici e retorici, di mutamenti culturali articolati e complessi. In estrema sintesi si può comunque affermare che il rapporto tra uomo e ambiente muove da una tradizionale visione antropocentrica, che nei diversi secoli assume forme e contenuti diversi, verso una più complessa prospettiva ecocentrica, che nella nostra tradizione è una conquista essenzialmente leopardiana. Anche da questo punto di vista i Canti di Leopardi costituiscono dunque uno snodo decisivo in prospettiva novecentesca. Nell’ottica di tale evoluzione va letto il titolo stesso del volume, che fissa gli opposti estremi al cui interno di volta in volta si colloca la rappresentazione del mondo naturale: da una parte il paesaggio, inteso come oggetto di uno sguardo autoreferenziale e antropocentrico, dall’altra l’ambiente, inteso come spazio di relazione problematico e sempre meno antropocentrico. Il termine sentimento vorrebbe invece suggerire l’intensità emotiva di cui si carica da sempre il rapporto tra l’Io e l’ambiente naturale nella rappresentazione lirica. Ma, ripeto, è un processo evolutivo non lineare né tantomeno irenico. Insomma, da decifrare con cautela, perché il rischio di letture banalizzanti è alto.

Come si sviluppa e quali finalità fa proprie la critica ecologica?
L’ecocriticism si è affermato come campo d’indagine e d’insegnamento negli Stati Uniti nel corso degli anni Novanta del secolo passato, sollecitato dall’istanza di interrogarsi, anche in ambito umanistico, in modo nuovo sulla relazione, sempre più critica, tra l’uomo e l’ambiente naturale. Nell’ultimo decennio si è confermato anche in Europa come uno dei paradigmi più innovativi nell’ambito degli studi letterari. In Italia ha pure visto crescere la propria fortuna in anni recenti, ma in misura contenuta e con una focalizzazione soprattutto sulla letteratura del Novecento. Per avere un’idea approfondita delle multiformi relazioni che intercorrono tra letteratura ed ecologia, nonché delle stesse prospettive dell’ecocritica, consiglio di leggere il volume di Niccolò Scaffai, Letteratura e Ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa (Roma, Carocci, 2017). Tra le altre cose, Scaffai ha il merito di prendere le distanze da un certo «ideale olistico (e spesso irenico) del rapporto uomo-ambiente e uomo-natura», che appare prevalente nell’ecocriticism di ascendenza nordamericana, e di individuare come obiettivo primario della critica ecologica l’intelligenza della letteratura, che «non deve essere utilizzata ma conosciuta e interpretata, per la sua capacità di rappresentare la complessità».

Quale funzione svolgono elementi e contesti naturali nella Commedia di Dante?
Per quanto ambientata in uno spazio oltremondano, la rappresentazione della Commedia riesce a plasmare un paesaggio concreto e reale, nonché geograficamente definito quando evoca luoghi appartenenti al mondo terreno, al punto che ancora oggi tali luoghi possono essere ripercorsi e riconosciuti, come dimostrano le suggestive pagine del recente libro L’Italia di Dante. Viaggio nel paese della Commedia, resoconto di un viaggio al tempo stesso reale e testuale firmato da Giulio Ferroni. Il concetto di paesaggio nel «poema sacro» integra dimensioni e significati molteplici, mai riducibili in un’unica funzione o caratteristica. In primo luogo, definisce lo spazio fisico attraversato dal pellegrino durante il viaggio oltremondano, che, nonostante la natura fantastica della rappresentazione ‒ vale a dire densamente letteraria, frutto dell’incrocio di elementi e coordinate desunte da tradizioni differenti, classiche e cristiane ‒, presenta non solo una sua coerente geografia ma una straordinaria immanenza fisica. Inoltre, gli elementi di tale paesaggio, come del resto previsto nella cultura medievale per lo stesso universo naturale, si caricano di precisi significati simbolici e allegorici, assorbendo così la dimensione morale del viaggio, secondo parametri che possono variare dal più alto grado di astrazione (la selva del prologo allegoria della condizione di peccato) al più alto grado di corporeità (la selva dei suicidi formata da anime di dannati reincarnatesi in piante). A questo paesaggio si sovrappone la già ricordata geografia di luoghi reali, soltanto evocati o minuziosamente descritti da Dante sulla base di dirette esperienze visive o di memorie libresche, ma comunque sempre fissati in una presenza assoluta e pure moralmente connotata.

Quale rappresentazione e interpretazione della natura emerge nei Canti di Leopardi?
La riflessione sul sistema della natura, intesa come insieme degli esseri viventi, animali e vegetali – e non soltanto come ente o principio creatore –, percorre l’intera produzione leopardiana, in prosa e in versi. La mia riflessione riguarda in particolare tre componimenti dei Canti: il Bruto minore, il Canto notturno e la Ginestra, che costituiscono altrettanti snodi nella riflessione leopardiana sulla natura. Bruto dopo la disfatta di Filippi, il pastore errante nelle steppe asiatiche, il poeta stesso assiso alle desolate pendici del Vesuvio condividono la medesima situazione archetipica di solitudine di fronte alle silenziose vastità del cielo notturno. Le loro parole sembrano comporre un unico monologo dell’Io leopardiano, che prima accusa, poi interroga e infine soltanto contempla l’imperscrutabile mistero della natura.

Nel Bruto la disillusione per la sconfitta della virtù repubblicana arriva a incrinare anche il mito, caratterizzante la stagione delle canzoni giovanili, dell’originaria benevolenza della natura nei confronti degli uomini. Nell’estremo monologo dell’eroe suicida inizia dunque a affiorare la drammatica rottura che si registra nel 1824 con il Dialogo della Natura e di un Islandese, dove la stessa Natura è riconosciuta come un meccanismo non-cosciente e non-provvidenziale («un perpetuo circuito di produzione e distruzione») e quindi «carnefice della sua propria famiglia, de’ suoi figliuoli e, per dir così, del suo sangue e delle sue viscere». L’idea di una sorta di antropocentrismo negativo, secondo cui l’uomo più di ogni altra creatura è destinato all’infelicità, viene quindi superata nell’ambito del discorso poetico nella conclusione del Canto notturno, dove però, come intuì uno dei suoi lettori più acuti, Emilio Bigi, si deve al tempo stesso riconoscere la manifestazione «di una nuova “sensibilità” rivolta alla souffrance, alla condizione di dolore e di morte universalmente e inevitabilmente destinata a ogni creatura, e parallelamente di una nuova poesia, che tale sensibilità assume come tema centrale del canto». Nella Ginestra, estremo messaggio di Leopardi, si assiste infine alla scoperta della forza di questa comune fragilità. La souffrance che affratella tutti gli esseri non è più soltanto ‘sofferenza, patimento’, ma anche, secondo un’accezione prevista dal suo etimo, ‘capacità di sopportazione, tenacia, resistenza’. Liquidate le posizioni antropocentriche, pare così iniziare a prendere forma nella poesia leopardiana una concezione biocentrica, in cui «il non essere» forse non appare più «meglio dell’essere», una ecologia della souffrance, né irenica né armoniosa, ma comunque capace di riconoscere il valore della vita che giorno per giorno ogni creatura sottrae alla morte.

Quali prospettive per la critica ecologica?
Nell’ultimo decennio la critica ecologica ha conosciuto ulteriori evoluzioni, che oltrepassano i confini metodologici e disciplinari, ma che talvolta rischiano di perdere contatto con lo stesso oggetto di studio: il testo letterario. Mi limito in proposito a una riflessione di fondo. Personalmente credo che l’intento etico-pedagogico, che vede nell’opera letteraria uno strumento per la promozione e lo sviluppo di una coscienza ambientale, debba sempre rimanere subordinato a quello storico-ermeneutico, che si propone di interpretare le relazioni fra uomo e natura all’interno del testo letterario, esaminato iuxta propria principia. Questo per non cadere nel rischio, tutt’altro che remoto, di discorsi critici che non tengano adeguatamente conto dei valori testuali e del contesto storico-culturale delle opere considerate, esponendosi così a semplificazioni e forzature interpretative, e quindi a facili manicheismi sul piano ideologico (natura buona vs uomo cattivo). Insomma, qualsiasi analisi in chiave ecologica della letteratura non può prescindere da un’interpretazione incentrata sui valori testuali e quindi dagli strumenti consolidati della filologia e della critica letteraria. Per il resto, il denominatore comune di ogni indagine in ambito di ecologia della letteratura dovrebbe essere dato, come è stato osservato, «not by a theory, but by a focus: the environment» (S. Sarver). Solo muovendo da questi presupposti una diversa focalizzazione dello sguardo sulla relazione tra uomo e ambiente potrà farci rileggere in modo proficuo la nostra storia letteraria, e auspicabilmente insegnarci qualcosa.

Roberto Rea insegna Filologia della letteratura italiana e Filologia dantesca presso l’Università Tor Vergata di Roma, dove coordina il Corso di Laurea Magistrale in Letteratura, Filologia e Linguistica. Si occupa di poesia medievale, con particolare riferimento all’opera dantesca, filologia d’autore (Leopardi), ecologia della letteratura. È autore dei volumi Studi leopardiani (con Giorgio Brugnoli, Pisa, ETS, 2001); Stilnovismo cavalcantiano e tradizione cortese (Roma, Bagatto, 2007); Cavalcanti poeta. Uno studio sul lessico lirico (Roma, Nuova Cultura, 2008); dell’edizione commentata delle Rime di Guido Cavalcanti (con Giorgio Inglese, Roma, Carocci, 2011); dell’edizione critica delle Rime di Lapo Gianni (Roma, Salerno Editrice, 2019). Ha curato inoltre il volume Dal paesaggio all’ambiente. Sentimento della natura nella tradizione poetica italiana (Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2020) e il volume Dante (con Justin Steinberg; Roma, Carocci, 2020).

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link