
La seconda e fondamentale tappa nella fortuna del Leviatano si trova nelle tradizioni apocalittiche, di cui il passaggio del libro di Isaia offre una piccola anticipazione. Nelle apocalissi a cavallo dell’era cristiana si fa strada l’idea che la fine dei tempi sarà inaugurata da una nuova e questa volta definitiva battaglia condotta dalla divinità contro il Leviatano. Nelle apocalissi cristiane, di cui l’Apocalisse di Giovanni è la più famosa, il Leviatano è identificato con il serpente del libro di Genesi e con Satana, mentre nelle tradizioni ebraiche il mostro finirà come portata principale sul banchetto dei giusti.
Quali credenze avevano in merito a draghi e mostri marini gli antichi?
Le civiltà del Mediterraneo antico erano in gran parte marinare o fluviali, e per molte di esse la navigazione rappresentava una parte importante dell’economia. Le credenze sui mostri marini sono particolarmente diffuse fra gli antichi greci, che avevano una certa familiarità con i viaggi per mare. Per loro la categoria di kêtos era un po’ al limite tra zoologia e mito: essa comprendeva sia cetacei veri e propri che pesci di dimensioni molto grandi o particolarmente pericolosi, ma anche creature mitologiche vere e proprie. I Greci erano naturalmente anche consapevoli dei rischi che la navigazione comportava: la morte per mare era un pericolo concreto, non infrequente, e molto temuto, in quanto comportava la perdita del cadavere, e di conseguenza l’impossibilità di un rituale di sepoltura, primo passo per un corretto accesso del defunto all’aldilà. Non è dunque un caso che i luoghi maggiormente infestati da mostri marini nelle tradizioni greco-romane siano gli stretti, caratterizzati dallo scambio di correnti e in cui la navigazione è effettivamente pericolosa: Messina, con Scilla e Cariddi, è forse il punto più noto, ma tradizioni di mostri marini sono attestate nell’antichità anche per Gibilterra e Bosforo. Su questa base si spiega anche la popolarità del tema dell’inghiottimento da parte di un mostro marino, poi ucciso dall’eroe di turno: la versione più famosa è senz’altro la storia di Perseo e Andromeda, ma il mito è diffuso in diverse varianti testuali e iconografiche. È peraltro interessante osservare che nell’iconografia del mostro marino gli elementi “serpentiformi”, che anticipano l’iconografia del drago, sono molto frequenti. Ci sono buone ragioni di credere che storie di inghiottimenti avvenuti in mare circolassero soprattutto intorno ai porti. In età ellenistica esse raggiunsero anche una civiltà come quella ebraica, che per secoli non aveva avuto accesso al mare: la vicenda di Giona inghiottito dalla balena e rigettato sul litorale è in fondo una variante di questo motivo, e potrebbe essere stata ispirata da racconti di marinai nell’antico porto di Giaffa.
Quali tratti comuni presentano le creature fantastiche nelle diverse culture di area semitica e mediterranea?
Innanzitutto bisogna osservare che la nozione di “fantastico” non è forse la più adatta a descrivere il rapporto degli antichi con i loro mostri. Per noi il fantastico è un paradigma che si basa su logiche “altre” rispetto a quelle che si supponga regolino l’esperienza quotidiana, ed è una categoria principalmente letteraria. Per gli antichi non era così, o almeno non sempre. Al contrario, il mito è una narrazione autorevole, che si inscrive pienamente nell’ordine del mondo degli antichi. Per esempio, il fatto che sia in Grecia che nel Vicino Oriente si siano sviluppati miti fondatori che chiamano in causa mostri acquatici primordiali ha le sue radici nella concezione geografica del mondo come una massa sferica o emisferica interamente circondata dalle acque. Questo è senz’altro un tratto condiviso da molte culture di area mediterranea. Il fatto che le creature mostruose siano spesso associate a un racconto eroico, che mette in scena una divinità o un eroe di origine divina, è un’altra caratteristica comune. Per il resto, ogni tradizione elabora diversamente le proprie credenze e i propri miti sulla base dei contesti e delle produzioni culturali specifiche.
In Grecia, ad esempio, le creature cosiddette “fantastiche” come gli ibridi mitologici diventano ad un certo punto un buon strumento per descrivere o sfidare le categorie della logica, ed il loro potenziale è sfruttato dai filosofi. Aristotele usa il traghelafo o ircocervo, un ibrido metà capra e metà cervo, per illustrare la differenza fra essenza ed esistenza: tutti sanno che il traghelafo esiste, ma è impossibile definire esattamente che cosa esso sia.
Quali significati simbolici rivestivano tali creature?
Anche per quel che riguarda i significati “simbolici” è difficile dare una risposta univoca. Però senz’altro l’associazione del mostro marino e con il tema della morte è frequente. L’equazione tra mostro marino e tomba è esplicita nel linguaggio impiegato libro di Giona: non è un caso che l’episodio sia ripreso nel Vangelo di Matteo come “segno” che annuncia la resurrezione, e che il tema del profeta che fuoriesce dalla bocca del mostro si sia diffuso sulle catacombe di età paleocristiana. Nella tradizione ebraica porzioni del libro di Giona vengono tutt’ora poste sotto il cuscino delle partorienti: l’usanza dimostra come il simbolismo della fuoriuscita dal mostro come una nuova nascita sia efficace e persistente.
Inoltre, mostri e ibridi sono talvolta riletti in chiave esotica: nell’indagine etnografica greca e romana le creature più strampalate sono situate spesso ai margini del mondo conosciuto, specialmente in luoghi caratterizzati da climi estremamente caldi, che nella visione biologica degli antichi sono in grado di influire sulla vita animale e vegetale. In Etiopia e in Arabia, ma anche in India è allora possibile incontrare le specie animali più bizzarre così come varie tipologie di ibridi, che difficilmente possono crescere nella temperata Europa. Un certo gusto per l’esotismo si riscontra anche nelle descrizioni del Leviatano e del suo compagno Behemoth nel libro di Giobbe, in cui molti commentatori antichi e moderni riconoscono una atmosfera “egizianizzante.” Da questo punto di vista è corretto dire che i mostri sono una maniera di pensare e visualizzare l’alterità.
In che modo la figura del drago si innesta nella tradizione cristiana?
Un ruolo fondamentale in questo senso è svolto dalle traduzioni antiche della Bibbia, in particolare dalla prima traduzione greca, ovvero la Bibbia cosiddetta dei Settanta, realizzata verosimilmente in Egitto tra il III e il I secolo avanti Cristo. Nella tradizione greco-romana il greco drakôn e il suo corrispondente latino draco non significano propriamente “drago”, ma indicano serpenti di grossa taglia. Questi serpenti sono però già caratterizzati da una serie di tratti ricorrenti che fanno parte dell’immaginario legato al drago, come ad esempio occhi sempre aperti e straordinariamente scintillanti, fauci spaventose e molto pericolose, e una coda dalle innumerevoli ed immense volute. Di solito prediligono luoghi palustri o fondi di laghi come habitat naturale, situandosi così ai margini fra natura e civiltà urbana. Tali aspetti costituiscono, per dirla con Umberto Eco, il “contenuto molare” della futura rappresentazione “drago” in termini semiotici. Il fatto che i traduttori antichi del testo biblico scelgano drakôn come equivalente per il Leviatano contribuisce alla sovrapposizione della rappresentazione del serpente con quella del mostro marino, che per altro da sempre aveva tratti “dragoneschi” nell’iconografia. Si è già detto, inoltre, di come il capitolo 12 dell’Apocalisse di Giovanni identifichi questo drago con il diavolo, e lo descriva come un demone che, una volta scacciato dal cielo sulla terra, non cessa di tormentare gli umani. Il tema della lotta contro il mostro primordiale trova così nuova vitalità nel combattimento contro il drago: agli eroi e agli dèi del mito si sostituiscono ora i santi delle leggende agiografiche, in una lista lunghissima di scontri che va da Santa Margherita a San Giorgio, passando per San Silvestro a Roma, San Marcello a Parigi, Santa Marta sul Rodano, e molti altri ancora.
Anna Angelini ha conseguito il dottorato in Antropologia del mondo antico all’università di Siena. Lavora presso l’Istituto di studi biblici dell’Università di Losanna