“Dal diritto alla privacy al diritto di matrimonio. L’omosessualità nella giurisprudenza costituzionale statunitense” di Giacomo Viggiani

Dott. Giacomo Viggiani, Lei è autore del libro Dal diritto alla privacy al diritto di matrimonio. L’omosessualità nella giurisprudenza costituzionale statunitense edito da Mimesis: che nesso esiste, nella giurisprudenza costituzionale statunitense, tra privacy e omosessualità?
Dal diritto alla privacy al diritto di matrimonio. L'omosessualità nella giurisprudenza costituzionale statunitense, Giacomo ViggianiEsiste un nesso molto stretto, almeno sul piano del diritto penale. L’attività sessuale tra persone dello stesso sesso è rimasta criminalizzabile negli Stati Uniti fino a pochi anni fa. La definitiva derubricazione avviene, infatti, soltanto nel 2003 – molto in ritardo per quella che ama definirsi la più grande democrazia del mondo –, quando la Corte Suprema federale dichiara invalida, proprio perché incompatibile con il diritto alla privacy, la norma penale dello Stato del Texas.

Certo, viene spontaneo chiedersi: che cosa ha a che fare il diritto alla riservatezza con la libertà sessuale? Poco o nulla, se la si intende alla maniera italiana (ed europea), cioè come diritto alla protezione dei dati personali. Al contrario, negli Stati Uniti, come si evincerebbe sfogliando un qualsiasi manuale di diritto costituzionale, l’idea di privacy ricomprende una nutrita serie di situazioni, tra cui vi è certamente la tutela dei dati personali (c.d. informational privacy), ma anche, per quel che qui più rileva, il diritto di governare liberamente la propria sessualità e le scelte che da essa possono scaturire (c.d. autonomy privacy).

Quando nasce e come si sviluppa, nell’ordinamento statunitense, il diritto alla privacy?
La data di nascita dell’idea di privacy è convenzionalmente ricondotta al 1890, anno in cui la prestigiosa “Harvard Law Review” pubblica un saggio scientifico dal titolo The Right to Privacy. I due autori, gli avvocati bostoniani Samuel D. Warren e Louis Brandeis, vi selezionano, discutendoli, alcuni casi giudiziari al fine di dimostrare che un tort of privacy si è ormai affermato nel diritto americano attraverso la naturale evoluzione della common law. I due giuristi sostengono, che l’individuo non possiede alcun diritto reale sulla propria immagine o sui propri pensieri, ma che, nondimeno, una loro indebita diffusione da parte di terzi comporti una violazione della fiducia (breach of trust), e dunque un comportamento lesivo di un interesse giuridicamente rilevante, che i soggetti passivi possono far cessare tramite un’azione inibitoria.

Va detto, tuttavia, che, nonostante gli sforzi profusi dai due autori per dimostrare che il diritto alla privacy è già tutelato dalla common law, l’impressione è che la loro sia, come d’altronde sempre in questi casi, una raffinata opera di moral suasion. Fatto sta che, di lì a poco, alcune Corti (e vari legislatori) finiscono per riconoscere un diritto che molto si avvicina a quello teorizzato da Warren e Brandeis.

La vera svolta nel riconoscimento di un diritto alla privacy si rende possibile solo nel 1916, quando il Presidente Wilson nomina proprio Brandeis giudice della massima istanza federale e dunque uno dei nove custodi (e interpreti) della Carta fondamentale degli Stati Uniti. E difatti questi sfrutta il suo ruolo per costituzionalizzare, per così dire, la propria idea di privacy.

È però solo a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso si consuma il passaggio a una fundamental decision privacy (o autonomy privacy[1]), cioè a un più ampio diritto di scelta sulla propria vita contro ogni forma di controllo pubblico e stigmatizzazione sociale e cioè a un’ipotesi di riservatezza che concerne non solo i dati personali, ma anche e soprattutto le decisioni più intime della persona. E non si può non rilevare che tra le peculiarità delle sentenze che stanno alla base di questa rinnovata idea di privacy vi sia quella di ruotare prevalentemente intorno al tema della sessualità, intendendo il termine in senso lato, e riferibile a quell’insieme di scelte che attengono alle condizioni nelle quali la sessualità può essere esplicata, alle istituzioni sociali che interagiscono con tali scelte e perfino alle loro conseguenze procreative.

Come si è orientata la giurisprudenza costituzionale statunitense in materia di diritti degli omosessuali?
Il riconoscimento della libertà sessuale alle persone omosessuali all’interno di un più ampio diritto alla privacy non è stato immediato. Al contrario il diritto alla privacy come contraccezione, interruzione di una gravidanza indesiderata, consumo pornografia, ecc. degli anni’60 non viene inizialmente esteso anche ai rapporti omosessuali (letteralmente: sodomitici) tra persone adulte e consenzienti, nonché consumati in privato.

Nel 1975 un giudice federale scrive che «se lo Stato determina che la relativa punizione, anche se commessa in casa, è appropriata per promuovere la moralità e la decenza, non spetta ai tribunali affermare che lo Stato non è libero di farlo» e aggiunge, a conforto, che la legge «ha origini che risalgono alla legge giudaica e cristiana».

Ancora nel 1986, la Corte Suprema federale non solo esclude la copertura del diritto alla privacy, afferma di essere «non convinta che le leggi sulla sodomia di circa 25 Stati debbano essere invalidate su questa base» e ricorda ad adiuvandum come il diritto sia costantemente retto da nozioni morali. Né i giudici appaiono persuasi dalla tesi che gli atti di sodomia sono praticati nella riservatezza della propria abitazione e dunque senza “ferire” la sensibilità morale o i diritti degli altri consociati, perché «sarebbe difficile […] limitare il diritto rivendicato alla condotta omosessuale lasciando perseguibile l’adulterio, l’incesto e altri crimini sessuali anche se sono commessi in casa».

Il cambio di passo avviene soltanto nel 2003, quando, un po’ a sorpresa, la Corte Suprema non solo cambia opinione (c.d. overruling), ma riconosce anche di aver sbagliato nel 1986, un evento che avviene molto di rado.

Quali vicende hanno segnato la battaglia nei tribunali per il matrimonio tra persone dello stesso sesso?
Nel 2003, il reato di sodomia tra adulti consenzienti viene quindi finalmente reso inapplicabile in tutti gli Stati Uniti. L’avvenimento ha una portata storica, ma sarebbe errato scambiare la decisione le sue conseguenze giuridiche per una piena equiparazione dell’omosessualità all’eterosessualità. Famiglia e matrimonio non sono, però, la stessa cosa. Ciò significa che, per poter fondare una famiglia, basta un intervento in negativo dello Stato (la privacy), mentre, per sposarsi, è indispensabile un suo intervento in positivo, che dia vita a quel complesso di norme che poi prende il nome di matrimonio. La derubricazione della sodomia e la libertà di fondare una famiglia sono, pertanto, la condizione necessaria, ma non sufficiente per poter rivendicare l’accesso all’istituto matrimoniale. Non è un caso, insomma, che nei primi ricorsi gli attori non ottengano alcuna soddisfazione, ma anzi ricevano rigetti spesso sommari.

La vera svolta in materia arriva solo negli anni ‘90 e dal piccolo Stato delle Hawaii, ove tre coppie di uomini ricorrono avverso il diniego del rilascio della licenza matrimoniale, lamentando, in particolare, un’ingiusta discriminazione sulla base del sesso anagrafico. Una tesi che la Corte Suprema delle Hawaii accoglie: alle coppie è stata negata la licenza matrimoniale non perché composte da due persone omosessuali, ma sulla base del fatto che i componenti sono dello stesso sesso. E la Costituzione delle Hawaii presume incostituzionale ogni classificazione sulla base del sesso a meno che lo Stato non dimostri la sussistenza di forti interessi, nonché di avere adottato la soluzione meno gravosa.

Il contraccolpo conservatore non si fa però attendere. Il 7 maggio 1996, il Congresso degli Stati Uniti licenzia, con una maggioranza schiacciante, il Defense of Marriage Act (DOMA). Oltre alla rubrica della legge, di per sé già abbastanza rivelatrice della sua ratio, nella relazione illustrativa non solo si ribadisce l’inscindibile connessione tra matrimonio e procreazione, ma non si perde l’occasione per stigmatizzare l’omosessualità.

La battaglia legale va così avanti tra alterne vicende per circa vent’anni, fino a quando la Corte Suprema decide il caso Obergefell v. Hodges nel 2015: «La Corte in questa decisione ritiene che le coppie omosessuali possano esercitare il diritto fondamentale di sposarsi in tutti gli Stati».

Si tratta di una pronuncia molto interessante, anche per la presa di posizione su alcune questioni dottrinali e proprie dello Stato costituzionale di diritto. Per esempio, il giudice estensore dedica alcune pagine a discutere il ruolo antimaggioritario svolto dalla Corte Suprema. Si tratta, invero, di una contro-obiezione alle critiche mosse dai giudici di minoranza, che fanno inter alia leva sul principio democratico. Secondo questo punto di vista, il matrimonio tra persone dello stesso sesso non dovrebbe essere introdotto dalla Corte, ma dal legislatore, quando lo riterrà opportuno. Tuttavia, la maggioranza, se è vero che la Costituzione prevede la decisione democratica quale ordinario viatico delle riforme, è altrettanto vero che «i diritti fondamentali non possono essere sottoposti a un voto; non dipendono dal risultato di alcuna elezione».

Giacomo Viggiani è Ricercatore in Filosofia del diritto presso l’Università degli Studi di Brescia, dove tiene il corso di Teorie e politiche dell’uguaglianza. Dottore di ricerca in Filosofia del diritto e Bioetica giuridica presso l’Università degli Studi Genova, ha partecipato a vari progetti di ricerca nazionali ed europei ed è autore di numerosi saggi e articoli. Tra questi, si segnalano le monografie Nomen Omen. Il diritto al nome tra Stato e persona in Italia (2016) e Il liberalismo politico e il matrimonio tra persone dello stesso sesso (2018). È inoltre coautore della ricerca Hard Work. LGBTI Persons in the Workplace in Italy (2017).

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[1] In senso adesivo, si vedano: L. Henkin, Privacy and Autonomy, in «Columbia Law Review», vol. 79, 1974, p. 1410 ss; J. Feinberg, Autonomy, Sovereignity and Privacy: Moral Ideas in the Constitution?, in «Notre Dame Law Review», vol. 58, 1983, p. 445 ss.; D.R. Ortiz, Privacy, Autonomy and Consent, in «Harvard Journal of Law and Public Policy», vol. 12, 1989, p. 91 ss.; M. Perry, Substantive Due Process Revised: Reflections On (and Beyond) Recent Cases, in «Northwestern University Law Review», vol. 71, 1976, p. 417 ss.; J.C. Inness, Privacy, Intimacy and Isolation, Oxford University Press, New York, 1992.

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