
Perché questo preambolo? Penso sia necessario per capire due ordini di problemi relativi al caso Malaparte. Il primo è che Malaparte è uno scrittore di successo ed è stato letto da generazioni di italiani, nonostante l’università e la scuola italiana lo abbia censurato perché sempre eccedente rispetto alle ideologie in voga (sia a sinistra che a destra). Su questo invito a leggere le 5 righe che Giulio Ferroni gli dedica appunto nel “Ferroni” Einaudi Scuola, testo d’obbligo per vent’anni nella preparazione degli esami Letteratura I & II all’università. Ma d’altronde è un fenomeno che non attiene solo a Malaparte: ricordo di aver letto recentemente l’introduzione di un libro di Ernesto Galli della Loggia, mi sembra fosse Il tramonto di una nazione, in cui con malcelato compiacimento, si lamentava che nessun libro italiano negli ultimi vent’anni avesse suscitato interesse o dibattito all’estero. Ma come? Ed Elena Ferrante? La scrittrice è senz’altro tra i più grandi casi letterari globali degli ultimi anni, con critici letterari che fuori d’Italia costruiscono carriere con articoli su di lei. E Giorgio Agamben? Magari non sarà più nell’occhio del ciclone, ma nel primo decennio degli anni 2000 era il pensatore europeo più discusso nei dipartimenti di Comparative Literature e Critical Theory, tête-à-tête con Foucault e Arendt. Penso di aver capito per la prima volta come funziona veramente il nostro assetto culturale nazionale solamente dopo una discussione che ho avuto in una indimenticabile visita a a Istanbul. Ospite di amici colti in quella unica metropoli ho chiesto loro cosa ne pensassero del premio Nobel Orhan Pamuk. “Mah,” mi hanno risposto, “va bene per i turisti, per gli americani”. Ho il dubbio che non l’avessero mai letto, ma da ospite ho mantenuto un certo riserbo. Food for thought.
Ma questa risposta non è ancora sufficiente. Arrivo cosi al secondo ordine di problemi. Malaparte è stato un intellettuale fascista, di un’intelligenza e sensibilità uniche, difficili non da capire, ma da tollerare. Sue intuizioni sul potere della tecnologia di interferire sulla vita e sull’idea stessa di cos’è umano, ma anche sulla resistenza dell’atavismo sociale sono sconvolgenti. Di questi accorgimenti, di queste testimonianze, Malaparte è riuscito a dare una superba veste letteraria, mandando in cortocircuito l’etica e facendoci — noi lettori — precipitare in un abisso kitsch con i nostri moralismi. Del resto piaceva moltissimo a Milan Kundera che l’ha elogiato nel suo libro Un incontro senza riguardi al politically correct. Perché quello che non va giù di Malaparte è che appunto sia stato un intellettuale fascista. Che parta da idee populiste per arrivare a conclusioni chiaramente inaspettate, e spesso visionarie. Non si tratta qui di salvarlo, non è nostro compito, ma di comprendere come il fascismo fosse e sia ancora alla base della nostra modernità. E sia anche punto di partenza, attrazione pericolosa in Pasolini, Vittorini o Pavese, e come scrollarselo di dosso significhi attraversarlo. E comprendere come l’Italia tutta l’abbia abbracciato come futuro possibile e via d’uscita dal cattolicesimo, attraverso Marinetti, Sarfatti, Savinio, Terragni, Pagano e Sironi, figure eccezionali e sconfitte dalla storia. I loro eccessi sono molto più accattivanti di ogni catalogo di virtù, come ha ben compreso recentemente Antonio Scurati. E solo attraversandolo, conoscendolo, si può decidere di volere altro, di scegliere altro, di desiderare altro. Malaparte andrebbe letto alle superiori insieme a Primo e Carlo Levi.
Come visse Malaparte la propria adesione al fascismo?
Malaparte ha voluto essere in tutti i modi un rivoluzionario. E dopo l’esperienza della Prima Guerra Mondiale — esperienza vera, sul fronte a 16 anni, subendo i gas lanciati dal nemico a 18 — ha fatto parte di quella generazione che aveva rischiato tutto e perciò era pronta a tutto, infarcita di d’Annunzio e Nietzsche (ovvero del Nietzsche ad uso dei nazionalisti confezionato dalla sorella Elisabeth). Questo ancora una volta non giustifica i suoi eccessi, anche le infamie che ha compiuto come fascista della prima ora. Nel fascismo e in Mussolini Malaparte ha visto la rivoluzione e la forza del passato (i due termini non sono in contraddizione: si pensi a Picasso e la scultura africana) contro lo stile di vita di una borghesia europea in putrefazione, la sicurezza di una piena identità italiana che il proprio padre tedesco non ha saputo dargli. Del fascismo Malaparte ha voluto essere l’ideologo, ha creduto di poter diventare l’intellettuale di punta, il corifeo della nuova era. Ma per Mussolini era tutto sommato un eccentrico e quindi innocuo e l’ha lasciato fare finché gli conveniva in qualche modo. Poi il confino, quando Malaparte ha alzato troppo la cresta con gli altri gerarchi. In fondo è una storia triste, è la storia di una grande disillusione e di innominabili compromessi con il potere. Ma da questa disillusione, dalla sconfitta della propria gioventù rivoluzionaria (da leggere assolutamente anche quanto scrive di Lenin e della rivoluzione russa in Il buonuomo Lenin e Il ballo al Cremlino) nasce la sua vena più autentica, le sue opere migliori. Suo grande limite è stato nel dopoguerra quello di trincerarsi in questa postura, mentre proprio sull’analisi della propria abiezione un grande autore come Vitaliano Brancati ha scritto invece le sue cose più significative.
Quali scandali segnarono la sua biografia?
A mio avviso i veri e propri scandali della sua biografia sono i suoi libri. A cominciare dalle tesi di Viva Caporetto in cui nella disfatta italiana leggeva i germi di una rivolta sociale, una rivolta “proletaria” dei fanti contro lo stato maggiore dell’esercito, di estrazione nobile o comunque agiata, fino a Tecnica del colpo di stato, dove in pieno dibattito ideologico, in un’Europa che sta per inchinarsi a Hitler, ha l’ardire di affermare che la rivoluzione la fa l’organizzazione tecnica (che diverrà poi potenza tecnologica) senza un necessario correlativo con le idee che la supportano. O i suoi capolavori Kaputt e La pelle, dove al centro della scena mette non l’eroismo o lo scontro di civiltà, ma quello che decenni dopo verrà chiamata la “nuda vita” o più tradizionalmente, con riferimento all’antichissima tradizione popolare cristiana, la “vita creaturale”. Ma molti altri libri in un certo senso minori ad un’attenta lettura rivelano il sovvertimento di cliché culturali e politici di lungo corso, come ad esempio Il Volga nasce in Europa, che già dal titolo demistifica l’immaginario borghese (e orientalista) allora in voga, di cui aveva fatto tesoro la propaganda fascista.
Come va interpretata la sua idea di “crudeltà”?
Come cerco di tracciare nel mio studio, Malaparte elabora questa idea negli anni trenta, da un confronto critico con la letteratura francese coeva. Malaparte respinge una lettura moralista della storia e della propria biografia, rifiutando qualsiasi idea di redenzione umana sia attraverso l’arte o la letteratura (di qui il suo netto distanziamento da d’Annunzio e dall’estetismo, ma anche da Proust, che rimane comunque punto di riferimento imprescindibile), sia politica. La crudeltà della sua letteratura è un correlato della perdita di fede nelle possibilità rivoluzionarie di creare l’uomo nuovo — vero sogno dei totalitarismi, al cui altare avevano sottomesso il rispetto per la vita. È inoltre evidente che per Malaparte una soluzione religiosa del problema non è più possibile, anche se lo scrittore proprio attraverso la crudeltà, la spietatezza della sua letteratura verso se stesso e la realtà testimoniata, si renda conto di come il recupero del religioso in termini laici sia uno dei temi imprescindibili della modernità. Questa crudeltà della sua “testimonianza” gli permette anche di deformare la realtà per maggiore efficacia rappresentativa, con soluzioni che accolgono le esperienze del realismo magico e del surrealismo, e si pongono in piena critica con il neorealismo letterario (con quello cinematografico il discorso è più complesso).
Quale testimonianza offre Malaparte dello scontro tra il potere distruttivo della tecnologia moderna e la nuda vita?
Questo scontro è il perno su cui Malaparte costruisce un libro come Kaputt, dove le storie testimoniate dai fronti della Seconda Guerra Mondiale sono rubricate sotto sezioni che hanno titoli di animali: renne, cani, topi, mosche. L’attenzione al mondo animale non è casuale: è sul corpo degli animali, e sul corpo offeso delle vittime viste come animali (non come bestie, ma come creature sofferenti) che Malaparte legge l’aberrazione, in questo caso soprattutto nazista. Ma anche la costruzione dei capitoli di La pelle denuncia questo scontro senza redenzione: al centro del libro alla narrazione allucinata della morte per vivisezione di un cane, oggetto di un esperimento scientifico, segue la morte per dissanguamento di un soldato americano dopo un bombardamento. Il fatto che la morte di entrambi abbia circostanze simili — un ventre squarciato attraverso l’intervento di un’alta tecnologia — acquisisce ancora più valore nel contesto generale di un’umanità che dà fondo a tutte le proprie risorse, anche illecite, pur di poter sopravvivere.
Quale valore rivestono le sue opere meno note, come il dramma teatrale Das Kapital o il suo unico film Il Cristo proibito?
Malaparte era un grande lettore dei tragici greci. Senza romanticismi di sorta, insieme all’elaborazione della crudeltà della sua letteratura ha cercato di ripensare il genere tragico come lettura della storia contemporanea. Ne sono nate molte opere — Kaputt e La pelle nascono anche da queste sue riflessioni estetiche, che ho provato a svolgere nel mio libro. Ma Das Kapital e Il Cristo proibito sono quelle in cui lo scontro tra modernità e vita creaturale, o come Malaparte stesso ha scritto tra necessità e carità, porta agli esiti più estremi. Maurizio Serra, nella sua splendida biografia dello scrittore pratese parla di Das Kapital come della sua opera più moderna. L’opera causò a Malaparte grandi dolori alla prima a Parigi nel 1949, per l’opposizione e l’ostracismo di tutta l’intelligenzia parigina. Del resto era proprio quello a cui aspirava: fare attraverso la figura di Marx, al centro della scena, una critica sia del totalitarismo (e in quel frangente storico della violenza dello stalinismo) che dello spirito borghese. Il palcoscenico si apre infatti su un Marx piccolo borghese, che nella povertà dell’esilio londinese deve scegliere se salvare i propri figli morenti o completare la propria opera di riferimento supremo della rivoluzione. Le questioni etiche sono sconvolgenti in quest’opera, che non va assolutamente confusa con il torvo anticomunismo di un Montanelli o Longanesi. C’è molto di più dell’attualità della polemica politica, e in Il Cristo proibito, Malaparte mette in scena la tragedia del ritorno dei soldati italiani dal fronte dopo aver perso la guerra, con la conseguente catena infinita di vendette che si susseguirono in Italia nel primissimo dopoguerra. Era un argomento assolutamente tabù per il 1951 quando il film è uscito. Da parte sua è stata anche l’occasione di riproporre in termini d’attualità politica strutture antropologiche profonde sul sacro e sul capro espiatorio che ho accostato agli studi di Bataille o Caillois, o più recentemente a Girard. Ma basta vedere il film per capire come la sua suggestione sia soprattutto nell’incredibile impatto visivo, tra il Rossellini di Stromboli e il Pasolini del Vangelo secondo Matteo.
Franco Baldasso è Direttore del Programma di Italian Studies al Bard College di New York, dove insegna come Assistant Professor of Italian. La sua ricerca si concentra sulle relazioni tra fascismo e modernismo, sulla violenza politica in Italia e sulla sua memoria. È autore delle monografie Il cerchio di gesso. Primo Levi narratore e testimone (Pendragon, 2007) e di Curzio Malaparte, la letteratura crudele. Kaputt, La pelle e la caduta della civiltà europea (Carocci, 2019). Ha inoltre curato volumi sulla storia fotografica di Firenze e Bologna nel primo Novecento (Pendragon, 2008) e “Italy in WWII and the Transition to Democracy: Memory, Fiction, Histories”, numero speciale della rivista Nemla-Italian Studies (2014).
Oltre alla produzione accademica, scrive di cultura e letteratura italiana su publicbooks.org e collabora al Center for Italian Modern Art di New York. È redattore dall’estero della rivista Allegoria e membro del comitato scientifico dell’Archivio della Memoria della Grande Guerra del Centro Studi “P. Pieri” di Vittorio Veneto (TV). Sta ultimando la revisione del suo prossimo lavoro, dal titolo Against Redemption: Literary Dissent during the Transition from Fascism to Democracy in Italy.