
Quali esempi di incontro fra cultura d’élite e cultura folclorica vengono presentati nel libro?
Nel suo ricchissimo saggio sull’Albero del tempo (un’immagine non a caso dantesca, dal Paradiso), Elide Casali, la maggiore studiosa di testi antichi e moderni, colti e popolari, di astrologia e di pronosticazione, fa il punto sui principali risultati delle ricerche sull’argomento. Dapprima ci introduce alla Filosofia della natura e alla cosmologia aristotelico-tolemaica, che trova la sua formulazione teorica e poetica più sublime nella Divina Commedia: fino a Settecento inoltrato, l’idea astrologica del tempo scandisce lo scorrere delle lune nei Pronostici, nei Lunari e negli Almanacchi. Illustra quindi le caratteristiche peculiari delle fonti prese in esame, tenendo conto di forme letterarie e di livelli di cultura, dei processi di produzione, diffusione e ricezione di quel singolare tipo di letteratura. Infine, affronta precisamente il tema della cosiddetta “astrologia popolare”, con riferimento ad alcuni testi a stampa riccamente illustrati del Cinque e del Seicento e alla forma particolare della pronosticazione delle “Calende planetarie”, conosciuta come Revelatio Esdrae. Emerge appunto un affascinante e sino ad oggi trascurato campo del sapere in cui si intrecciano senza soluzione di continuità alto e basso, sapere contadino ed erudizione classicistica, immagini e tabelle, nel tentativo – spesso contrastato con forza repressiva dalle istituzioni, specialmente quelle ecclesiastiche – di “comprendere” il tempo e divenirne partecipi in maniera attiva, diffondendo questo sapere col mezzo moderno della stampa.
Di grande portata culturale per il discorso folclorico da una parte e il discorso letterario dall’altra è anche il contributo di Giovanni Kezich «Cosa si mangia nel paese di Cuccagna? Il carnevale e le sue metafore alimentari in una nuova prospettiva antropologica» (pp. 61-81), che mette per di più a frutto una ricerca di ambito europeo di respiro più che decennale e a cui ci permettiamo di rimandare, per non togliere ogni sorpresa ai lettori del nostro volume.
In che modo il cibo rappresentò un elemento identitario tra gli emigrati italiani in America?
Da decenni ormai si parla, almeno fra gli studiosi di scienze sociali d’oltreoceano, di “crespuscolo dell’etnicità”, di after identity e via discorrendo, a rimarcare le dinamiche complesse di quello che un tempo si definiva con sbrigativo ottimismo il melting pot. Ma al tempo stesso, proprio mentre si sottolinea il venir meno, almeno tendenziale, delle differenze, ecco tutta una serie di studi sul perdurare delle tradizioni folcloriche, sui tempi lunghi della cultura materiale, sul sedimentarsi dei patrimoni dell’immaginario. In questo contesto, vivissima è l’attenzione, almeno dagli anni Ottanta del secolo scorso, alle più varie forme della cultura del cibo. Qui, evidentemente, capovolgiamo la prospettiva dichiarata nel titolo del nostro volume, esaminando il cibo e le sue più diverse fenomenologie come tratto culturale, e non viceversa.
Che il cibo sia un segno, o un argine, identitario, di ogni cultura, non è neppure necessario dimostrare; che lo sia, e come lo sia, all’interno di esperienze di emigrazione – nel nostro caso in quella degli italiani trasferitisi negli Stati Uniti a partire dall’esodo postunitario di fine Ottocento – è invece un discorso che qui si cerca di abbozzare, sulla scorta soprattutto di testimonianze letterarie, cinematografiche, e di approfonditi studi come quelli del maggiore esperto del campo, Simone Cinotto. In fondo, basteranno due rapidi esempi d’autore: quello dei famigerati spaghetti meatballs fatti cucinare e possiamo dire “interpretare” alla madre da Martin Scorsese in uno dei suoi primi film, Italianamerican (1974); e il banchetto pantagruelico e bachtiniano che movimenta la parte finale del capolavoro di Pietro di Donato, Cristo fra i muratori (Christ in concrete, 1939). Nel primo caso, la semplice variante del piatto italiano per antonomasia ci parla di “una famiglia che mangia insieme”, e dunque del ruolo atavico della mater familias nel tinello e nella casa, osservata con amorevole attesa da marito e figli. E gli ingredienti – quell’aggiunta così spesso irrisa delle polpette – ci dice dell’orgoglio contadino per avercela fatta, e aver conquistato una dieta ricca di carne e proteine. Nel caso del romanzo, il luculliano banchetto nuziale a New York riproduce le impegnative imbandigioni del natio Abruzzo, ma diventa anche occasione per tutta una serie di esibizioni al limite dell’istrionico della propria identità originaria, persino con scivolate nazionaliste e colonialiste: del resto la scena si immagina svolgersi negli anni Trenta, all’apice del consenso, anche fra gli italoamericani, nei confronti dell’invasione italiana dell’Etiopia. Oggi, in un tempo, appunto, “post-etnico”, il cibo italiano, con lo sbarco di Eataly sulla Fifth Avenue, è invece da leggersi come segno del brand made in Italy – il riflesso, appunto, di un nuovo materialismo consumista che adotta il “segno italiano” come marchio di autenticità e di buon gusto – il risvolto “sensuale” della grande bellezza –, in una plateale sovrapposizione di fake e di (g)localistico.