
L’empatia è la nostra capacità di sentire e di essere attivati emotivamente dal mondo intorno a noi. Ovviamente la cosa che ci attiva di più sono gli altri soggetti, ma possiamo essere empatici anche con un paesaggio, con un dipinto o con un animale.
Io penso l’empatia come stratificata. Nel libro faccio l’esempio di una torta a più piani: i piani più in alto si fondano su quelli più in basso. Lo strato più basso e fondante è l’unipatia, che è una dimensione fusionale, nonché la premessa indispensabile perché un soggetto sviluppi capacità empatiche. Negli stati unipatici l’io non è ben definito e abbiamo difficoltà a distinguere le nostre emozioni da quelle degli altri. C’è unipatia nel rapporto fusionale tra madre e neonato, in alcune forme di ritualità collettiva in cui la soggettività si perde, ad esempio nella folla, ma anche in un rapporto sessuale gratificante e coinvolgente.
Gli strati successivi sono quelli in cui l’io e l’altro sono ben separati e quindi l’io è in grado di riconoscere l’altro, con le sue emozioni, senza fondersi con lui e senza essere contagiato e invaso dalla sua paura o dalla sua tristezza. A questo livello possiamo parlare di empatia emotiva: io sento la gioia altrui (ad esempio, di un amico che mi racconta di aver superato un esame), ma so che non è la mia gioia (posso essere contento per lui, ma questa gioia non coincide con quella che provo quando sono io stesso ad aver superato un esame!). Questo è uno strato molto importate perché è quello in cui emerge con chiarezza il potere cognitivo dell’empatia: sapere che l’altro soffre o è felice, sentirne la paura o la rabbia, è un sapere che abbiamo sul mondo intorno a noi, anche se è un sapere non concettualizzato, ma emotivo, con il quale non è sempre facile fare i conti.
Dopo l’empatia emotiva troviamo strati empatici connessi al sapere. Comprendere attraverso il racconto ciò che l’altro prova, immaginare il suo vissuto mettendosi nei suoi panni. Queste sono attivazioni emotive che presuppongono un sapere sul contesto in cui l’altro si trova.
Infine, ma siamo in una dimensione che già eccede la sola dimensione empatica anche se la presuppone, possiamo simpatizzare accogliendo e sostenendo l’altro. È importante distinguere tra capacità di sentire le emozioni altrui da un lato, e la capacità di accoglierle o rispondere ad esse con interesse e partecipazione. Non sono affatto la stessa cosa.
Come si manifesta l’empatia?
Siamo portati a pensare che l’empatia sia solo quella tristezza che ci prende alla bocca dello stomaco quando un amico ci racconta un evento triste che lo ha coinvolto oppure quando vediamo una scena strappalacrime in un film.
Ma in realtà siamo empatici anche quando le emozioni dell’altro ci spaventano o ci fanno innervosire. Per dirne una, persino il bullo che sa bene quanto il suo comportamento faccia soffrire la sua vittima, mette in campo una forma di empatia. E, pensando ai livelli più elevati e cognitivi, siamo empatici anche quando ci mettiamo nei panni di un altro per prevederne il comportamento o le scelte e trarne vantaggio.
Perché si può affermare che la connessione tra morale ed empatia sia falsa e semplicistica?
L’appello ad essere più empatici mi sembra assai simile a quello ad essere genericamente più buoni. Quando si dice che bisogna divenire empatici non si intende solo più capaci di comprendere le emozioni dell’altro, ma si intende capaci di reagire a queste emozioni in modo rispettoso e magari accogliente.
Io contesto nettamente l’idea che sia sufficiente sentire l’altro con le sue emozioni per trovarlo simpatico e amabile. In alcuni casi, al contrario, l’altro non ci piace, è antipatico o mi spaventa. Trovo che non ci sia nulla di sbagliato in questo. Il punto è che se un altro non mi piace, questo non mi autorizza a trattarlo male. Diciamo che l’empatia funziona come uno zoom che ci consente di guardare l’altro, di sentirne le emozioni e comprenderne le vicende, ma decidere come trattarlo non può essere solo una “faccenda empatica”.
Qual è la dinamica più profonda tra empatia e umanità?
L’empatia è una forma di conoscenza, ma una conoscenza non concettuale. Una specie di superpotere che ci consente di sentire e di capire molto al di là di ciò che è manifesto ed esplicito. Senza empatia non saremmo capaci di condividere le gioie e i dolori con gli altri, né di comprendere situazioni diverse dalla nostra, non saremmo capaci di appassionarci al teatro, al cinema o ai romanzi. Tutto sommato non saremmo capaci di comprendere gran parte del mondo che ci circonda.
È per questo che propongo una critica della ragione empatica: la ragione non deve elaborare solo il sapere che viene dai sensi e dall’intelletto come pensava Kant, ma deve fare i conti anche con il sapere empatico. Siamo umani in quanto capaci di agire in base alla ragione, ma la ragione non può essere separata dalla dimensione emotiva ed empatica.
Che nesso esiste tra empatia e crudeltà?
Per rispondere con un esempio, ci basta notare che il marchese De Sade era un tipo molto empatico. Ma a guardare la questione più da vicino, possiamo sostenere che alcune forme di crudeltà sono possibili solo perché siamo soggetti empatici. Lo psicologo Simon Baron-Cohen nel sostenere che la mancanza di empatia spiega la crudeltà umana, commette a mio avviso un grave errore: anche il nazista che obbliga un detenuto in un campo di concentramento a impiccare con le sue mani un amico che aveva cercato di fuggire, non manca di empatia. Al contrario, sceglie questa terribile forma di punizione esattamente perché sente il vissuto delle persone che ha davanti e sa che quella scelta aumenterà la loro sofferenza. Una persona incapace di sentire sarebbe stata anche incapace di ideare una così raffinata forma di crudeltà, che presuppone non solo la capacità di sentire le emozioni che sta provocando nell’altro, ma anche una sviluppatissima teoria della mente che gli consente di immaginare che obbligare un amico a divenire il carnefice dell’altro aumenterà in maniera esponenziale la drammaticità della punizione.
Ma i possibili esempi del nesso tra empatia e crudeltà sono tanti: dal vampirismo psichico al desiderio di controllo dell’altro.
Come si può diventare migliori conoscendo l’empatia, la sua forza e le sue strategie?
Pensando l’empatia come uno strumento cognitivo: dobbiamo imparare a guardare alle nostre emozioni e a quello che ci fanno conoscere. Senza empatia ci importerebbe poco o nulla degli altri perché non saremmo in grado di riconoscere emozioni, desideri e speranze in loro. Riconoscere l’altro passa però per una strategia egocentrica: sentire l’altro con le sue emozioni e i suoi vissuti e avvicinarlo a me. Sono le mie corde che risuonano quando sento l’altro.
Tuttavia la storia dell’umanità ci insegna che riconoscere l’uguale umanità dell’altro non appare un percorso completamente lineare e scontato, perché le differenze si insinuano proprio dove uno non se le aspetterebbe: il colore della pelle, la forma del cranio o del naso, l’altezza o la pinguedine. Nel caso del nazismo non siamo di fronte ad una carenza fisiologica o genetica (erosione empatica), ma piuttosto a una de-umanizzazione dell’altro. L’ebreo non è un essere umano come me: non sente come me, al contrario, è diverso, cattivo, trama contro di me. È verosimile che il tedesco medio durante il nazismo non abbia messo insieme tutti i pezzi di ciò che stava capitando agli ebrei o ai rom, e si sia accontentato della narrazione ideologica del regime, senza voler guardare e senza voler conoscere ciò che stava davvero accadendo. Così come è verosimile che oggi molti di quelli che sostengono la «chiusura dei porti» non sappiano e non vogliano sapere cosa accade nei campi in Libia o sui barconi. Se riusciamo a guardare alle vicende di una persona, allora si attiva l’empatia che – ancora una volta – avvicinando l’altro a noi stessi, gli restituisce tratti umani. Ma se questo nuovo sapere viene ampliato e generalizzato produce un doloroso conflitto in me: come posso vivere tranquillo, se so cosa accade al di là del mare a tante persone uguali a me? In questo caso, per evitare il conflitto, che produce disagio e malessere, la strategia più funzionale è concentrarsi sul singolo caso o accontentarsi di rappresentazioni grottesche dell’altro che aumentino le differenze (tipicamente: gli ebrei sono pericolosi, cattivi, diversi, deformi, oppure i migranti sono violenti, portano malattie, sono genericamente colpevoli del loro destino), che in realtà sono spesso strategie di rassicurazione personale.
Insomma si può parlare di una educazione all’empatia, ma in realtà è un’educazione alla ragione empatica: imparare a considerare le persone lontane e diverse da noi come portatori di fini e di speranze in prima persona, e a pensarle dunque come degne di rispetto. Se attraverso la vicenda di un singolo riusciamo a conoscere il punto di vista di persone diverse e lontane nello spazio e nel tempo, impariamo che hanno le stesse speranze e gli stessi desideri che sentiamo in prima persona, rendendole inevitabilmente più vicine e comprensibili. Dalla storia che mette al centro il bullismo omofobico, a quella che lavora contro il razzismo o la diversità in generale, ciò che emerge – mi pare – non è tanto un aumento dell’empatia, ma un suo impiego per veicolare un principio fondamentale, che però è frutto della ragione: l’uguaglianza nei diritti di tutti gli esseri umani, in quanto portatori di progetti e di fini. L’empatia diviene uno strumento cognitivo mediante il quale non ci limitiamo a sapere che l’altro ha i miei stessi diritti, ma riusciamo a sentire che quel determinato altro, ad esempio un omosessuale o un migrante, ha suoi fini e suoi desideri, proprio come me.
L’empatia, allora, non va intesa come una capacità che ci definisce come esseri morali, ma come uno zoom che consente di conoscere emotivamente un aspetto del mondo che ci circonda: sofferenze, gioie, paure, ma anche contesti nei quali l’altro agisce, attese che ne guidano le scelte.
Anna Donise insegna Filosofia morale all’Università di Napoli Federico II. Ha studiato in Germania (München, Heidelberg) e in Francia (Amiens, Parigi) e nel 2014 è stata Fellow presso l’Università di Bonn (Germania). Ha lavorato sulla filosofia tedesca, in particolare su neokantismo e fenomenologia, traducendo testi di Rickert, Husserl, Jaspers. Tra le sue pubblicazioni, oltre al recente Critica della ragione empatica. Fenomenologia dell’altruismo e della crudeltà (Bologna, 2019), si ricordano i volumi Le ragioni dell’agire morale (Napoli 2014) e Valore (Napoli 2008).