“«Cristo vale meno di un ballerino?». Danza e musica strumentale nel vissuto dei cristiani di età tardoantica” di Mario Resta

Dott. Mario Resta, Lei è autore del libro «Cristo vale meno di un ballerino?». Danza e musica strumentale nel vissuto dei cristiani di età tardoantica pubblicato da Edipuglia: quali erano i più diffusi spettacoli coreutico-musicali nella tarda antichità e quale funzione socio-culturale svolgevano?
«Cristo vale meno di un ballerino?». Danza e musica strumentale nel vissuto dei cristiani di età tardoantica, Mario RestaGli spettacoli coreutico-musicali molto popolari in età tardoantica erano il mimo e la pantomima, particolarmente diffusi nell’Africa Proconsolare, nell’area franco-spagnola, ma anche a Roma, Milano e nell’Asia Minore. Tali generi teatrali erano caratterizzati dalla rappresentazione coreutico-musicale di temi perlopiù mitologici e si differenziavano, seppur non nettamente, per alcuni aspetti: il pantomimo era in genere un solista che, accompagnato da musicisti e coristi, di volta in volta interpretava ruoli diversi con l’ausilio delle maschere; il mimo, che era solitamente coinvolto in troupe itineranti, rendeva in maniera parodica le vicende afferenti alla vita quotidiana ‒ in particolare agli adulteri ‒, alla mitologia greco-romana, all’ebraismo e al cristianesimo.

La pantomima e il mimo, al pari di altri spettacoli, svolgevano la funzione socio-culturale di strumenti mediatici della trasmissione e della conservazione della tradizione pagana nella cultura popolare tardoantica, poiché, scrive Alessandro Saggioro, «quello che noi chiamiamo “spettacolo” faceva parte di un rituale che coinvolgeva tutta la collettività» e riguardava anche il cittadino cristiano.

Quale rapporto avevano i cristiani con gli spettacoli coreutico-musicali?
A partire dal II-III secolo, gli spettacoli coreutico-musicali, al pari di altri, erano considerati idolatrici dagli autori cristiani, per via sia della loro origine sia dei soggetti interpretati, in quanto di argomento non solo anti-cristiano, parodiando per esempio il rito del battesimo, ma anche mitologico, tanto che, a distanza di secoli, sia Libanio sia Agostino, seppur da prospettive antitetiche, concordavano nel riconoscere alla rappresentazione coreutica delle divinità una funzione più incisiva per la salvaguardia e la diffusione della cultura pagana nella vita quotidiana.

La pantomima e il mimo erano, perciò, i principali strumenti mediatici (non cristianizzabili) della trasmissione e della conservazione della tradizione pagana nella cultura popolare tardoantica e, dunque, erano considerati come vere e proprie ‘armi’ per il dominio del demonio sugli uomini ‒ cristiani compresi ‒, spinti, dall’enfatizzazione scenica e coreutica, a prendere esempio per la propria vita dai modelli moralmente discutibili della mitologia greco-romana, interpretati dall’attore-ballerino, il quale, per mezzo della danza e della musica, rappresentava e ‘creava’ situazioni fittizie e, quindi, diaboliche, poiché ‘altre’ rispetto alla realtà creata da Dio.

La rappresentazione mimica e pantomimica, inoltre, ruotava intorno all’esibizione del corpo di attori-ballerini ambosessi, i quali, mediante posture e gesti coreutici musicalmente accompagnati, spesso esprimevano una sensualità e un’ambiguità tali da sollecitare reazioni, impulsi e passioni irrazionali in ogni spettatore, considerato, nella riflessione cristiana sul tema, non solo ‘schiavo’ delle passioni, ma anche corresponsabile dell’azione idolatrica, immorale e falsa compiuta dall’attore-ballerino.

Lo spettatore, infatti, veniva equiparato al ‘peccaminoso’ attore-ballerino sulla base di quanto affermato, per esempio, in Mt 5,28 («chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore»): era soprattutto questa concezione a segnare una vera e propria ‘svolta’ rispetto alla considerazione di netta separazione tra spettatore e teatrante, sancita dal pensiero greco-romano.

L’interpretazione di falsi e idolatrici soggetti pagani, la presenza fisica e la seduzione dei gesti, che, in una sconcia contraffazione, annullavano ogni identità personale e distinzione di genere degli attori-ballerini, erano tra i parametri fondamentali che costituivano gli spettacoli coreutico-musicali, attaccati e condannati dagli esponenti della gerarchia ecclesiastica, ma ai quali i cristiani non avevano intenzione di rinunciare, prendendovi parte pure attivamente.

Esistevano ballerini, musicisti e teatranti cristiani?
Prescrizioni, ammonimenti, divieti e condanne, sebbene nel tempo incrementati in numero e intensità, non erano riusciti a impedire la permanenza e la diffusione della danza e della musica strumentale neanche nella vita privata dei cristiani, alcuni dei quali svolgevano mestieri direttamente connessi con gli spettacoli coreutico-musicali.

È stata effettivamente provata l’esistenza di ballerini, musicisti e teatranti cristiani, che chiedevano di poter esercitare la loro professione ed essere, allo stesso tempo, parte della comunità cristiana e di accedere, addirittura, agli ordini sacri, ambendo persino a ricoprire posizioni apicali come l’episcopato: desiderata probabilmente motivati anche dall’attivo coinvolgimento di alcuni membri del clero ‒ vescovi compresi ‒ e dei loro figli negli spettacoli, ai quali gli uni e gli altri partecipavano non solo da spettatori .

Si trattava, ovviamente, di abitudini e condizioni di vita interdette ai cristiani dalle autorità ecclesiastiche, le cui prescrizioni, a dire il vero, non erano talvolta disattese, come dimostrano due casi risalenti al IV-V secolo: l’ex-mimo Cardamate, menzionato da Paolino di Nola e divenuto esorcista, e l’ex-teatrante africano Tuto, il quale, pur di entrare a far parte della comunità ecclesiale, rinunciò al proprio mestiere, nonostante la contrarietà delle autorità civili e dei suoi concittadini. Contrasti, a tal riguardo, potrebbero essersene verificati più di quanti ne attestano le fonti.

L’analisi integrata delle fonti, tuttavia, ha evidenziato più frequentemente la disobbedienza dei cristiani (laici e clerici) al divieto, espresso più volte nei testi letterari e normativi, di entrare o rimanere a far parte della comunità ecclesiale per chiunque svolgesse certi lavori, come chiaramente comprovato dalle iscrizioni funerarie, risalenti al IV-VI secolo e provenienti dalle catacombe romane, di soggetti maschili e femminili di fede cristiana e organici al mondo del teatro e della danza, al pari, per esempio, dell’archimimo Mascula, menzionato da Vittore di Vita in qualità addirittura di simbolo della resistenza cattolica alla persecuzione dell’ariano Genserico.

Le attestazioni epigrafiche di musicisti, danzatori, pantomimi e mimi ‒ come Vitale, sepolto nella basilica Apostolorum, le cui abilità teatrali e coreutiche sono decantate in una lunga iscrizione metrica ‒ provano quanto, in materia di spettacoli coreutico-musicali, fosse sicuramente profonda la discrasia tra il rigorismo teorico della gerarchia e la prassi di vita quotidiana dei cristiani, i quali resistevano tenacemente agli anatemi e alle richieste di abiura della professione teatrale e non rinunciavano alle pratiche coreutico-musicali neanche tra le loro mura domestiche e durante i banchetti.

Che ruolo svolgevano danza e musica durante i banchetti dei cristiani?
Canzoni passionali, certe espressioni musicali ‒ già condannate nella tradizione platonica ‒ danze e vino rimanevano elementi tipici dei contesti conviviali di alcuni cristiani, contravvenendo alle norme comportamentali, miranti, per esempio, alla morigeratezza ed ereditate dai canoni morali della filosofia platonica e stoica e imposte dalle prescrizioni ecclesiastiche, ma al fine di condannare, per converso, i costumi di vita pagana, come l’ascolto di musica stimolatrice di ubriachezza e di seduzione e la vista di danze languide.

L’assunzione degli antichi canoni morali non ha reso, tuttavia, l’etica cristiana una semplice appendice della morale pagana, essendosi dotata di caratteristiche ed elementi propri e originali: tali usitate abitudini conviviali, infatti, erano considerate come una minaccia innanzitutto per la fede, non solo per la dissolutezza e la lascivia tipiche di certe situazioni sociali, ma anche in quanto espressioni di quella fase estrema dell’antichità classica, che aveva le sue propaggini nel contesto storico e socio-culturale tardoantico, caratterizzato dal conflitto, consumato nella prassi di vita quotidiana, fra un cristianesimo in fieri e un paganesimo tutt’altro che in declino.

Un conflitto del tutto evidente, passando dal piano parenetico del discorso pastorale, che segnalava il ‘pericolo’ coreutico e ne esprimeva il divieto in modo accorato e vigoroso ma generico, a quello del dettato netto, preciso, inequivocabile della prescrizione canonica. Eppure, nonostante i tenaci tentativi della Chiesa di eliminare certe manifestazioni coreutico-musicali di ascendenza pagana dalla vita privata e dai contesti conviviali, per tutta la tarda antichità i cristiani hanno mantenuto sempre vivo il loro legame con la danza e la musica, facendovi ricorso anche per le pratiche cultuali svolte all’interno dei loro spazi sacri.

Quale ruolo svolgevano la danza e la musica negli spazi sacri dei cristiani?
Se la liturgia cristiana è ‒ scrive Diego Lanza ‒ «fondamentalmente mimetica e conviviale essa stessa, e soprattutto spettacolare in quanto pubblica», poiché ogni rito in qualunque società ha la funzione di essere osservato ed è, secondo Paul Veyne, «in qualche modo spettacolo», per quanto riguarda la prassi liturgica cristiana, viceversa, la danza non era ammessa ufficialmente dalla gerarchia ecclesiastica, in coerenza con le proibizioni riservate a qualsivoglia esibizione coreutico-musicale.

Ciononostante, per onorare e compiacere Dio e i suoi santi, i cristiani avevano continuato a danzare, poiché molti di essi provenivano dal politeismo, che includeva anche feste caratterizzate da variegate pratiche cultuali e coreutiche, piacevoli per gli uomini e, perciò, considerate gradite anche agli dèi. Una concezione che, mutatis mutandis, era conservata dai cristiani e tenuta in vita in età tardoantica, stando alle fonti letterarie e normative ecclesiastiche, attraverso pratiche pure coreutiche messe in atto nei pressi di spazi sacri come chiese e martyria.

Al di là delle prescrizioni, infatti, i cristiani avevano seguitato a esprimere la propria devozione nei riguardi dei defunti facendo ricorso non solo, come è noto, alla pratica del refrigerium, ma anche alle danze. Si tratta di consuetudini funerarie che, come è emerso, traevano origine del radicato convincimento di ascendenza pagana che non poneva un confine netto tra i vivi e i morti, con i quali pure i cristiani credevano di poter ‘interagire’ concretamente e direttamente, facendo a meno della mediazione ecclesiastica.

Nella tarda antichità i cristiani, perciò, erano talora soliti esprimere il desiderio di festeggiare una ricorrenza e di manifestare la propria devozione per i martiri anche per mezzo della danza, in quanto considerata a tutti gli effetti un’espressione liturgica ‒ sebbene non ufficialmente riconosciuta ‒, in maniera analoga a quanto ritenuto in altri sistemi religiosi. Le danze rituali, infatti, erano reputate un mezzo che creava non solo una concreta unità tra gli esecutori, ma ne spiritualizzava anche l’attività fisica, permettendo ad essi di trascendere, mediante l’uso del corpo, la propria condizione mondana, per stabilire una connessione con entità ‘altre’: un’esperienza ritenuta evidentemente facilitata nei pressi dei sepolcri dei santi.

Tali manifestazioni coreutiche, che avevano luogo sia in Oriente sia in Occidente spesso in concomitanza con il rito del refrigerium, erano giudicate negativamente dai rappresentanti della gerarchia ecclesiastica, non solo per la loro oscenità e l’evidente richiamo ai rituali pagani, ma anche perché rappresentavano, per dirla con Jean-Claude Schmitt, una pericolosa «appropriazione laica e selvaggia dello spazio sacro delle chiese e dei cimiteri».

Attraverso il ritmo dei corpi e dei piedi, che danzavano sul terreno ove erano collocate le tombe dei martiri, veniva stabilita una sorta di comunicazione diretta tra la realtà umana e quella ultramondana, prescindendo dalla mediazione della Chiesa e sfuggendo, così, al controllo della gerarchia ecclesiastica.

La messa in discussione del ruolo della Chiesa, quale unica e imprescindibile intermediaria con la realtà divina, aveva avuto, perciò, un peso notevole nella continua, sebbene variegata e differenziata, opposizione della gerarchia ecclesiastica nei riguardi delle danze compiute dai cristiani all’interno dello spazio sacro e in onore dei santi. Un’opposizione che sembrerebbe altresì rintracciabile nel Direttorio su Pietà popolare e Liturgia (17), da cui emerge l’estrema cautela che la Chiesa cattolica ancora oggi mostra nell’accettazione delle espressioni devozionali coreutiche, comunque persistenti nel ‘vissuto’ dei cristiani in molte parti del mondo, a testimonianza di un fenomeno radicalmente profondo che, come un ‘fiume carsico’, valica i confini dello spazio e del tempo, per ‘affiorare’ nelle odierne espressioni di pietà popolare, che ‒ come affermato da John J. Pilch ‒ «è una forza potente difficile da imbrigliare o da correggere, e in molti casi è essa che l’ha vinta».

Mario Resta, nato a Bari il 06/06/1987, dal 2018 PhD in Scienze dell’antichità e del tardoantico [XXX ciclo (Doctor Europaeus) – Università degli Studi di Bari Aldo Moro], PhD in Scienze storiche [XII ciclo (co-tutela) – Università degli Studi della Repubblica di San Marino] e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro per Storia del cristianesimo e delle chiese (M-STO/07) e Letteratura cristiana antica (L-FIL-LET/06); vincitore nel 2019 della Borsa di studio post dottorato “Raffaele Pettazzoni” dell’Accademia Nazionale dei Lincei per le ricerche nel campo della Storia delle Religioni; dal 2020 borsista della Fondazione Michele Pellegrino – Centro di studi di storia e letteratura religiosa (Università degli Studi di Torino) con un progetto di ricerca intitolato: «Da attori a martiri: i santi del teatro tardoantico».

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