“Criminologia minorile. Un approccio sostenibile” di Roberto Thomas e Fabiola Riccardini

Prof. Roberto Thomas, Lei è autore con Fabiola Riccardini del libro Criminologia minorile. Un approccio sostenibile edito da Giuffrè Francis Lefebvre: come si traduce il concetto di “sostenibilità” in tema di criminologia minorile?
Criminologia minorile. Un approccio sostenibile, Roberto Thomas, Fabiola RiccardiniLa criminologia è una disciplina multidisciplinare (a cui concorrono principalmente, oltre al diritto, la psicologia, la psichiatria, la medicina legale, la sociologia, la biologia, l’antropologia, la scienza dell’educazione, quella dei servizi sociali, la scienza delle comunicazioni, la politica, l’economia, la statistica) che studia le varie tipologie dei comportamenti di devianza e di reato, al fine della prevenzione di tali comportamenti e la rieducazione di coloro che li hanno commessi, oltre al ristoro psicologico, morale e affettivo delle vittime di siffatte azioni.

Il termine sostenibilità indica, etimologicamente, la possibilità di un’attività di essere sostenuta adeguatamente e in maniera durevole in ogni campo dell’umanità, da quello economico, sociale, ambientale a quello culturale.

La fortuna e la grandissima diffusione del termine prende le mossa dalla definizione di sviluppo sostenibile, data nel rapporto della Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo nel 1987, presieduta da Gro Harlem Brundtland, che rilevava che lo sviluppo sostenibile è quello che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i loro, e ciò non solo in termini economici, ma anche in relazione ai diritti fondamentali di libertà e dignità umana e dell’uguaglianza delle opportunità

Da tale definizione emerge prioritario un giusto concetto di solidarietà fra le generazioni, a difesa di una società coesa in cui sussiste uno sviluppo sostenibile, che però non deve debordare a discapito della solidarietà nei confronti degli individui più bisognosi.

Per la criminologia minorile, come per quella generale, la sua sostenibilità – trattandosi di una materia che attiene allo studio dei fenomeni di devianza e criminali – si rifà al concetto di una disciplina che deve, da un lato, sostenere una cultura di prevenzione e di recupero dalla devianza e dalla criminalità, a tutela non solo del presente ma anche delle generazioni future, costituendo la piattaforma di serie proposte di riforme legislative e delle loro politiche attuative e, dall’altro, in una circolarità virtuosa, essere sostenuta da politiche adeguate e durature sociali (in particolare sulla famiglia e sulla scuola), ambientali (oltre che sulla tutela dell’ambiente in senso stretto, anche politiche sulla maggiore sicurezza pubblica dei cittadini all’interno delle città), economiche (in particolare sull’incremento dei posti di lavoro precipuamente per i giovani) e giudiziarie (specialmente sulla rieducazione e la prevenzione criminale).

Invero lo studio delle cause di un singolo fenomeno criminale è la necessaria premessa per un concetto moderno e multidisciplinare della criminologia, che necessariamente si deve allargare a costituire sia una stampella importante per una maggiore sicurezza pubblica, che, altresì, un fondamentale progetto educativo e rieducativo integrato di prevenzione criminale, in particolare per i nostri giovani attuali e per quelli futuri.

Quali sono le principali cause della criminalità minorile?
Tradizionalmente due sono stati i filoni interpretativi della causa della criminalità minorile: l’uno legato all’aspetto bio-psicologico del minore (disagio del temperamento e del carattere, disturbo psichico ecc.), l’altro di natura sociologica (l’ambiente degradato familiare e sociale, le “cattive compagnie” ecc.).

Più recentemente sono state sviluppate teorie multifattoriali (che si riferiscono sempre ai due filoni principali precitati) che sembrano maggiormente idonee a spiegare la devianza-criminalità minorile, facendo riferimento ai rapporti educativi familiari, a quelli scolastici, alle relazione fra “pari “e con la comunità di riferimento, e all’utilizzo di strumenti invasivi della personalità (droga, alcol, abuso dell’utilizzazione di sistemi informatici ecc.).

A questo punto mi sembra importante osservare come alle tradizionali e numerose cause studiate in criminologia, che motivano la devianza e il delitto minorile, occorre, a mio parere, aggiungerne una relativamente nuova, e cioè l’uso invasivo e trasgressivo del computer da parte degli adolescenti – che definirei “la sindrome da dark (in italiano: oscuro) computer” – il quale, mediante la connessione dei minorenni con dei pericolosissimi siti della black list (cioè la lista nera che comprende quelli pedopornografici, i siti del traffico di droga, quelli della prostituzione, i siti delle associazioni mafiose, quelli terroristici ecc.) popola il dark web (cioè la rete oscura), suscitando nelle menti fragili, in particolare in quelle dei soggetti minorenni, un forte potere morbosamente attrattivo ed emulativo dei fenomeni devianti e criminali, costituendo, pertanto, una vera e propria sottocultura criminale minorile.

Che si tratti di emulazione non è certo una novità, se si pensa alla teoria di Albert Bandura degli anni ‘sessanta dello scorso secolo, che l’aveva teorizzata in rapporto all’imitazione negativa derivante dalla visione di film con inquietanti e morbosi racconti di scene del delitto, e dalle informazioni criminali fornite dalla televisione.

Ma la differenza fondamentale, di natura sostanziale con quel tipo di imitazione – basata solo su una ricezione meramente passiva degli strumenti analogici precitati da parte dell’utente – è che l’emulazione digitale deviante e criminale, data l’assoluta interattività per il fruitore, che può liberamente chattare in maniera attiva sui social, è stimolata e rafforzata inquietantemente proprio da un mondo globale di soggetti che navigano in rete (i cosiddetti internauti), venendosi così a creare, con un’operazione “a cascata”, l’effetto estremamente negativo di una emulazione molto più forte e più pericolosa, perché diffusa globalmente, propria della sindrome del dark computer, e quindi di natura sostanzialmente diversa da quella meramente passiva e “solitaria” – e quindi ben più debole – indotta dai tradizionali mass media analogici.

Di più, però, si deve osservare che lo strumento digitale in molti casi, non costituisce solamente un mezzo al fine del rafforzamento del potere emulativo dei contenuti relativi alla criminalità dei media tradizionali, mediante la comunicazione interattiva con siti criminali di forte impatto trasgressivo, bensì, realizza la causa principale, e non più soltanto un mezzo, che cagiona il comportamento criminale, divenendo di per sé il “chatto formatore” (cioè l’informatore delle chat- termine inglese che significa conversazione) di gravi ipotesi di reato per i minori “chatto formati” (cioè i minori che vengono informati dalle predette conversazioni a carattere criminale), quali, ad esempio, le devianze, che spesso travalicano nella commissione di reati, concernenti il cyberbullismo, e quelle preparatorie dei gravissimi delitti collegati al terrorismo, tanto per citare solo taluni esempi.

Invero la facilità della disponibilità dell’uso della rete, la sua immediatezza informativa con la condivisione come termometro di consenso, unita soprattutto al presunto anonimato del suo accesso, può condurre ad attenuare sensibilmente i freni inibitori di natura psicologica che scattano al momento del contatto reale con l’altra persona: nella realtà virtuale tutto è concesso senza paura dello sguardo, della critica e della denuncia dell’interlocutore della vita reale !

Ciò conduce a potenziali fenomeni di violenza psicologica commessa dal minore – anche quello generalmente ritenuto normale – direttamente con il bullismo informatico per una sperimentazione di curiosità-morbosità che sicuramente non gli passerebbe per la mente, se non fosse provvisto di un così potente strumento digitale, che esclusivamente gli può permettere il cosiddetto cyberbullismo.

Molto più grave è poi il fenomeno dell’aggregazione in rete di minorenni da parte di gruppi terroristici, quale, ad esempio, l’Isis, reclutati sui social e quindi organizzati militarmente a commettere vili attentati contro gruppi casuali di gente inerme con l’utilizzazione esclusiva dei social on line.

Qui è assolutamente evidente come la causa prevalente dei gravissimi reati commessi (strage, omicidio, lesioni personali gravissime, sequestro di persona e riduzione in schiavitù ecc.) è l’uso esclusivo dello strumento informatico che, come si è già detto sopra, non è soltanto un mezzo di facilitazione alla comunicazione di un’idea deviante-criminale sorta già precedentemente nella mente dell’adolescente, ma un vero e proprio “chatto formatore”, cioè il creatore di questa inquietante idea. In altri termini è esclusivamente il computer l’ideatore e l’organizzatore che porta alla commissione di attentati terroristici, che causano gli atroci crimini commessi da gruppi di minori, inquadrati militarmente, o da bambini isolati che indossano i cinturoni contenenti esplosivo con cui si fanno saltare in aria, cagionando terribili stragi di innocenti.

Qui è il perno principale della mia teoria della sindrome da dark computer della devianza-criminalità minorile, che si allarga poi alla induzione di una vera e propria sottocultura informatica criminale, facilitata dalla realizzazione della “disumanità” della rete, ulteriore causa scatenante- costituita da una forma multipla di interazioni simboliche virtuali “chatto-web- formate” – a cui, talora, si possono collegare strettamente altri fattori di origine psicologica (mancanze affettive derivanti dalla famiglia di origine, depressione, disgregazione mentale da uso di stupefacenti o di alcol) e sociale (mancata integrazione scolastica, conflitti culturali ecc.) – ma che certamente, a mio parere, rimane il fattore prevalente della devianza-criminalità minorile.

L’unico rimedio possibile per reagire a questa nuova inquietante sottocultura criminale informatica – visto che esiste, attualmente, una grave difficoltà di controlli e filtri comunicativi gestiti dall’esterno sul sistema informatico generale- consiste in un recupero necessario dei “filtri” individuali (e quindi interni) inerenti strettamente alle coscienze dei soggetti che utilizzano internet, rimessi in piedi da una nuova e seria educazione familiare, scolastica e della comunità educante, che permetteranno nuovamente di costruire un argine più sicuro contro le infiltrazioni informatiche negative, mediante l’introiezione dei valori morali e sociali nella primissima infanzia, che devono essere comunicati dai genitori e dalla scuola, perché i piccoli possano essere preparati idealmente ad affrontare il pericoloso e spesso incontrollato uso del computer con razionalità e senso di responsabilità.

Qual è l’incidenza nel nostro Paese dei reati commessi da minorenni?
In Italia nel 2017, secondo l’Istat, vi sono stati 32.549 minorenni denunziati per reato, a fronte di 878.632 adulti, con una percentuale del 3,7% di questi ultimi, con una diminuzione di circa 2000 unità rispetto al 2016 (34.364 in confronto a 893.715 adulti).

In particolare il predetto numero di minorenni denunziati per reato nel 2017 (32549) è pari all’1,1% del totale di tutti i minorenni residenti in Italia fra i 14 e i 18 anni nello stesso periodo (cioè 2.878.978) ed è il più basso di tutti i Paesi dell’Unione Europea, (l’Inghilterra lo triplica con la percentuale del 3,3%, la Francia ne ha un numero quattro volte superiore, con il 4,3% e la Germania ben otto volte, con la percentuale dell’8,2%).

Il nostro Paese conferma, pertanto, una tendenza alla diminuzione della criminalità minorile già presente in passato.

Quali politiche sociali, economiche e giuridiche possono sostenere una cultura della prevenzione?
Legiferare in materia di minorenni è sempre una questione assai delicata, in quanto esso è soggetto a prevenire e seguire i mutamenti sociologici dell’evoluzione fluida delle realtà giovanili. Così il fenomeno dell’emigrazione di massa di tanti minori stranieri, al fine della loro serena inclusione nel nostro tessuto sociale, ha indotto, giustamente, alla emanazione della legge 7 aprile 2017 n. 47, che riconfermando il divieto di respingimento dalla nostra frontiera dei predetti, li ha completamente equiparati al trattamento giuridico generale degli italiani, prevedendo, rettamente, un sistema generale di accoglienza e di integrazione nelle nostre comunità, attraverso l’istruzione e, in futuro, una nuova legge “più aperta” per la concessione della cittadinanza: ciò che realizza un chiaro esempio di solidarietà sostenibile.

Nel campo delle politiche generali di prevenzione della devianza-criminalità minorile si deve citare il nuovo modello familiare, uscito dal decreto legislativo 28 dicembre 2013 n. 154, in materia di filiazione, che ha imposto giustamente l’obbligo dell’assistenza morale dei genitori rispetto ai loro figli, che si aggiunge a quelli costituzionali del mantenimento, dell’educazione e dell’istruzione.

Per quanto concerne la scuola si deve rilevare l’emanazione della legge 13 luglio 2015 n. 107 (“sulla buona scuola”) che, nel punto 7, ha determinato, correttamente, i principali obiettivi formativi prioritari, attuati dai successivi decreti legislativi e, da ultimo, dalla legge 20 agosto 2019, n. 92 sulla tematica fondamentale dell’educazione civica, ampliata giustamente all’educazione alla legalità, a quella digitale e ambientale e alla cittadinanza attiva, che entrerà concretamente in vigore con il prossimo anno scolastico.

Questo quadro, sicuramente positivo, dell’evoluzione normativa, non è però ancora sufficiente a garantire una rete di protezione solida per i giovani. A mio parere, infatti, come ho ampiamente motivato nel mio libro, si dovrebbe prevedere una legge che preveda un abbassamento dell’età imputabile a 12 anni, almeno per i reati di più grave allarme sociale. Inoltre auspico una nuova legislazione in materia di droga che preveda la liberalizzazione dell’uso di quella leggera per i maggiori di 16 anni, come ho approfondito nel capitolo 9 del mio volume. Ancora mi pare assai importante una politica che implementi, destinando adeguati fondi, il numero e la formazione degli assistenti sociali e quello delle case famiglia di accoglienza. Auspico, altresì, l’introduzione del reato di bullismo, non essendo sufficiente, a mio parere, la previsione della sola sanzione amministrativa.

Nel campo del funzionamento del tribunale per i minorenni, a mio parere, si dovrebbero prospettare delle importanti riforme legislative strutturali che passano da una configurazione decentrata di una sezione specializzata nella famiglia a livello territoriale del singolo tribunale — invece dell’attuale autonomia dei tribunali per i minori, concentrati esclusivamente nelle 26 sedi di Corte d’appello italiane — alla riduzione numerica del collegio giudicante (un togato presidente — invece degli attuali due togati — più due giudici onorari-esperti) e all’istituzione di un pubblico ministero minorile onorario-esperto (vice procuratore minorile onorario) da affiancare a quello di carriera.

Le precitate riforme specifiche devono essere “sostenibili”, in quanto sostenute dalla “cornice” delle politiche generali di prevenzione della devianza-criminalità minorile, che fanno perno sulla rete della famiglia, della scuola e della comunità educante, che costituiscono il trinomio fondamentale dell’educazione dei giovani alla convivenza democratica e solidale.

Inoltre deve osservarsi che l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), nel settembre del 2015, ha stabilito diciassette obiettivi prioritari da perseguire nei prossimi quindici anni nelle singole politiche degli Stati Membri (cosiddetta Agenda ONU 2030), fra i quali emergono, per la loro specifica rilevanza, quello della priorità di una adeguata istruzione-educazione, quello dell’eliminazione della povertà e quello di dare un lavoro dignitoso soprattutto ai giovani. Per quanto concerne il primo, si rinvia a quanto già detto prima in tema della reintroduzione della educazione civica in maniera ampliata. Invero l’intervento della scuola — e di tutte le altre strutture educative – è sicuramente prioritario per una educazione alla legalità e alla cittadinanza attiva dei nostri giovani, costituendo il nerbo di una formazione alla solidarietà concreta verso il più debole, e al rispetto dei diritti umani inviolabili, come sancito solennemente dallo articolo 2 della Costituzione, e conseguentemente, in particolare, veicolo di una seria e concreta prevenzione dalla devianza-criminalità dei minori.

Per ciò che concerne la povertà economica — causa di molti reati contro il patrimonio da parte dei minorenni, prevalente nel passato in periodi di guerra o di grave crisi economica -, soprattutto di quella familiare, che costituisce sicuramente la primissima fonte educativa, si devono segnalare, in Italia, varie politiche proposte per combatterla, almeno parzialmente, dal punto di vista economico e sociale. In particolare si dovrebbe, a mio parere, approvare una legge sul cosiddetto quoziente familiare – su cui sono state presentate varie proposte di legge (da ultimo, il disegno di legge presentato dai senatori Zeller, Berger e Fravezzi il 15 marzo 2013 – al fine di riconoscere un giusto sollievo economico alle famiglie più numerose. Di più la recente approvazione della legge 28 marzo 2019 n. 26 sul reddito di cittadinanza attua, in linea di principio — ove non si riduca ad un semplice aiuto economico per chi non ha un lavoro (costituendo un pericoloso incentivo a non lavorare o a farlo “in nero” per i vari “furbetti”) — una più giusta ridistribuzione delle ricchezze. Recentemente sono state approvate, col cosiddetto decreto famiglia, deliberato dal Consiglio dei Ministri del 20 maggio 2019, delle sovvenzioni economiche atte a sviluppare maggiormente la natalità (ad esempio con il bonus bebè di 160 euro mensili per la nascita di un bambino in una famiglia con reddito ISEE non superiore ai 7000 euro annuali) che, in Italia è sempre di più in diminuzione.

Per quanto concerne il terzo obiettivo precitato indicato dalle Nazioni Unite, appare utile proseguire, con un miglioramento del decreto legislativo n. 81 del 2015, sulla riforma dell’organizzazione del lavoro in Italia (cosiddetto “jobs act”), una nuova politica sul lavoro idonea a garantire ad ogni persona, soprattutto ai giovani, un onesto e dignitoso impiego: ciò che costituisce sicuramente una barriera importante alla devianza e alla prevenzione dalla deriva criminale in generale. Inoltre mi pare assai utile, in questo campo, l’intervento della scuola per la preparazione concreta degli studenti alla futura attività lavorativa, con l’attuazione del precitato comma 33 della legge n. 107 del 2015 sulla Buona Scuola, di un certo numero di ore scolastiche annuali da effettuarsi in tirocinio presso un’azienda esterna con multiformi finalità.

Quali interventi psicologici di supporto devono accompagnare la detenzione penitenziaria minorile?
Il recupero rieducativo dei minorenni che hanno infranto la legge penale è previsto obbligatoriamente dall’articolo 27, terzo comma della Costituzione, in generale, e quindi anche per gli adulti, (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.“)

È da sottolineare che, per i minori, la detenzione carceraria (sia nella forma della custodia cautelare ex art. 23 D.P.R. n. 448 del 1988, che in quella esecutiva di una pena definitiva da scontare) deve costituire una “extrema ratio”- correlata al principio della minima offensività della pena irrogata, da cui deriva la definizione di giustizia “mite” – limitata ai reati più gravi di maggior allarme sociale, che sono indici di elevata pericolosità del suo autore, che non permettono di attuare delle misure alternative, quali le prescrizioni (art. 20 D.P.R. n. 448 del 1988), la permanenza in casa (art. 21 D.P.R. n. 448 del 1988), misura simile sostanzialmente agli arresti domiciliari e il collocamento in comunità (art. 22 D.P.R. n.448 del 1988), e tutte le misure di comunità, previste nel nuovo ordinamento penitenziario minorile, entrato in vigore con il Decreto Legislativo 2 ottobre 2018 n.121.

Invero sono note le ricadute negative del carcere nel senso di costituire una “scuola del crimine” per i minori più giovani, detenuti per la prima volta, valutato il loro necessario contatto con i carcerati più anziani (attualmente fino ai venticinque anni per il riconoscimento di un principio di una età minorile “ampliata” ai sensi della legge 11 agosto 2014 n. 117), che possono costituire per loro dei “cattivi maestri”, avviandoli ad una vera e propria carriera criminale, fatta di successive recidive di reati sempre più gravi.

Il problema delle “educazioni criminali” era stato già evidenziato da Cesare Lombroso, il padre dell’antropologia criminale, antesignana della moderna criminologia nella V edizione del 1897 del suo famoso libro “L’uomo delinquente”.

Ciò in quanto, sotto il profilo psicologico – il minore detenuto, a causa delle cattive e distorsive influenze dell’ambiente carcerario, rischia di perdere la propria identità, come guardandosi in uno specchio infranto, ricevendo un’immagine di sfiducia e disprezzo sul suo modo di essere, e quindi assumendo sempre più un comportamento di delinquente irrecuperabile.

Per controbattere questa pericolosa tendenza la precitata legge sul nuovo Ordinamento penitenziario minorile predispone interventi personalizzati di sostegno psicologico, con la collaborazione sia della famiglia del detenuto che ha ampi margini di visita al predetto, che dalla équipe psico-sociale interna al singolo carcere in sinergia con una finalmente riconosciuta attività di supporto del volontariato, che rappresenta per il giovane detenuto un ponte essenziale con il mondo esterno. Tutto ciò per favorire la responsabilizzazione, l’educazione, il pieno sviluppo psico-fisico, la preparazione alla vita libera, l’inclusione sociale, atti a prevenire la commissione reati, finalità richieste espressamente nella normativa di riforma.

Su quali basi è dunque possibile pensare una teoria criminologica rieducativa capace di prevenire la recidiva?
Sicuramente è difficile identificare una teoria criminologica minorile unica che valga ugualmente per tutti i minori al fine di prevenire una eventuale loro recidiva, valutata la diversità caratteriale e ambientale di ciascun ragazzo, che richiede un progetto di recupero assolutamente personalizzato.

Quindi si tratterà di valutare, caso per caso, ipotesi concrete micro-criminologiche di recupero basate sui tre fattori fondamentali, già citati in precedenza, costituiti dagli interventi della famiglia, della scuola e della comunità “educante” per i minori che abbiano già commesso un reato ma non sia mai entrati in contatto con il sistema carcerario, essendo rimasti sempre in stato di libertà.

Per quelli in stato di detenzione si richiamano i principi enunciati nella risposta precedente riguardo ad un progetto formativo, sempre personalizzato, da attuarsi nell’ambito carcerario.

In particolare si deve rilevare che la rieducazione carceraria, anche se attuata correttamente, può ottenere un risultato positivo fino all’uscita del minore dall’IPM (Istituto Penale Minorile), nel senso che, con la riottenuta libertà, si pongono per l’adolescente due gravi ostacoli al mantenimento dei buoni propositi maturati durante la detenzione, spesso insuperabili.

Soprattutto per coloro che non hanno alle spalle una famiglia che possa riaccoglierli e sostenerli adeguatamente, nel continuare il loro processo di recupero, sussiste, da un lato, il richiamo delle sirene delle cattive compagnie già frequentate in precedenza (si pensi al caso dei tossicodipendenti spacciatori) ; dall’altro vi è il problema del rifiuto di un ambiente sociale che ha ormai etichettato come criminale il minore ex detenuto.

Insomma si avverte in questo passaggio fra la detenzione e la libertà un distacco che, data la nota fragilità, imprevedibilità e instabilità della sua fluida età evolutiva, dovrebbe essere adeguatamente monitorato dalle istituzioni pubbliche in sostegno delle risorse della famiglia (talora scarse anche quando essa sia presente).

A tal fine si dovrebbe riprodurre lo schema proprio della sindrome del palombaro che, riemergendo dopo una lunga immersione nell’acqua, viene decompresso per un po’ di tempo nella camera iperbarica, prima di tornare alla sua autonoma e libera respirazione normale. Così il minore, all’uscita dalla sua “immersione” carceraria, prima di tornare ad una vita di piena libertà, dovrebbe obbligatoriamente, per un periodo transitorio ben definito per legge, rapportato, per lunghezza, alla gravità del reato commesso, essere inserito in una comunità educativa aperta, per rinforzare ulteriormente i suoi buoni intendimenti ed essere così pronto a tornare in un circuito di vita normale, con maggiori possibilità di evitare ricadute nel reato.

In alcuni casi (quelli caratterizzati da una particolare gravità del reato commesso) si dovrebbe ipotizzare l’obbligo di allontanamento dalla regione di residenza e la transitoria sistemazione in case famiglia posizionate a notevole distanza dal luogo del suo domicilio, che prevedono un sicuro collegamento con una attività lavorativa onesta, con la garanzia, anche economica, dell’ente pubblico territoriale di riferimento per siffatta attività, che ha il dovere di forgiare un contesto sociale che non si presenti al reinserito come l’ennesimo muro d’abbattere, in quanto la sua ghettizzazione renderebbe vano ogni sforzo di recupero, spingendolo inevitabilmente verso l’unica fonte di “sostentamento” da lui conosciuta, e cioè il crimine.

Invero in un contesto distante geograficamente da quello originario il soggetto uscito dal carcere, da un lato, potrebbe evitare, non essendo riconoscibile, gli “etichettamenti “sociali, dall’altro, avrebbe sicuramente maggiori difficoltà per un ipotetico reinserimento all’interno del contesto criminale di provenienza.

In pratica si vedrebbe privato di agganci pericolosi con i “vecchi” luoghi e le “antiche” abitudini, e dovrebbe comunque “ripartire da capo”, vincendo la paura di iniziare una vita “nuova”, che è uno dei motivi per cui si preferisce ricominciare con la “vecchia vita ”. La “paura” è per definizione incontrollabile, quando la si prova non si è in grado di tenere le redini del proprio comportamento. Allora serve un soggetto estraneo a farla vincere in un percorso così delicato: il reinserimento deve essere gestito dallo Stato in tutti gli snodi più importanti. Quando ciò non si verifichi, per l’assenza colpevole delle istituzioni, si manifestano paura e pregiudizio !

Roberto Thomas, Magistrato Minorile per 37 anni, ha scritto 12 libri in tema di diritto di famiglia e minori e circa duecento articoli in varie riviste sullo stesso tema. In particolare, ha scritto 3 manuali in criminologia minorile: Criminologia Minorile (2014, Il Pensiero Giuridico), Manuale di Criminologia Minorile (2016, Il Pensiero Giuridico), e Criminologia Minorile. Un approccio sostenibile (2020, Giuffrè Francis Lefebvre). Docente di vari Master in criminologia e scienze forensi presso Sapienza – Università di Roma, è attualmente direttore del corso di perfezionamento in criminologia minorile e psicologia sociale presso LUMSA-Università di Roma.

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link