
Nella sostanza questa teoria sostiene che i mercati incorporino un meccanismo dei prezzi, fondato sull’equilibrio tra domanda e offerta, in grado di assicurare sempre il pieno utilizzo delle risorse produttive, il lavoro e il capitale (le macchine): abbondanza di lavoratori e scarsità di capitale comportano salari bassi e tassi d’interesse alti, che inducono le imprese a preferire il lavoro al capitale; nel caso opposto (molto capitale e poco lavoro) l’aggiustamento del mercato comporta bassi tassi d’interesse e alti salari, che inducono gli imprenditori a scegliere tecniche più intensive di capitale. In questo modo il mercato è sempre in grado di assicurare la piena occupazione dei fattori produttivi (capitale e lavoro).
Pur restando nello stesso ambito concettuale, un gruppo di economisti, etichettati come nuovi keynesiani, tra cui primeggia Joseph Stiglitz (premio Nobel nel 2001), rileva che i mercati reali sono caratterizzati da imperfezioni (soprattutto di natura informativa), che frappongono nel breve periodo degli ostacoli al precedente meccanismo regolatore. La convergenza verso la piena occupazione potrebbe richiedere molto tempo, comportando nel transitorio la disoccupazione delle risorse. I governi dovrebbero allora intervenire per rimuovere gli ostacoli con adeguate politiche economiche, allo scopo di evitare che la crescita sia frenata da uno stato di isteresi.
Con Laura Abrardi abbiamo ritenuto che questa teoria economica non si presti a compiere un’analisi del processo storico di sviluppo del sistema capitalista. In questo senso abbiamo definito astorica la teoria neoclassica. Non intendevamo però descrivere l’evoluzione del capitalismo secondo l’ottica dello storico, ma secondo quella dell’economista, che predilige una stilizzazione astratta delle fasi della nascita e delle successive trasformazioni del sistema capitalista.
Per affrontare il tema abbiamo ritenuto più utile riproporre la teoria classica di David Ricardo e di Karl Marx, rivisitata e perfezionata mediante l’analisi di Piero Sraffa (medaglia Söderström nel 1961 della Royal Swedish Academy of Sciences, l’equivalente del premio Nobel per l’Economia, istituito nel 1969) e Wassily Leontief (premio Nobel nel 1973).
Questa interpretazione del funzionamento di lungo periodo dell’economia capitalista consente di descrivere le interdipendenze tra i diversi settori produttivi in regime di libera concorrenza, definendo le condizioni necessarie per assicurare un equilibrio basato non sui prezzi di mercato, ma sui prezzi di produzione di lungo periodo, atti a garantire un saggio di profitto uniforme in tutti i settori produttivi: saggi di profitto differenti indurrebbero un trasferimento dei capitali dai settori meno profittevoli verso quelli più redditizi, livellando di conseguenza tutti i rendimenti per unità di capitale investito.
Utilizzando questo modello e riducendolo al minimo necessario (industria e agricoltura) per semplificare l’esposizione, siamo partiti dall’equilibrio di una società precapitalista, che assicura semplicemente la sussistenza dei lavoratori esistenti, senza quindi realizzare un surplus di produzione: lo stato stazionario, secondo la dizione degli economisti classici.
Abbiamo poi strutturato l’evoluzione del capitalismo in sette fasi: tre fasi per la sua genesi e quattro fasi per la sua successiva espansione.
La genesi è stata caratterizzata dalla formazione di un surplus di produzione (un sovrappiù rispetto alla quantità necessaria a mantenere il sistema economico nella sua situazione precapitalista), potenzialmente destinato ad accrescere le dimensioni dell’economia. Inizialmente però (nell’epoca signorile e mercantile), seguendo i suggerimenti di Adam Smith, il surplus è stato essenzialmente prelevato dal sovrano e dal suo apparato gerarchico, dapprima per finanziare le guerre e mantenere una corte dispendiosa (prima fase) e poi per ampliare i propri consumi voluttuari (seconda fase).
Solo nella terza fase lo sviluppo delle imprese commerciali e finanziarie, già avviato nei secoli precedenti, si manifesta come Rivoluzione industriale nell’ultimo quarto di secolo del Settecento, per effetto di una possente crescita della produttività, indotta dalla divisione del lavoro (su cui insiste Adam Smith nella sua Indagine sulla ricchezza delle Nazioni). Questo evento consente di destinare gran parte dei profitti all’accumulazione di capitale e avviare così il processo di crescita del sistema economico.
Superato il periodo di genesi, l’evoluzione successiva del capitalismo è stata classificata in due parti, facendo riferimento all’introduzione nei processi produttivi di due differenti tipologie di capitale, che – secondo il suggerimento di Brynjolfsson e McAfee – hanno originato la prima e la seconda era delle macchine.
La prima era si può identificare con la meccanica, che caratterizza la produzione dell’Ottocento e di gran parte del Novecento. In questo periodo le macchine collaborano con l’uomo, ne elevano fortemente la produttività e riducono l’affaticamento, espellendo dalle fabbriche l’eccesso di forza lavoro. Il progresso tecnico incorporato nei macchinari accentua nel tempo questa sostituzione del lavoro con il capitale, inducendo a temere l’avvento di un’endemica disoccupazione tecnologica.
Contemporaneamente però aumentano i profitti dei capitalisti (termine che semplicemente identifica i proprietari del capitale): il reinvestimento dei profitti accelera la crescita della produzione, comportando l’acquisizione di nuovi lavoratori per realizzarla. È la quarta fase del capitalismo, quella osservata da David Ricardo e Karl Marx, entrambi pessimisti riguardo ai destini del capitalismo, anche se per motivazioni differenti.
In realtà la forte crescita del sistema assorbe in gran parte la disoccupazione e l’aumento del surplus contrappone i capitalisti ai lavoratori per la sua ripartizione: è la quinta fase del capitalismo. Il conflitto per la distribuzione si risolve a vantaggio dei primi fino agli anni Cinquanta del Novecento, ma nella seconda metà del secolo l’accelerata crescita e l’aumento dell’occupazione rafforza il potere contrattuale dei lavoratori, invertendo le sorti. Forse è l’unico periodo della storia del capitalismo in cui si verifica questo capovolgimento dei rapporti di forza, determinando un forte aumento della quota dei salari in rapporto al reddito nazionale: il benessere si diffonde tra i lavoratori e i profitti si ridimensionano, riducendo il tasso di crescita dell’economia.
Questo processo è favorito anche da una esplosione dei consumi, indotta dalle migliorate condizioni economiche dei lavoratori, e in particolare dei servizi, che contemporaneamente consentono di assorbire i lavoratori espulsi dall’industria, ormai fortemente meccanizzata: quella del consumismo di beni e servizi può essere considerata una sesta fase del capitalismo, che convive con l’avvio della seconda era delle macchine, la quale può identificarsi con l’elettronica e l’informatica.
Giungiamo così infine alla settima fase del capitalismo, che possiamo far coincidere con il secolo XXI, in cui le nuove tecnologie (macchine automatiche e intelligenti e reti digitali) dominano esponenzialmente la produzione, dapprima nell’industria e poi nei servizi.
Riguardo a questo periodo abbiamo contemplato una fase transitoria (quella attuale in cui stiamo vivendo) e una fase finale verso cui stiamo convergendo. Il transitorio presenta vantaggi e rischi, ma lo scenario finale comporta problemi veramente paradossali.
Qual è stato l’impatto delle tecnologie digitali sull’economia e quale sarà l’evoluzione successiva?
Le componenti delle tecnologie digitali, che caratterizzano la seconda era delle macchine, sono state identificate in quattro fondamentali componenti: la crescita esponenziale della capacità di calcolo dei computer; lo sviluppo delle reti di telecomunicazione (potenziate dalla fibra ottica), la digitalizzazione delle informazioni (testi, suoni, foto e video processati mediante opportuni software per utilizzarli nei computer); le innovazioni digitali (sia radicali, sia incrementali, ma sempre più collaterali, derivanti dalla ricombinazione senza limiti delle precedenti innovazioni).
Il processo esponenziale di crescita di queste tecnologie a partire dagli anni Settanta del Novecento ha comportato effetti relativamente deboli sull’economia e sulla società nella fase di avvio, ma progressivamente il loro sviluppo è divenuto dirompente con una accelerazione impressionante nel nuovo secolo. Abbiamo sotto gli occhi i primi effetti economici positivi di questo cambiamento sconvolgente: un’abbondanza di nuovi beni e servizi, che potevamo solo debolmente percepire negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso.
Ricordo le prime calcolatrici programmabili in linguaggio macchina, ove la programmazione personale (con 1 o 2 K di memoria!) consentiva di automatizzare noiosi calcoli ripetitivi. E poi i primi computer dotati di linguaggio Basic, che ampliavano le possibilità di lavoro personale e semplificavano la programmazione: schermo nero e il simbolo di prompt lampeggiante attendevano che l’intelligenza umana dell’operatore producesse il software occorrente. Poi i primi personal computer con alcune applicazioni che rivoluzionavano il modo di lavorare: word processor, foglio di calcolo e data base. Poi la prima interfaccia grafica implementata dalla Apple sul Macintosh, un parallelepipedo dotato di mouse e di memoria di massa su dischetti da 400 K, che – affiancato a una stampante laser – consentiva di realizzare il desktop publishing.
Queste innovazioni erano caratterizzate da una collaborazione tra uomo e macchina, ove il primo dominava sull’altra senza che si verificasse una forte sostituzione del lavoro, soprattutto nei servizi. Le macchine erano percepite come ausili di cui si sottovalutavano le effettive potenzialità nella produzione di beni e di servizi.
Per il tempo libero si poteva acquistare un computer casalingo in cui una serie di giochi, inizialmente elementari e via via sempre più sofisticati, cominciava a diffondersi tra i giovanissimi, affiancandosi ai tradizionali passatempi tra coetanei. Anche il cellulare era essenzialmente utilizzato come semplice strumento per comunicare fuori dal lavoro e dalla propria abitazione. Nella sua prima fase monopolistica di erogazione del servizio era anche considerato uno status symbol, a causa del costo elevato dell’apparecchio e delle comunicazioni.
In sintesi si percepiva l’innovazione tecnologica come creazione di nuovi beni disponibili per migliorare la propria vita, senza pensare agli effetti economici e sociali che si sarebbero manifestati in seguito. Infatti, sul fronte della produzione industriale nell’ultimo ventennio del Novecento l’automazione si diffondeva lentamente, per cui la sostituzione del lavoro con le macchine sembrava una normale continuazione del processo già sperimentato da lungo tempo, continuando a confidare nella capacità di assorbimento dei servizi. Ho in mente le affermazioni di alcuni colleghi tecnologi sulla sopravvalutazione della fabbrica automatica, come modello astratto e non osservabile nella realtà della produzione industriale.
Il nuovo secolo ha portato con sé una rivoluzione nei fatti e nella capacità di interpretare gli effetti delle tecnologie digitali, evidenziando un paradosso: le tecnologie digitali portatrici di benessere dal lato del consumo sono foriere di grandi rischi sul fronte dell’organizzazione della produzione e della vita delle persone.
L’aspetto positivo è che la quantità creata di beni digitali innovativi è esplosa sia come strumenti (fotografia digitale, smartphone e computer potentissimi zeppi di applicazioni), sia come prodotti multimediali (foto, video, libri, app, in gran parte scaricabili gratuitamente dalla rete).
L’aspetto negativo è che l’automazione nell’industria si è diffusa a macchia d’olio nelle grandi e medie imprese, sostituendo massicciamente il lavoro con le macchine, e – evento ancora più eclatante – si è estesa al settore dei servizi, tradizionalmente caratterizzato da elevata intensità di lavoro (i servizi più interessati sono per il momento quelli privati, mentre l’inerzia e l’inefficienza della pubblica amministrazione frena questo processo di sostituzione). Le piccole imprese sono invece incapaci per mentalità o impossibilitate per carenza di mezzi finanziari a realizzare un’automazione spinta delle proprie produzioni, votandosi al suicidio nella competizione di mercato. E l’Italia è caratterizzata da una miriade di micro e piccole imprese.
Il primo evento (l’abbondanza di beni) accresce il benessere della popolazione, mentre il secondo (l’automazione) è foriero di disoccupazione e miseria: riduzione della quota dei salari sul reddito nazionale, per effetto della disoccupazione e della perdita di potere contrattuale dei lavoratori, e aumento della quota dei profitti, indotti dalla crescita della produttività incorporata nelle macchine.
È una situazione distributiva diseguale che ci riporta indietro nel tempo, vanificando la crescita di benessere della seconda metà del Novecento e creando i presupposti per una caduta di domanda aggregata, che in mancanza di interventi pubblici rischia di portare il sistema capitalista verso una implosione attraverso cicliche recessioni.
Il libro si propone di illustrare queste affermazioni con metodo analitico.
Nel transitorio la disoccupazione si concentra soprattutto sui lavoratori che svolgono mansioni semplici e ripetitive, facilmente sostituibili dalle macchine. I lavori più specializzati e non ripetitivi sembrano relativamente immuni, per cui il suggerimento principale rivolto alle giovani generazioni è quello di scegliere percorsi di studio atti a svolgere attività specializzate volte a collaborare con le macchine per evitare la disoccupazione.
Ma siamo sicuri che questa riconversione delle attività lavorative possa riassorbire tutta la disoccupazione tecnologica che si prospetta? E siamo sicuri che le attività concettuali e specializzate siano veramente immuni dal processo di sostituzione con le macchine? Gli anni a venire vedranno uno sviluppo esponenziale dell’intelligenza artificiale, che metterà a dura prova questa convinzione.
Quali modelli economici è possibile applicare per AI e machine learning?
Con il termine di intelligenza artificiale (AI) si comprende la teoria e lo sviluppo di sistemi informatici atti a eseguire mansioni che normalmente richiedono l’intelligenza umana. Di fatto, però, la maggior parte dei recenti progressi tecnologici proviene dal machine learning, che mette in grado di apprendere dai dati disponibili per migliorare le previsioni e quindi rendere più efficienti le decisioni, specialmente in campo economico.
Come i muscoli meccanici riducono la domanda di lavoro semplice, così le menti meccaniche fanno sì che il lavoro del cervello umano sia meno richiesto, risparmiando lavoro complesso. Il passo è breve per sostenere la convenienza a sostituire l’uomo in molti processi decisionali, come suggerito da Daniel Kahneman (premio Nobel per l’economia comportamentale nel 2002), in particolare nelle le decisioni imprenditoriali.
I modelli proposti per analizzare gli effetti dell’AI spaziano dalla realizzazione di una società comunista – in cui la capacità di prevalere sul lavoro umano in tutti i campi porterebbe a una società in cui l’abbondanza di beni si contrappone alla scomparsa del lavoro e tutti trarrebbero beneficio dalla redistribuzione della ricchezza prodotta dalla super-intelligenza delle macchine – a quella di una sostanziale permanenza dell’attuale sistema economico, in cui l’AI è in grado solo di supportare il lavoro umano, fornendo intuizioni, consigli e linee guida per aumentare la produttività delle imprese, senza espellere forza lavoro ma semplicemente modificando le tipologie di lavoro.
Nel libro assumiamo una posizione intermedia, in cui l’AI e la robotica sono fattori che sostituiscono gli esseri umani solo in determinate occupazioni, poiché gli algoritmi intelligenti sono in grado di svolgere meglio determinati compiti. Anche in questo scenario, però, la diffusione dell’AI suscita preoccupazioni soprattutto riguardo alla disoccupazione, alla distribuzione della ricchezza e alla riqualificazione delle persone, destinate a spostarsi in settori meno automatizzati. La speranza è che, per molti anni a venire, le macchine collaborino con i lavoratori e gli uomini continuino a essere più abili nel pensare fuori dagli schemi e nell’elaborare forme complesse di comunicazione.
Nel libro le tematiche sono approfondite mediante un’analisi della letteratura economica, volta anche ad evidenziare le criticità e le sfide che l’impiego sempre più diffuso di algoritmi di intelligenza artificiale sta ponendo all’efficiente funzionamento dei mercati e al conseguimento del benessere dei consumatori. In questo senso, i modelli proposti dall’economia comportamentale giocheranno un ruolo fondamentale per comprendere e gestire al meglio i cambiamenti imposti dalle nuove tecnologie. L’economia comportamentale parte dal presupposto che gli esseri umani si possano comportare in maniera non razionale e talvolta effettuino scelte non ottimali, in quanto soggetti a limiti cognitivi o decisionali. Di conseguenza, se l’intelligenza artificiale consisterà semplicemente nel creare macchine che replichino i comportamenti imperfetti umani, le nuove tecnologie saranno origine di distorsioni e potrebbero addirittura esacerbare alcuni problemi, invece che risolverli, con effetti sociali potenzialmente devastanti. Si pensi ad esempio al fenomeno delle camere dell’eco, causato da algoritmi di motori di ricerca e social networks che ripropongono notizie in linea con i propri interessi: politici, istituzioni e altre organizzazioni che fanno circolare i propri messaggi a discapito degli altri, comprese le informazioni false. A causa di tali algoritmi, gli individui sono sovraesposti a informazioni che rafforzano una specifica visione del mondo, aumentando i rischi di estremizzazione e polarizzazione delle opinioni, con ovvie ripercussioni a livello sociale o politico.
Per trasformare questa rivoluzione tecnologica in un’opportunità, è dunque necessario conoscere a fondo i limiti degli esseri umani, e in questo senso i modelli comportamentali saranno uno strumento importante.
Quali politiche economiche nell’era delle macchine intelligenti?
Già oggi, ma soprattutto nel prossimo futuro, dobbiamo affrontare uno scenario di profonde disuguaglianze e di minore occupazione, dapprima per il lavoro semplice (non specializzato) e successivamente anche per il lavoro complesso (specializzato).
Il ruolo dello Stato sarà determinante. Nella fase transitoria in cui stiamo vivendo occorrono politiche economiche che favoriscano la crescita della domanda aggregata e della produzione, per compensare parzialmente l’espulsione della forza lavoro dall’industria e soprattutto dai servizi.
Bisognerà inoltre implementare politiche per l’istruzione che inducano le giovani generazioni a indirizzarsi verso una formazione tecnica, in grado di collaborare con le macchine intelligenti.
Ma ciò non basterà, perché le economie mature non sono più in grado di espandersi ai tassi di crescita sperimentati dopo la seconda guerra mondiale e il mercato del lavoro specializzato potrà assorbire una quota ridotta della forza lavoro.
A mano a mano che ci avviciniamo alla fase finale, occorreranno sempre più interventi compensativi: investimenti pubblici in infrastrutture, servizi di assistenza sociale e sussidi alla popolazione priva di lavoro, cioè spese pubbliche che sostengano la domanda aggregata, impedendo al sistema capitalista di regredire. In sostanza, se vogliamo salvare il capitalismo, dobbiamo ricorrere massicciamente alle politiche fiscali espansive suggerite da John Maynard Keynes per superare la depressione degli anni Trenta del Novecento, finanziandole in gran parte con imposte sul capitale, il fattore produttivo che dominerà in tutte le attività agricole, industriali e di servizi.
Nel libro si analizzano scenari alternativi, che possono verificarsi in assenza di queste politiche.
Il lavoro umano è destinato a scomparire?
Nella fase finale del capitalismo, quando le macchine intelligenti si saranno diffuse in modo capillare, il lavoro sarà erogato da un gruppo ristretto di creativi, ricercatori e innovatori. Il gruppo è ristretto, perché è difficile pensare che l’umanità possa riconvertirsi in massa a queste attività esclusivamente speculative o ad alto grado di creatività. La scuola potrà aiutare a facilitare questo processo, invertendo però i suoi obiettivi formativi: anziché preparare i giovani per affrontare lavori specializzati, come suggerito per la fase transitoria, dovrà stimolare le capacità creative, intuitive, letterarie e astratte delle giovani generazioni, sia per allargare questo gruppo di residui lavoratori, sia per permettere di fare un uso proficuo del tempo libero.
Il libro cerca di affrontare razionalmente il problema, ponendo in luce i rischi ai quali le giovani generazioni stanno andando incontro. Ci sono però degli aspetti incoraggianti. Le macchine, per quanto intelligenti possano diventare, hanno dei limiti difficilmente valicabili. Il primo limite riguarda la capacità delle macchine di provare empatia, e quindi di svolgere lavori in cui l’interazione umana è un elemento fondamentale e imprescindibile.Il secondo limite riguarda il ruolo che le macchine giocheranno nell’indirizzare i processi decisionali. Esse infatti potranno supportare i processi decisionali attraverso previsioni più accurate e una migliore definizione dei possibili scenari futuri, ma il bilanciamento dei vari interessi in gioco, la determinazione dei criteri decisionali e dei rispettivi pesi rimarrà presumibilmente una prerogativa umana.Ad esempio, le macchine difficilmente saranno in grado di suggerire se sia meglio perseguire una politica che ponga un freno all’inflazione, piuttosto che ridurre la disoccupazione.In questo senso, le decisioni politiche e il ruolo dei policy maker continueranno a rimanere responsabilità di esseri umani, e giocheranno un ruolo fondamentale nell’indirizzare il futuro che ci attende.
Piercarlo Ravazzi, è stato professore di Teoria dello sviluppo economico e di Economia politica all’Università di Trieste e dal 1990 di Analisi dei sistemi economici nella Facoltà di Ingegneria gestionale del Politecnico di Torino. È autore di articoli e monografie su crescita economica, produzione, finanza d’impresa, telecomunicazioni, storia dell’industria.
Laura Abrardi ha conseguito il dottorato di ricerca in Economia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ed è attualmente ricercatrice al Politecnico di Torino, dove svolge attività di ricerca in campo microeconomico applicato a temi di regolazione, concorrenza e comportamento del consumatore.