
In altre parole, ci si domanda se l’educazione basata sulle competenze contenga il potenziale formativo per generare negli studenti disposizioni cognitive non operative – come la riflessione e la comprensione di significati – che permettano di decifrare la complessità di una situazione e di sapere come agire di fronte ad essa.
In effetti, se vogliamo evitare riduzionismi rispetto all’approccio per competenze, dobbiamo avere un punto di partenza molto chiaro: non sarà sufficiente che i ragazzi mostrino di saper fare bene un compito. Sarà necessario insegnare loro a riflettere durante i compiti, chiedendosi come svolgono tutto il processo di apprendimento e perché e che tipo di qualità umane maturano, attraverso i compiti scolastici, anche per la vita quotidiana. Un cambiamento non solo sul piano dell’agire, ma dell’essere, possibile perché consapevole ed intenzionale.
L’esercizio di una competenza, infatti, coinvolge tutti gli aspetti della persona, cognitivi, volitivi e affettivi. Non a caso una delle competenze personali più significative è “Imparare a imparare”, che potenzia nello studente la capacità di riflessione, di chiedersi il perché dei propri errori, di dialogare con se stesso per migliorare il modo di apprendere. Non dobbiamo dimenticare – e dovremmo sottolinearlo più spesso ai nostri alunni – che è proprio questo dialogo interiore che orienta gli sforzi per studiare meglio e che fa sorgere le disposizioni idonee allo sviluppo delle qualità umane. Per fare un esempio, se il ragazzo capisce (aspetto cognitivo) che la fonte dei suoi errori di traduzione dal Greco all’Italiano è la mancata revisione del lavoro appena concluso, sa anche cosa dovrebbe fare: la sua volontà (aspetto volitivo) gli suggerisce di fare un ultimo sforzo di revisione, anche se è un lavoro noioso e costoso (aspetto affettivo). Nel fare questo salto di qualità nello studio l’alunno farà anche un salto di qualità umane, in termini di fortezza, resilienza, costanza, ecc.
Mi sembra che questo approccio nei riguardi del paradigma per competenze, forse, possa essere più costruttivo rispetto ad un compimento solo formale delle direttive europee. Senza questa visione olistica, sarà naturale condividere le critiche sul fine strumentale.
Quali sono gli elementi della metacognizione?
Il primo a parlare di metacognizione è stato Flavell (1971), che ha spiegato come possiamo controllare un’ampia varietà di attività cognitive attraverso l’interazione di quattro tipi di fenomeni: la conoscenza della persona, le esperienze metacognitive, gli obiettivi e le strategie metacognitive.
La conoscenza della persona si riferisce, in primo luogo, alle caratteristiche personali dello studente; in secondo luogo, alle procedure e strategie che adotta per apprendere; in terzo luogo, alla conoscenza delle condizioni ottimali per il proprio apprendimento, su quando e perché agire in un certo modo per imparare meglio.
Le esperienze metacognitive si riferiscono a qualsiasi esperienza cognitiva o affettiva (idee, pensieri, sentimenti) implicita in qualsiasi compito intellettuale. Molti ricercatori concordano sul fatto che compiti nuovi, difficili o eseguiti in situazioni stressanti tendono a provocare un’attività più metacognitiva rispetto ai compiti noti.
Gli obiettivi si riferiscono alla conoscenza delle esigenze dei compiti che lo studente deve affrontare e influenzano la loro esecuzione e la loro percezione di difficoltà. Lo scopo delle tecniche metacognitive è di focalizzare l’attenzione sugli aspetti importanti dell’attività.
Le strategie metacognitive sono essenziali per monitorare il raggiungimento degli obiettivi cognitivi: si tratta di scegliere i mezzi più adeguati per svolgere i compiti. Si possono distinguere strategie cognitive e metacognitive. Le prime sono quelle attività che vengono utilizzate per comprendere meglio ciò che si sta studiando. Le seconde sono utili per pianificare l’attività, monitorare i progressi verso l’obiettivo e valutare l’intero processo di apprendimento.
Quando un allievo diventa consapevole di questi aspetti non si limita più solo ad eseguire i compiti scolastici, ma ha piena coscienza del suo intero processo di apprendimento.
Che relazione esiste tra competenze chiave e le soft skills richieste nel mondo del lavoro?
Le competenze chiave, definite dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell‘Unione europea nel 2018, sono otto (la comunicazione nella madrelingua; la comunicazione nelle lingue straniere; la competenza matematica; la competenza digitale; imparare a imparare; le competenze sociali e civiche; il senso d’iniziativa e imprenditorialità; la consapevolezza e l’espressione culturale) e si distinguono in conoscenze, abilità e atteggiamenti. Quando si legge con attenzione la loro definizione, ci si accorge che questa si sovrappone, in parte, a quella di alcune soft skills, tra le quali, ad esempio l’aver fiducia in se stessi, l’essere autonomi, il possedere resistenza allo stress, l’organizzare e il pianificare, l’avere spirito d’iniziativa, il saper raggiungere gli obiettivi, il saper gestire le informazioni, l’essere intraprendenti, il comunicare, l’esercitare il problem solving, il possedere capacità di leadership e il saper lavorare in gruppo.
Quando si spiega agli studenti il senso del paradigma per competenze è molto utile far notare loro le relazioni esistenti tra competenze e soft skills richieste nel lavoro: colgono che queste abilità non si improvvisano, ma crescono nel tempo attraverso l’esercizio concreto, se c’è un lavoro educativo focalizzato su tale acquisizione.
Come cambia il lavoro del ragazzo se coglie che il suo futuro si costruisce davvero attraverso la fatica quotidiana!
A che serve il Liceo classico nel lavoro?
Questa è una domanda fondamentale, con la quale sempre più spesso siamo chiamati a confrontarci e a tentare di rispondere, se vogliamo che questo indirizzo di studi permanga in futuro. Si è scritto molto a questo proposito. Qui mi limito ad una considerazione: sappiamo che, di fronte all’affermarsi progressivo della tecnica in tutte le dimensioni della vita, sempre più numerose sono le voci critiche verso l’effettiva utilità della conoscenza delle lingue morte. Tuttavia, alla luce della pandemia, forse ci appare più plausibile l’idea che la scienza non basta da sola, se non è ben orientata allo sviluppo umano integrale. Non a caso nell’antichità i medici erano anche filosofi: conoscere le fonti classiche, a questo proposito, è davvero illuminante per cercare un equilibrio tra sapere scientifico e umanistico. Pensiamo, ad esempio, al vasto mondo dell’Intelligenza Artificiale, in rapido sviluppo: saranno i ragazzi, educati alla complessità, a doverlo orientare in modo “umano”. Certamente, si potrebbe obiettare che per conoscere la sapienza antica ci si potrebbe limitare alle opere in traduzione italiana. Tuttavia, mi ha colpito sentire direttamente dagli studenti, durante la ricerca condotta anche all’estero, che conoscere direttamente la storia di una parola riempie di contenuto e spessore quelle che usiamo oggi: ciò aiuta a comunicare meglio, a capire meglio gli altri.
In ogni caso, validità di un corso di studi non vuol dire immutabilità. Proprio perché vivo, il liceo classico può e deve aggiornarsi in alcuni aspetti. Ormai in tutta Italia, e non solo, si stanno moltiplicando sperimentazioni di aggiornamento del curricolo: si vanno inserendo anche altre materie di ambito scientifico, informatico o giuridico, in modo da ampliare il raggio delle conoscenze e rendere i ragazzi in grado di poter scegliere in seguito con maggiore scioltezza anche facoltà scientifiche, senza il timore di cominciare con troppe lacune.
Il liceo classico nel lavoro, dunque, ha ancora molto da offrire: soprattutto, consente la formazione di un pensiero forte, che affonda le radici nella saggezza senza tempo dei greci e dei romani, in grado di trarre dalla storia forza e immaginazione per le sfide del presente e del futuro della società.
Come si è svolta la ricerca empirica in Italia, Spagna e Regno Unito?
Grazie al Dottorato Internazionale ho avuto la fortuna di fare esperienze molto arricchenti: ho potuto confrontare il liceo classico italiano con gli studi classici che si fanno nelle scuole di Spagna e Gran Bretagna. Ho trascorso un anno presso l’Università di Burgos (Spagna), e tre mesi presso l’Università di Leicester (Inghilterra). Ho conosciuto docenti di prestigio, grazie ai quali ho potuto affinare le metodologie della ricerca educativa. Nel libro si può trovare una sintesi delle modalità di impostazione di una ricerca empirica, quali tappe seguire e a cosa far attenzione. Nel mio caso approfondivo lo sviluppo delle competenze chiave di cittadinanza attraverso lo studio del Latino e Greco. Ma gli aspetti metodologici indicati sono validi per tutte le materie; cambieranno interessi e problemi da indagare.
Dopo quanto ho vissuto penso che ad ogni docente dovrebbe essere data la possibilità di fare esperienza di ricerca educativa. In tal modo si acquisisce una metodologia rigorosa per affrontare le difficoltà che rileviamo in classe: certamente, sul campo acquisiamo tanta esperienza, ma la conoscenza delle ricerche condotte in un certo ambito facilita molto il nostro lavoro. È noto, infatti, che chi si laurea in Scienze della Formazione ha già questo tipo di approccio, ma per noi docenti di scuola secondaria, esperti della materia, le cose non stanno così. Sempre più il ponte tra Università e Scuola sarà decisivo per creare quella istruzione di qualità che è uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile.
Cosa rivela l’analisi dei risultati di tale ricerca?
In sintesi, dai risultati della ricerca emerge che gli studenti italiani, spagnoli e inglesi, in genere, non conoscono l’approccio per competenze e non sono consapevoli delle ricadute che potrebbe avere nel loro modo di studiare. Tendenzialmente è un “problema burocratico” del docente, al momento di stilare la programmazione disciplinare. Molti ragazzi intervistati hanno ammesso che non avevano mai riflettuto sulla loro concezione di apprendimento: studiavano e facevano i compiti, spesso anche in modo soddisfacente, ma non avevano mai focalizzato che, nel fare i compiti, possono crescere in competenze e qualità umane. Forse ai più bravi ciò diventava evidente man mano che avanzavano gli anni scolastici, ma per i più restava nascosto dal velo della noia per i compiti da fare. Scoprire invece che loro potevano migliorare attraverso i compiti scolastici ha aumentato la loro motivazione. Certamente, spetta a noi docenti fare rete e studiare i modi pratici per presentare tutto ciò ai ragazzi: sarà diverso farlo in un liceo classico rispetto ad un istituto tecnico e professionale. Però vale la pena tentare.
Daniela Canfarotta è docente di Latino e Greco presso il Liceo Ginnasio “Francesco Scaduto” di Bagheria (PA). Ha portato avanti la ricerca mentre insegnava presso l’Istituto Arimondi-Eula di Savigliano (CN). A marzo 2020 ha ottenuto il titolo di Dottore di Ricerca in “Formazione pedagogico-didattica degli insegnanti” presso l’Università di Palermo, di Burgos (Spagna) e di Leicester (UK), acquisendo così il titolo aggiuntivo di Doctor Europaeus. Dal 3 febbraio 2021 fa parte dell’editorial board della rivista scientifica “Journal of Groundwork Cases and Faculty of Judgement”. Ha ricevuto il Premio Straordinario di Dottorato presso l’Università di Burgos il 25 marzo 2021.