
Nella dinamica società italiana tra tardo medioevo e prima età moderna le pratiche in campo creditizio e i dibattiti ad esse connessi rappresentavano un cantiere operoso di elaborazione e sperimentazione, uno spazio di confronto e a volte di scontro tra esigenze e progettualità sociali diverse. Prassi concrete e riflessioni teoriche coinvolgevano infatti teologi e giuristi, banchieri ebrei e cristiani, mercanti, predicatori e magistrature cittadine, nonché uomini e donne comuni in cerca di un accesso al credito. Seguire queste vicende porta quindi a riconsiderare la complessità della società dell’epoca, le sue molteplici opzioni e le tensioni interne, mettendo in luce che, oggi come allora, intorno alla diffusa richiesta di credito si gioca una parte significativa del grado di appartenenza riconosciuto (o negato) ai membri di una società. Intorno all’accesso al credito si definiva chi era riconosciuto membro di valore di una comunità politica che ‘investiva’ su di lui/lei e chi invece era escluso o giudicato sospetto e inaffidabile. In tal senso, la storiografia più avveduta ha messo sempre più in luce il legame fortissimo tra cittadinanza e credito.
Come indica il sottotitolo, il vostro volume ha scelto un approccio storiografico. Come si è articolato tale dibattito riguardo al credito e ai Monti di Pietà?
La riflessione storica su questi temi è cresciuta enormemente negli ultimi decenni. Basti ricordare i contributi di Giacomo Todeschini riguardo al ruolo dei Frati Minori, quali professionisti della povertà volontaria, nell’elaborare una riflessione economica o i lavori di Maria Giuseppina Muzzarelli riguardo a diversi aspetti dei Monti di Pietà. Molte di queste fondamentali acquisizioni sembrano però ancora fare fatica a trovare accoglienza fuori dal campo dei più stretti addetti ai lavori, come constata il saggio pubblicato da Paolo Evangelisti. In parte questo è dovuto alla difficoltà di districarsi in un campo fortemente interdisciplinare, dove competenze di storia del diritto e storia economica si intrecciano con la riflessione teologica e la storia sociale. Pochi studiosi possono infatti dirsi capaci di dominare completamente questi ambiti, e certo non per falsa modestia. Facendo tesoro delle competenze specifiche di chi ha collaborato a questo progetto, il volume si propone quindi di fornire uno strumento utile sia per orientarsi all’interno di un tema ricco, complesso e che rifiuta schematiche semplificazioni, sia per cogliere le potenzialità e le problematiche ancora aperte in un campo di studi segnato dall’incessante circolarità tra teoria e prassi, tra attuazioni locali e dibattiti generali. Il mettere a fuoco i ricchi e frastagliati percorsi di indagine compiuti fino ad oggi non intende però chiudere il discorso. Si vuole anzi segnare una tappa da cui ripartire, individuando accanto ad acquisizioni ormai imprescindibili gli ambiti che ancora attendono di essere pienamente esplorati (ad esempio, un confronto con il funzionamento del credito nel mondo islamico) o accostati con nuovi strumenti critici.
Quali modalità per procurarsi denaro esistevano all’epoca?
Quello che è al centro del volume non è il credito del grande commercio internazionale, ma le pratiche più quotidiane nelle città tra Tre e Cinquecento. Senza entrare nel dettaglio, per rendere l’idea di come il discorso sia sfaccettato basta ricordare che i saggi raccolti nel volume trattano della nascita del debito pubblico (e del mercato del credito ad esso legato) nel Trecento, ma si addentrano anche nelle pratiche contabili di banchieri e mercanti, così come nel protagonismo in campo finanziario di alcuni grandi enti assistenziali dell’epoca. È questo il caso dell’Ospedale della Scala di Siena, studiato da Gabriella Piccinni, un ente capace non solo di amministrare ma di investire sapientemente in campo finanziario per avere fondi da utilizzare per la propria missione. Forzando un po’ i termini del discorso, si potrebbe dire che invece di fare cassa tagliando sulla sanità, vi era la capacità (a volte) di fare cassa per investire nella sanità. Non meno rilevante è poi il ruolo dei banchi di prestito ebraici, lente preziosa per guardare alla sfaccettata vita interna delle comunità ebree e per mettere in evidenza le concretissime relazioni tra maggioranza cristiana e minoranza ebraica nelle città dell’epoca. Proprio in risposta (polemica) e in competizione rispetto al prestito ebraico si pongono spesso i primi Monti di Pietà, nati nel secondo Quattrocento. Sorti in molte città grazie alla spinta decisiva, ma non isolata, dei predicatori francescani, quelle che furono le prime banche pubbliche – o quanto meno civiche – racchiudono in sé tutta la complessità della società dell’epoca. I Monti si presentavano come istituzione innovative di credito a tasso di interesse azzerato o fortemente calmierato per le fasce più bisognose della popolazione. Al contempo erano apertamente presentati come parte di una più ampia operazione tesa a delegittimare e destabilizzare la presenza delle comunità ebraiche nelle medesime città, giudicata una anomalia pericolosa. In tal senso, il saggio di Matteo Melchiorre dedicato a frate Bernardino da Feltre – uno dei maggiori promotori dei Monti di Pietà e tra le figure più dibattute dalla storiografia del settore – mette perfettamente in luce la coesistenza nella sua azione (e nel suo progetto di società) della charitas christiana e dei più aspri toni antigiudaici. La storia dei Monti è un impasto inestricabile di intolleranza e carità.
Quali questioni di ordine economico, politico, giuridico e religioso sollevava, in epoca medievale e moderna, l’accesso al credito? E quali relazioni di potere si articolavano intorno ad esso?
Possiamo restare all’esempio dei Monti, individuati nel volume quale caso concreto e rivelatore dell’intreccio di questi diversi aspetti. Vi fu infatti una prolungata discussione su che cosa il Monte dovesse essere e sulla legittimità delle sue operazioni. L’aspetto più dibattuto fu senz’altro la richiesta di un modesto interesse: si trattava di un ineludibile costo per il servizio ricevuto oppure era una forma subdola di usura, tanto più grave in quanto mascherata da una istituzione che si presentava come cristiana? In tale discussione, le opinioni di giuristi e teologi si accavallavano in un unico discorso, sviluppatosi in maniera vivace e a tratti aspra nella sfera pubblica dell’epoca. Uno dei meriti del presente volume è dare voce anche agli sconfitti, come fa Roberto Lambertini ricostruendo le ragioni di quanti vedevano nei Monti pii un’empietà. Per la nascita dei singoli istituti, però, era decisivo l’intreccio tra promotori dei Monti e società locale. In tal senso, il mio contributo indaga due casi che mi sembrano esemplari, ricostruendo l’azione di due predicatori dell’epoca, Michele d’Acqui e Timoteo da Lucca, entrambi frati dell’Osservanza minoritica attivi nel promuovere i Monti di Pietà. Nel fondare un Monte a Verona, frate Michele poté sfruttare il pieno consenso delle magistrature cittadine, concentrandosi su una articolata campagna multimediale (fatta di carri allegorici, processioni, pamphlet a stampa) per promuovere la nuova istituzione e raccogliere tanto i fondi necessari ad avviarla quanto il consenso popolare per mantenerla in vita. Diverso invece è il caso di Lucca, dove fra Timoteo per vincere le resistenze locali non esitò a fomentando il dissenso, cavalcando in maniera spregiudicata un complesso caso giudiziario contro il principale banchiere ebreo attivo in città, Davide di Dattilo da Tivoli. Il caso lucchese mostra perfettamente la dinamica politica che portò alla chiusura di un banco ebraico e alla apertura di un nuovo Monte (finanziato con la multa comminata a Davide di Dattilo). Conosciamo tale vicenda non solo grazie alla ricchissima documentazione del consiglio cittadino che permette di seguire, passo a passo, le discussioni interne – con due chiari partiti – e le pressioni esercitate dalla predicazione antigiudaica in piazza, ma anche grazie a un rarissimo carteggio tra banchieri ebrei che mostra le loro mosse e contromosse per salvare, se non i soldi, almeno la pelle, come con estremo realismo arriva a scrivere al banchiere lucchese un suo socio, suggerendogli la fuga: “Solamente continuo t’aricordo campare li corpi! Fácciano della roba come voglino”.
Chi furono i protagonisti della storia del credito in epoca medievale e moderna?
La frase appena citata ci ricorda che dietro alle vicende di prestiti e denaro c’è sempre una storia fatta di persone, ci sono corpi in carne ed ossa. Ho già avuto modo di ricordare alcuni dei grandi protagonisti delle vicende analizzate in questo volume. Accanto a banchieri ebrei, giuristi e predicatori, non vorrei però che si dimenticassero, tra i protagonisti appunto, le persone che di queste forme di credito, anche minimo, avevano a volte estremo bisogno. Ce lo ricordano le liste di oggetti depositati presso i Monti di Pietà o presso i banchi di pegno ebraici che, lette in filigrana, lasciano intravedere la vita concretissima delle persone che entravano e uscivano da tali luoghi. Se i pensieri e le emozioni di queste donne e di questi uomini non possiamo recuperarli, resta per noi la traccia del loro affrontare, forse con coraggio, la fatica del vivere. E resta la questione di come la società oggi possa far fronte a bisogni simili. I recenti servizi dei telegiornali sulle file di persone fuori dai Monti di Pietà, a Roma come a Torino, in occasione della prima ondata della pandemia, ci ricordano come non si tratti né di una storia conclusa, né di questioni oggi risolte.
Pietro Delcorno è ricercatore di storia medievale presso la Radboud University (Nimega, Paesi Bassi). Ha pubblicato numerosi contributi sulla cultura religiosa e la società tardo-medievale, tra cui Lazzaro e il ricco epulone: Metamorfosi di una parabola fra Quattro e Cinquecento (Bologna, 2014) e In the Mirror of the Prodigal Son: The Pastoral Uses of a Biblical Narrative (c. 1200-1550) (Leiden, 2017). Ha curato di recente il volume Politiche di misericordia tra teoria e prassi (Bologna, 2018).