“Credenti LGBT+. Diritti, fede e Chiese cristiane nell’Italia contemporanea” di Matteo Mennini

Dott. Matteo Mennini, Lei è autore del libro Credenti LGBT+. Diritti, fede e Chiese cristiane nell’Italia contemporanea, edito da Carocci: cosa significa essere cristiani LGBT+?
Credenti LGBT+. Diritti, fede e Chiese cristiane nell’Italia contemporanea, Matteo MenniniSe ci riferissimo ad alcune opere letterarie del XX secolo come Terre Lointaine di Julien Green, Jean-Paul di Marcel Guersant, Fabrizio Lupo di Carlo Coccioli potremmo concludere che l’esperienza del cristiano non eterosessuale è descrivibile come una condizione di disperazione e di un’impossibile conciliazione tra fede e orientamento sessuale. Ma queste opere precedono i moti di Stonewall e gli anni della contestazione quando nacquero vari movimenti che rivendicarono diritti e visibilità per le persone LGBT+. All’interno di questa galassia, anche alcuni omosessuali credenti iniziarono a porre la questione della propria emarginazione dentro le loro chiese di appartenenza e, progressivamente, uscirono dalle “catacombe” dell’isolamento per ricercare una via che permettesse loro di restare nelle chiese non come destinatari di una cura o di una pastorale speciale, ma come credenti a pieno titolo, senza che l’orientamento sessuale costituisse un ostacolo. Essere cristiani LGBT+, quindi, è la condizione di tante e tanti credenti che non solo rivolgono alle chiese una domanda di riconciliazione tra fede e omosessualità, ma che intraprendono un percorso creativo di ricerca e di integrazione tra le due dimensioni. Ho cercato di rappresentare questo percorso di uscita dalla clandestinità e dall’anonimato, per approdare infine ad una condizione di piena e consapevole rivendicazione della propria unicità sul piano religioso, nelle tre azioni che danno il titolo agli altrettanti capitoli del libro: “uscire dalle catacombe”, “convertire le chiese”, “essere cristiani LGBT+”. Grazie al lavoro di ricerca storica, ma anche alle numerose interviste che ho condotto in questi anni, mi sono reso conto di come queste tre fasi possono esprimere il vissuto dei singoli credenti LGBT+ così come dei gruppi che si sono formati nel tempo. La sociologia, prestando attenzione, da oltre trent’anni, alle principali realtà aggregative di cristiani LGBT+ in contesti come gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia, ha individuato, a più riprese, alcune tattiche utilizzate per contrastare quella che alcuni studiosi hanno chiamato una forma di «dissonanza cognitiva» tra fede e omosessualità. Grazie allo sviluppo di quelle strategie, i cristiani LGBT+ hanno rinegoziato le condizioni di appartenenza alle proprie chiese, valorizzando aspetti dottrinali, teologici e biblici che permettono loro di rappresentare l’orientamento omosessuale al di fuori della categoria di “peccato”. Se vogliamo utilizzare un’altra immagine letteraria, come già fatto in apertura, possiamo associare questo percorso di scoperta e rivendicazione al personaggio di Leo, protagonista di Camere separate di Pier Vittorio Tondelli, il quale ritrova il senso del sacro grazie ai testi biblici del profeta Osea e che nella finitezza della corporeità rintraccia un implicito infinito, non come cifra di un giudizio divino su una sessualità disordinata, ma come spazio della ricerca di Dio nella quale porta tutto di sé, anche la sua sensualità e i suoi eccessi.

Come si è evoluta la posizione della Chiesa sul tema dei diritti delle persone LGBT+?
Soffermandoci per il momento solo sull’ambito della chiesa cattolica, il primo documento ufficiale della Santa sede che propose una valutazione di tipo morale sull’omosessualità fu Persona humana, pubblicato dalla Congregazione per la dottrina della fede alla fine del 1975. Si trattava di una dichiarazione che voleva precisare alcune questioni relative alla sessualità negli anni controversi della ricezione dell’enciclica Humanae vitae di Paolo VI del 1968. Il documento distingueva tra una concezione dell’omosessualità come «tendenza transitoria non incurabile» e «una costituzione patologica giudicata incurabile». Dietro a queste definizioni lo storico rintraccia la sedimentazione delle acquisizioni che le scienze mediche e psichiatriche avevano elaborato a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Per semplificare potremmo dire che la distinzione proposta dalla dichiarazione vaticana rifletteva la distinzione tra perversione (disturbo) e perversità (vizio morale) proposta dallo psichiatra tedesco Richard von Krafft-Ebing nel 1886 e che aveva funzionato come riferimento per i decenni a seguire anche nelle opere di alcuni sacerdoti impegnati nella cosiddetta “medicina pastorale”, primo fra tutti Agostino Gemelli. Si trattava di una classificazione che non teneva conto, evidentemente, delle recenti disposizioni dell’American Psychiatric Association che nel 1973 aveva derubricato l’omosessualità dall’elenco dei disturbi mentali, ma al contempo superava la più tradizionale riduzione del problema alla categoria della «sodomia», intesa come la valutazione sul piano giuridico e processuale degli atti omosessuali.

Dieci anni più tardi, il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della succitata congregazione vaticana, avvertì l’esigenza di precisare alcuni aspetti, che riteneva compromessi in una erronea interpretazione della dichiarazione del 1975. Veniva pertanto pubblicata, nel 1986, la Lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali che affermava come non solo gli atti omosessuali, ma anche l’inclinazione omosessuale fosse da considerare «disordinata» poiché conduceva «verso un comportamento intrinsecamente cattivo dal punto di vista morale». Diciamo che, successivamente, le posizioni ufficiali del magistero cattolico non si sono discostate da queste valutazioni, ribadite a più riprese da successivi documenti. Con l’attuale pontificato di Papa Francesco stiamo assistendo ad alcune novità, non apprezzabili sul piano dottrinale, quanto piuttosto su quello dei requisiti del giudizio morale che sono evidenti nella sua esortazione apostolica Amoris Laetitia del 2015: in controtendenza con una prospettiva razionalistica del “diritto naturale” che aveva caratterizzato il magistero di Giovanni Paolo II, Francesco afferma che le norme generali nella valutazione morale dell’agire umano, pur presentando un bene da non trascurare, non possono rispondere a tutte le «situazioni particolari». Questa attenzione si traduce in una pastorale attenta ad accogliere, appunto, le «situazioni particolari» tra cui i credenti LGBT+, così come i divorziati e le coppie non sposate. Si tratta di orientamenti attualmente molto presenti e sentiti tra alcuni episcopati considerati “progressisti”, in particolare quello tedesco.

Quali vicende hanno maggiormente segnato la storia del movimento dei credenti LGBT+ nel nostro Paese?
Nella prima metà degli anni Settanta, mentre in altri paesi si sviluppavano gruppi strutturati di credenti LGBT+ capaci di accompagnare i propri aderenti in un percorso di accettazione di sé e di rivendicazione dei propri diritti all’interno delle comunità cristiane, in Italia si muovevano alcuni giovani provenienti dal cattolicesimo del dissenso e in contatto con le prime organizzazioni militanti di omosessuali. Contestualmente, alcuni sacerdoti iniziarono a interessarsi al problema dei credenti omosessuali, ricorrendo anche a forme di benedizioni delle coppie omosessuali, come don Marco Bisceglia o don Franco Barbero, oppure accompagnando le prime forme di aggregazione, come don Luigi Ciotti a Torino o don Domenico Pezzini a Milano.

Grazie al sostegno di alcune realtà, come il Gruppo Abele a Torino, il centro ecumenico valdese Agape a Prali o la chiesa metodista di Padova che ne facilitarono la possibilità di ritrovarsi, nacquero tra il 1980 e il 1981 i primi gruppi organizzati. Protagonista di quel frangente fu il giovane torinese Ferruccio Castellano, capace di mettere a sistema quelle realtà, di alimentare il dibattito e di amplificare in Italia quello che accadeva tra i credenti LGBT+ europei e statunitensi. Inoltre, Castellano riusciva a creare un ponte tra le evoluzioni dei movimenti di liberazione omosessuale in Italia e la realtà dei credenti LGBT+. Malgrado la sua morte prematura nel 1983, i gruppi proseguirono la loro attività. Nel pieno della diffusione dell’HIV e delle conseguenze innescate sul piano sociale dall’epidemia, i credenti LGBT+ italiani scoprirono l’esigenza di coordinarsi a livello nazionale e trovarono una sponda nell’accoglienza offerta loro da pastore e pastori delle chiese riformate: si andò formando una consapevolezza nuova, uno spostamento dal discorso dell’accettazione e della normalizzazione a quello sui diritti e sulla visibilità. Si preparava, nel decennio degli anni Novanta, l’appuntamento con il Grande Giubileo durante il quale si celebrò anche il World Pride a Roma in cui i credenti LGBT+ sfilarono uniti e con segni di riconoscimento chiaro. Il libro si ferma qui.

Quali prospettive, a Suo avviso, per i cristiani LGBT+?
Nella storia che ho cercato di ricostruire, mi pare di individuare due tendenze le quali, seppur in modo diverso, hanno sempre accompagnato la vicenda dei gruppi di credenti LGBT+: per un verso, la ricerca di luoghi protetti a cui affidare la propria domanda di riconciliazione tra fede e omosessualità, con la garanzia di riservatezza e accoglienza pastorale; per un altro verso, la coscienza che è necessario esercitare una forma di militanza, assumendosi il rischio della visibilità, per rappresentare la consapevolezza di sentirsi parte della Chiesa a prescindere dal proprio orientamento sessuale. Credo che le prospettive per i cristiani LGBT+ passino dalla capacità di bilanciare queste tendenze e di non perdere l’originalità e l’attualità della propria ricerca in campo religioso.

Matteo Mennini è docente di Cristianesimo e globalizzazione nell’Università Roma Tre. Si è occupato del dibattito sulla povertà durante il Concilio Vaticano II (La Chiesa dei poveri. Dal Concilio Vaticano II a papa Francesco, 2017) e sul rapporto tra Chiesa cattolica e diritti umani.

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