
Quali risposte alle domande sul senso delle nostre esistenze ci arrivano dal pensiero greco?
Le risposte sono sostanzialmente due. Un buon punto di partenza è il dialogo tra Glauco e Diomede nel quinto canto dell’Iliade. Prima della battaglia Diomede chiede a Glauco di identificarsi perché lui possa gloriarsi della sua morte. La risposta di Glauco è all’inizio disincantata e si traduce in alcuni versi celeberrimi: come le foglie, così le stirpi degli uomini… la nostra esistenza non ha senso o valore, è destinata a perdersi nel nulla. Eppure Glauco risponde, raccontando la storia della sua famiglia – la storia di eroi che hanno combattuto, opponendosi alla morte e al nulla, per mostrare il loro valore. E così è pronto a fare anche lui. Questa è una prima risposta, che verrà poi ripresa dalla democrazia ateniese: è costruendo qualcosa insieme che possiamo dare prova del nostro valore. La seconda risposta si trova invece in Platone e Aristotele: conoscendo, comprendendo il tutto, ci renderemo conto che non è vero che viviamo in un mondo indifferente e che verremo inghiottiti nel nulla. La realtà, per chi la sa osservare, è uno spettacolo meraviglioso, in cui tutto ha posto e valore. In questo senso la conoscenza rende divini, ci permette di vedere le cose come vedono gli dei e rende il problema della morte irrilevante.
Quello che ho cercato di mostrare nel libro, insomma, è che si potrebbe dividere la riflessione dei greci sulla morte e l’esistenza in due gruppi: la distinzione principale è quella tra filosofi e non filosofi. Se i filosofi cercano di esaltare i punti di continuità che ci legano al tutto, gli altri, e i poeti in particolare, insistono piuttosto sul contrario, sulla specificità e solitudine dell’uomo. Ne emergono così due concezioni alternative di quello che siamo: da un lato c’è l’idea dell’uomo come parte del tutto, e che come parte del tutto può riscoprire la bellezza e il valore della sua esistenza; dall’altro un’idea sostanzialmente tragica in cui l’uomo deve invece combattere per dare prova del suo valore e dunque mostrare che non è vissuto per niente. Sono due possibilità ugualmente legittime, che si traducono in due modi di vita antitetici: da un lato la vita contemplativa, dedicata alla conoscenza, dall’altro la vita attiva, dedicata alla politica. Anassagora o Pericle, come dirà Aristotele. O meglio ancora, come dirà invece Nietzsche (di cui si parla a lungo, nel libro), Omero o Platone?
Quali autori si sono maggiormente interrogati sul senso dell’esistenza umana?
Come osservavo in precedenza, quasi tutti i più grandi autori si sono occupati di questo problema. In fondo non poteva che essere così, visto il tema in discussione. Visto che ho già parlato di Omero e Platone, vale forse la pena di ricordare Epicuro, che come al solito ama provocare e tiene una posizione particolare negando che la morte sia un problema – o meglio è un problema solo per chi se ne preoccupa, rovinando così la sua vita. Non ha tutti i torti, in effetti: «la morte non è nulla per noi», nel senso che o ci siamo noi o c’è lei. Perché preoccuparsi allora di qualcosa che non ci riguarda? Ci preoccupiamo forse perché non eravamo presenti quando Napoleone combattere a Waterloo? Perché dovremmo allora preoccuparci di quello che accadrà quando non ci saremo più? Del resto, poi, se la vita è come una festa, non è bella proprio perché non finisce? O vorremmo forse partecipare a un banchetto che non termina mai? Non sarebbe meglio lasciare perdere questo problema una volta per tutte, godendoci una buona volta la vita che ci è toccata in sorte?
Nel libro, poi, non ho resistito alla tentazione di compiere alcune incursioni in epoche successive, concentrandomi su autori che hanno continuato a riflettere sulla falsariga dei greci. Due casi interessanti, a questo proposito, sono Dante e Nietzsche. Nel caso di Dante penso ovviamente al canto di Ulisse nell’Inferno: Ulisse è di fatto il simbolo della filosofia greca, della sua grandezza e della sua miseria. Perché non c’è niente di più grande del desiderio che ci spinge a ricercare e conoscere, ma questo desiderio è destinato a rimanere vuoto senza l’aiuto della grazia divina. Per questo il viaggio della filosofia (di questo si parla nel canto di Ulisse) è destinato al naufragio, mentre Dante arriverà a coronare il sogno di vedere Dio. Ma se Dio non esistesse, quale sarebbe la destinazione del viaggio della filosofia e di noi tuti? È la domanda che si porrà Nietzsche, introducendo nuovi e inquietanti problemi. Conoscere Dio significava anche, per Platone e Aristotele così come per Dante, conoscere il bene e il male. Ma senza più Dio cosa ne è del bene e del male? Sembrano problemi astratti, ma sono molto concreti. Non si parla di questo oggi, quando ci si interroga sui limiti – sempre che ce ne debbano essere – dell’impresa scientifica?
Qual era la concezione della morte nel pensiero greco?
È difficile parlare di una concezione unica, al singolare. Come comune denominatore si può forse osservare che il tratto caratterizzante è la negazione della vita. Di fatto si può anche ammettere la possibilità di un’esistenza nell’aldilà, ma questa esistenza è dimidiata, priva di una consistenza reale. La vita nell’aldilà è una parvenza di vita, senza intelligenza e piaceri. Per questo la vita è così importante – tutto si gioca in questo mondo, e la sfida è capire come fare.
In che modo il pensiero greco può ancora oggi aiutarci a dare un senso alle nostre vite?
Troppo spesso tendiamo a vedere nei Greci un modello di perfezione, quasi che ancora oggi, a distanza di millenni, potessero guidarci in una vita piena di soddisfazioni e successi. Lasciando da parte le applicazioni più banali di questa idea (per cui non mancano mai libretti su Epicuro o gli stoici e l’arte di vivere, tanto per fare un esempio), si potrebbe osservare che questa idea risale fino all’illuminismo e al neoclassicismo o ancora più in su al Rinascimento: è l’idea del ‘miracolo greco’, per ripetere una celebre affermazione di Ernst Renan. Ma si tratta in realtà di un mito. Come noi i greci furono pieni di dubbi e inquietudini e proprio per questo ci parlano ancora, da distanze così lontane. In fondo, se ci sono ancora utili, è proprio per le ragioni opposte a quelle che normalmente si ripetono: non perché sono come noi, ma perché sono diversi da noi, e ci costringono a guardare agli eterni problemi dell’esistenza umana da una prospettiva diversa, spiazzante e per questo illuminante. Non è detto che abbiano ragione, ma ci ricordano che la realtà è più complessa di quello che pensiamo e ci incoraggiano a procedere nella costruzione di una vita soddisfacente.
Mauro Bonazzi insegna Storia della Filosofia Antica e Medievale presso l’Università di Utrecht. Ha insegnato anche a Milano, Clermont-Ferrand, Bordeaux, Lille e all’Ecoles des Hautes Etudes di Parigi. Specialista del pensiero politico antico, di Platone e del Platonismo, ha scritto diversi libri tra i quali ricordiamo: I sofisti (Carocci, 2010); Platone, Menone e Fedro (Einaudi, 2010 e 2011); Il platonismo (Einaudi, 2015); Con gli occhi dei Greci (Carocci, 2016); Atene, la città inquieta (Einaudi, 2017); Processo a Socrate (Laterza, 2018) e Piccola filosofia per tempi agitati (Ponte alle Grazie, 2019). Collabora con il Corriere della Sera e con Il Mulino.