“Costituzione e diritti a Singapore. Tra modello Westminster e tradizione confuciana” di Pino Pisicchio

On. Prof. Pino Pisicchio, Lei è autore del libro Costituzione e diritti a Singapore. Tra modello Westminster e tradizione confuciana edito da Wolters Kluwer CEDAM: di quale interesse sono, per la nostra civiltà giuridica, l’analisi e lo studio dell’esperienza giuridica di Singapore?
Costituzione e diritti a Singapore. Tra modello Westminster e tradizione confuciana, Pino PisicchioPer lungo tempo l’approccio tradizionale della cultura giuridica occidentale allo studio del diritto degli ordinamenti del continente asiatico si è caratterizzato con un atteggiamento di indistinzione sintetizzata nel sostantivo “orientalismo”, che visse una stagione di frequenti citazioni con l’uscita dell’omonimo saggio di Said nel 1978, inteso come categoria capace di raccogliere sotto un’unica formula la complessità culturale di mondi diversi, operando una riduzione del tutto impropria applicata ad un grande spazio geografico, senza rendere ragione delle diversità religiose, antropologiche, spirituali, economiche e, dunque, tradizioni giuridiche caratterizzate da proprie peculiarità.

Il riduttivismo occidentale, peraltro, pur avendo radici più antiche, ha trovato nuovo vigore nell’affermazione dell’analoga concezione che le culture dell’Estremo Oriente hanno riservato al mondo occidentale, attraverso l’approccio che tendeva, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, a rivendicare gli Asian Values in contrapposizione all’occidentalismo.

Solo più recentemente e in ragione degli studi che sono stati riservati in particolare all’ordinamento costituzionale cinese, a motivo del ruolo di protagonista dello stato-continente asiatico sulla scena mondiale, la dottrina giuridica giuspubblicistica occidentale ha cominciato ad emanciparsi da una visione riduttivistica per accedere ad un’analisi capace di cogliere le specificità di ordinamenti che, pur dichiarando un debito nei confronti dei sistemi giuridici occidentali di common law e di civil law, offrono allo studioso la possibilità di analisi delle evoluzioni originali conseguite imprimendo nella norma un nuovo carattere che ne ha fortemente modificato la portata In questo contesto si propone di grandissimo interesse per lo studioso occidentale l’esperienza giuridica di Singapore, città-Stato multietnica ma con una prevalenza della componente cinese, dunque con una forte incidenza della cultura sinica. Singapore aggiunge ai motivi d’interesse per lo studioso che riguardano la peculiarità del suo ordinamento costituzionale, anche la straordinarietà della sua performance economica e finanziaria che, partendo da un contesto post-coloniale penalizzato e depresso, ha proiettato la città-Stato al vertice dell’economia e della finanza mondiale, garantendo un pil pro capite tra i più alti in assoluto.

Qual è il lascito nel sistema Singapore della tradizione giuridica occidentale introdotta nella stagione coloniale?
L’ordinamento costituzionale singaporiano, che aderisce al modello Westminster, in realtà, sotto la patina di norme forgiate nell’orma del colonizzatore britannico, appare fortemente ispirato dal modello confuciano che conferisce ai singoli istituti giuridici contenuti e modalità espressive affatto peculiari, a cominciare dalla legislazione sull’ordine pubblico tendente a conferire effettività al principio del mantenimento dell’armonia sociale, anche al prezzo del conculcamento di diritti fondamentali formalmente richiamati nella stessa Costituzione. L’edificazione della Singapore post-coloniale si deve all’epopea politica del suo fondatore, Lee Kuan Yew, autore di una sperimentazione originale che ha puntato sul sincretismo culturale tra il modello westminsteriano e la dottrina confuciana, con la delineazione di un regime autocratico poggiato, piuttosto che sull’autoritarismo ruvido delle dittature, sulla pervasività della presenza governativa nella vita dei cittadini, basata sullo scambio tra benessere sociale e adesione conformistica al potere. Il lascito giuridico del colonizzatore, pertanto, è riscontrato nell’involucro formale di istituti e architetture normative proprie del modello Westminster, mentre lo slancio vitale della norma subisce una torsione verso altri valori. La proiezione verso il ruolo di quarta potenza finanziaria globale e di modello avanzato di Smart City, descrivono, pertanto, la traiettoria di un innegabile successo dell’esperienza singaporiana, se riguardato esclusivamente dal punto di vista efficientistico, all’interno di modelli culturali ispirati ai valori confuciani.

A quali principi si richiamano gli “Asian Values” d’ispirazione confuciana?
La locuzione “Asian Values” ebbe un suo periodo di massima attenzione sul finire degli anni ’80, quando il Primo Ministro singaporiano Lee Kuan Yew adottò la formula come sintesi, capace d’indubbia efficacia mediatica, del suo programma di governo e di richiamo a un orgoglio identitario che fu condiviso da altri leader politici asiatici, a partire dal primo ministro malese. In seguito, le crisi economiche che attanagliarono le nuove “tigri asiatiche” verso la fine degli anni novanta, destituirono di attualità quell’espressione che, comunque, rimbalzò nel dibattito nel mondo occidentale, come evocativa di una via asiatica allo sviluppo che aveva a modello, in particolare, la performance della Repubblica di Singapore, la città-Stato che, sotto la guida di Lee Kuan Yew, registrò un’evoluzione economica tale da farla collocare tra le prime economie mondiali. L’esperienza del governo singaporiano, con l’insistita evocazione dei “valori asiatici”, aveva concorso a mettere in crisi l’idea di un’ineluttabilità della corrispondenza tra sviluppo economico e democrazia liberale, tipica della cultura capitalistica. Il primo elemento che occorre valutare è dunque quello di un relativismo riscontrabile nei “valori asiatici” che conduce a revocare in dubbio l’universalità dei valori umani, rifiutata in quanto portato di una forma di colonizzazione culturale del mondo occidentale. Il relativismo propugnato nei valori asiatici impone un’interpretazione dei diritti umani diversa secondo le realtà geografiche, culturali, storiche e persino economiche degli Stati. Nel caso dei valori asiatici c’è un elemento aggiuntivo a marcare la differenza tra la concezione dei diritti umani accolta nella cultura occidentale ed è quello dell’assenza dell’individualismo presente, invece, nel mondo occidentale.

È propria della tradizione asiatica, infatti, l’enfatizzazione dei doveri dell’individuo verso la famiglia e la collettività, corrispondente ad una ridimensionata definizione dei diritti del singolo, teleologicamente orientata verso una gerarchia di diritti che privilegia sempre l’interesse collettivo su quello individuale, la coesione al conflitto di classe, l’equilibrio e la consensualità alla dialettica sociale. Né va trascurato che l’evocazione dei “valori asiatici”, ancorché realizzata intorno alla narrazione di una piattaforma unitaria di principi usata da Lee Kuan Yen in chiave di propaganda politica, in realtà ha assunto anche le forme di una sorta di riduzionismo concettuale da parte della cultura occidentale che ha preteso di contenere la complessa e irriducibile Weltanschauung del mondo orientale ad un corpus teorico e pratico tendenzialmente monolitico. In questo quadro ha trovato spazio anche una dimensione reattiva e antagonistica del mito dei valori asiatici, in chiave di rivendicazione identitaria, avanzata questa volta dal mondo orientale e contrapposta all’occidentalismo dei colonialisti. La scansione dei valori Asiatici vede alla base della socialità al primo gradino la famiglia (jia) e al secondo lo Stato (guo-jia), inteso come livello di sintesi delle unità famigliari, mentre alla base dell’universo ci sono l’ordine naturale e l’equilibrio che vengono garantiti dalla condotta morale del singolo individuo, ispirata al modello virtuoso e coerente con l’armonia. L’armonia è, pertanto, un principio- guida nell’etica confuciana che, partendo dal percorso di vita del singolo, acquista la forma più larga della dimensione sociale che antagonizza con lo stato di caos. Se la condizione del buon governo che tende alla realizzazione del bene comune è nella cultura occidentale garantita da un efficace sistema di norme e di sanzioni che colpiscono il trasgressore in caso di condotta illecita, nel sistema confuciano l’obiettivo del bene collettivo si raggiunge attraverso i Riti e la Virtù.

In che modo il modello confuciano si riverbera negli istituti giuridici singaporiani?
L’intero ordinamento giuridico singaporiano si dimostra largamente debitore con la cultura confuciana, cominciando dalle norme regolative dell’impianto urbanistico della città-Stato, utilizzate come elemento costitutivo della nation-building, per affermare la prevalenza dell’identità collettiva rispetto all’individualismo occidentale, fino alle agenzie educative, fortemente orientate verso il modello meritocratico confuciano, alle politiche demografiche, che ebbero a subire, peraltro, una torsione eugenetica nel progetto, poi fallito, di controllo delle nascite propugnato dal premier e padre della nuova Singapore Lee Kuan Yew,al privilegiamento della competenza nella selezione della classe dirigente, alle norme a sostegno della posizione dell’anziano nella società singaporiana, alle norme di contrasto dei fenomeni corruttivi, alle politiche di contenimento del conflitto sociale, attraverso il National Wage Council. Né può essere considerato estraneo agli “asian values” l’impianto culturale che ispira l’azione della PA, infatti, caratterizzato da una filosofia tecnocratica in tutto coerente con il valore del merito esaltato dalla visione confuciana, e la sua indistinzione con il partito di governo, costruiscono un inedito esempio di governo dell’Amministrazione Pubblica vocato allo sviluppo e alla soddisfazione dei bisogni del cittadino. Il terreno di coltura del pensiero politico che ispira la visione tecnocratica è, pertanto, rappresentato, nell’impostazione anti-ideologica della visione di Lee Kuan Yew, dalla fede nel valore della buona amministrazione intesa come fonte di sviluppo e di benessere. Una deriva del pensiero confuciano che si traduce in norme giuridiche cogenti è rappresentata dalla riduzione progressiva della privacy del cittadino per garantire la sicurezza collettiva. Infatti, se il monitoraggio dell’osservanza delle regole introdotte dai governi di Lee Kuan Yew, a far data dal 1965, veniva affidato in prevalenza all’occhiuta vigilanza delle forze dell’ordine, più avanti nel tempo si è assistito ad una evoluzione della strategia di controllo globale da parte del governo. L’azione di controllo, infatti, si è implementata con comportamenti che vanno dall’incoraggiamento del whistleblowing , all’uso di un portentoso e pervasivo sistema di videosorveglianza – chiamato, peraltro a svolgere un ruolo di oggettiva deterrenza dal compimento di azioni contrarie alla pulizia e al decoro cittadino – alla stagione attuale, che si caratterizza con un approccio che, pur assumendo forme d’impatto formale meno ruvide, registrano un effetto, se possibile, ancora più invasivo rispetto alle precedenti stagioni, grazie all’uso coordinato degli strumenti telematici utilizzati a piene mani da Lee Hsien Loong, figlio del fondatore.

Quali elementi caratterizzano l’ordinamento costituzionale singaporiano?
La Costituzione della Repubblica di Singapore, vocazionalmente iscrivibile nella famiglia del common law, è una costituzione scritta, entrata in vigore il 9 agosto 1965 (e più volte riformata) aderente al modello Westminster, di cui infatti assume la fisionomia. Il legislativo è rappresentato da un Parlamento monocamerale composto da 101 rappresentati che garantiscono, in forza di una riforma del 1984, una rappresentanza alle opposizioni, ancorché risultate senza il suffragio elettorale necessario, attraverso la cooptazione di un certo numero dei primi dei non eletti, al fine di rendere possibile una dialettica democratica. La riforma si rese necessaria perché per numerose legislature il PAP, il partito del premier Lee Kuan Yew, raccolse la totalità dei seggi Parlamentari. Presiede il Parlamento lo Speaker, così come nel Regno Unito. Il Governo, che è composto esclusivamente da parlamentari, rappresenta il vertice del potere esecutivo e risponde al Parlamento, mentre al Presidente della Repubblica, eletto direttamente dal popolo, esercita un ruolo meramente rappresentativo. Se lo schema formale sembrerebbe rinviare alla modellistica di common law, in realtà il peso della cultura confuciana e della tradizione producono effetti distorsivi che ne segnano una distanza, a cominciare dall’inconsistenza dei processi di contendibilità politica del partito di governo.

Nel libro Lei affronta il tema del rapporto tra privacy e controllo sociale, in una società fortemente tecnologica quale quella singaporiana: come viene risolto il conflitto nella città-stato? 
Il modello cui intende ad ispirarsi Singapore con il programma Smart Nation, si incentra su una digitalizzazione molto avanzata rappresentata dalla disseminazione nel territorio di una grande numerosità di sensori, che si prevede possa raggiungere i 100 milioni nel 2020, gli smart objects attraverso cui viene effettuata la raccolta di flussi continui di dati destinati ad una elaborazione ed un impiego volti a creare un ecosistema nazionale basato sulla tecnologia dell’informazione. Naturalmente la struttura reticolare delle applicazioni tecnologiche, se da un lato costruisce una qualità della vita dei cittadini singaporiani particolarmente alta, garantendo l’automatizzazione di case e scuole, sistemi di condizionamento e di illuminazione pubblica intelligenti, la gestione di aspetti fondamentali della vita civile come i trasporti, l’energia, la cura della salute, l’assistenza agli anziani, dall’altro pone, almeno alla stregua dei parametri adottati dalle democrazie liberali, il problema di un controllo pervasivo della popolazione tale da lasciar configurare nella critica avanzata da osservatori occidentali, un inveramento delle distopie letterarie narrate da autori come George Orwell o Roy Bradbury o Aldous Huxley.

Il monitoraggio continuo delle unità abitative e dei residenti, ancorché esercitato con il consenso dei singaporiani, rappresenta certamente lo strumento per verificare l’efficacia di servizi innovativi, ma comporta anche un intervento invasivo dello Stato nella vita privata dei suoi cittadini. Il Governo, pertanto, assume la sentiment analysis, tratta dai numerosi sensori (gli smart objects) distribuiti sul territorio, ma anche dai cittadini stessi e persino dai social-network, per costruire le sue politiche in un percorso di aggiustamento continuo al fine di garantire la migliore aderenza alla volontà prevalente. Il patto tacito stipulato dal Governo con i cittadini, che prevede la cessione della privacy contro una condizione di benessere, di sicurezza e di pace sociale, trova un esempio convincente nella realizzazione dell’obiettivo di un’identità digitale. Insomma: il modello di tutela della privacy in vigore a Singapore non sembra proprio esportabile in Occidente.

In che modo il modello meritocratico confuciano può rappresentare un elemento di riflessione nell’attuale crisi delle democrazie liberali?
Si sta facendo strada anche nel dibattito scientifico occidentale, un filone tendente ad osservare con atteggiamento di apertura il modello rappresentato dalle strutture istituzionali ispirate dai valori confuciani, in particolare l’ordinamento cinese e l’ordinamento singaporiano. La tesi trova nel sociologo canadese D. A. Bell il suo più argomentato sostenitore.

L’autore propone un approccio efficientista per valutare il funzionamento dei sistemi di governo e rileva una ricorrenza tra le crisi delle liberaldemocrazie e le crisi delle economie degli Stati in cui le difficoltà istituzionali si manifestano. Quella parte della dottrina che guarda con attenzione al recupero di elementi del confucianesimo nella cultura giuridica occidentale, sottolinea in particolare il valore delle procedure di selezione della classe dirigente attraverso il canone meritocratico, proponendo una forma di “meritocrazia democratica”, che consegni alla periferia il compito di esercitare il voto, mentre i civil servant della organizzazione centrale dello Stato sarebbero scelti col criterio della cooptazione.

A questa impostazione possono essere portate più obiezioni: a parte la pericolosa condizione autopoietica di una élite burocratica isolata dal consenso popolare, si evidenzia una certa enfatizzazione dell’efficientismo quale criterio esclusivo di valutazione della qualità del governo e un approccio aziendalistico riferito al controllo di performatività del personale politico, trascurando del tutto il profilo valoriale che caratterizza la democrazia. La democrazia, infatti, è valore in sé, e si declina attraverso principi etico-politici che non tollerano misurazioni alla stregua di bilanci aziendali, ma deve, invece, consentire la condivisione del popolo sovrano delle scelte politiche di fondo. La combinazione ideale, pertanto, potrebbe essere per le democrazie liberali quella che tenda a preservare i processi democratici di selezione della classe dirigente, ma accogliendo la sfida della qualità e della competenza che viene lanciata dall’esperienza singaporiana. Le strade possono essere diverse, ma s’incontrano sempre con i processi di formazione e con la leale competizione. Mai con la cooptazione.

Giuseppe (Pino) Pisicchio è professore associato di diritto pubblico comparato presso la UNINT – Università degli Studi Internazionali di Roma. Giornalista professionista, è stato deputato per 5 legislature, membro del Parlamento europeo e sottosegretario nei governi Amato e Ciampi. È autore di numerose monografie sui sistemi elettorali e la forma-partito nonché diversi saggi di politologia, cinque raccolte di poesie e un libro di narrativa, per un totale di 60 libri. Tra le pubblicazioni più recenti si segnalano: Codici Etici e Parlamenti. Profili comparatistici (Cedam, 2017) e Le Fondazioni Politiche. Profili di Diritto Italiano e Comparato (Cacucci, 2017).

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