
Circa i sistemi giuridici, se prestiamo attenzione alle fonti del diritto, in Asia si riscontra spesso un intreccio di consuetudini che non solo integrano la fattispecie astratta, ma creano persino la disciplina giuridica applicabile, come nel caso delle leggi personali indù o musulmane in riferimento al diritto di famiglia e successorio in India e Bangladesh. Riguardo agli aspetti legati all’assetto costituzionale, si rilevano i lineamenti dei principali modelli occidentali di distribuzione del potere e delle relative forme di governo, che nei sistemi democratici assumono spesso la veste del parlamentarismo, come in Giappone (dal 1946) e in India (dal 1947). In chiave storica, poi, l’adozione del modello Westminster in fase di decolonizzazione si riscontra anche nei processi costituenti di Burma (Myanmar), Pakistan, Ceylon (Sri Lanka), Malesia, Singapore e Brunei.
Alle precedenti considerazioni va aggiunto che il concetto stesso di divisione rigida del potere è messo in discussione dalle interrelazioni fra gli organi costituzionali e dalle rispettive competenze e funzioni. In tali esperienze, la separazione dei poteri appare “debole”, e spesso il potere esecutivo si sovrappone – pur senza assorbirlo – a quello legislativo.
Circa l’organizzazione territoriale dello Stato, il federalismo “post-conflitto” appare essere la soluzione adottata a seguito del mutamento della forma di Stato, che in determinate esperienze asiatiche è avvenuta in modo radicale e veloce, come in Nepal, che da Stato assoluto mascherato da monarchia costituzionale, in pochi decenni è stato proclamato Repubblica democratica federale. In questo contesto, però, anche la nozione di federalismo in senso “puro” mal si concilia con la reale articolazione territoriale, come in India.
Per quanto concerne l’attività delle corti superiori, queste risultano essere “aperte” a introdurre e a “prendere in prestito” principi esogeni, nonché a impiantare scelte relativamente liberali in contesti che, da certi punti di vista, risentono di un certo indirizzo politico uniforme, come in Corea del Sud e Singapore.
Significativo è anche il rapporto fra Stato e religione, che offre spunti interessanti di riflessione. Un esempio di questo rapporto è quello dell’ameliorative secularism indiano, come proposto da G.J. Jacobsohn. In Pakistan, invece, il fattore religioso rappresenta un metodo di demarcazione dell’appartenenza culturale e la chiave d’accesso alla politica del paese. Sempre in ambito religioso, il Nepal professa il laicismo, ma la società è fortemente condizionata dalla religione. Lo Sri Lanka, invece, ha sviluppato una forma peculiare di sincretismo religioso, mentre il Bangladesh convive con il laicismo sancito in costituzione e l’omogeneità politico-religiosa di matrice islamica.
Come per il fattore religioso, anche i principi riflettono l’eterogeneità asiatica. In tal senso si può fare riferimento al pragmatismo del confucianesimo nel Sud-Est asiatico, il quale potrebbe suggerire la medesima applicazione teorica dei principi concepiti nello sviluppo cosmogonico, teologico e dogmatico delle religioni indù (India, Nepal), musulmana (Pakistan) e buddista (Bhutan).
Notevoli sono anche gli elementi “quasi-costituzionali”, come i richiami in costituzione dei gruppi giuridicamente riconosciuti dei Khas Arya in Nepal o delle scheduled castes e tribes in India, delle già richiamate personal laws e degli altri fattori di origine etnico-culturale e socio-antropologica.
Le costituzioni asiatiche, e in particolare dell’Asia meridionale, sono documenti caratterizzati da un concreto contenuto giuridico, non sono semplici cornici che racchiudono quanto già praticato sul piano sociale, né tantomeno possono essere ridotte a meri patchwork di norme eterodirette. Eppure, fra le norme sociali e quelle giuridiche non è possibile una reductio ad unum, poiché esse hanno radici diverse e differenti gradi di legittimazione. Negli ordinamenti giuridici a cui si è fatto cenno, di certo le norme non sono solo valide, efficaci e segnano il concetto di legalità; esse godono della stessa legittimità di quelle sociali, semplicemente in modo – o con grado – diverso.
Quali linee giuridiche comuni e autoctone è possibile rinvenire nell’assetto costituzionale dell’India e di quello del Nepal?
La norma fondamentale dell’India si potrebbe inquadrare fra le costituzioni derivate. Questa collocazione, però, non tiene conto del fatto che, nonostante il recepimento di strumenti costituzionali esogeni, il sistema giuridico dell’India sia riuscito a evolversi in modo tale da non snaturare la società nel suo complesso, sopravvivendo alle pressioni internazionali, incrementando l’opera di caratterizzazione e distinzione, nonché alimentando un forte spirito di appartenenza. In ragione di queste peculiarità, la Costituzione indiana può essere definita come “originaria sui generis”, poiché si è sviluppata in modo autonomo rispetto ai prodotti giuridici incamerati a seguito degli innumerevoli trapianti giuridici, producendo un costituzionalismo genuino, fonte di ispirazione per altri ordinamenti asiatici, in particolare della regione meridionale.
La Costituzione Nepalese del 2015 ha adottato numerose soluzioni sviluppate nel sistema giuridico indiano, assumendo una impronta ibrida, ma con la chiara volontà di muovere anch’essa verso una forma endogena di costituzionalismo.
Per quanto riguarda la recente fase di state-building nepalese, nonostante alcuni fattori determinanti di diversificazione rispetto all’India (dimensione territoriale ridotta, popolazione numericamente inferiore), la Costituente repubblicana nepalese ha con molta probabilità intuito che il connubio federalismo/parlamentarismo dell’India rappresentava una sorta di modello democratico endogeno coerente con la cultura asiatica. Per tali ragioni, quindi, ne ha riproposto il tipo di Stato, la forma di governo e il sistema di giustizia, rifacendosi alla pratica costituzionale del subcontinente, piuttosto che ai modelli europeo e nordamericano.
La scelta nepalese di optare per un’organizzazione federale e un sistema di governo parlamentare è dipesa dal processo di democratizzazione del paese a seguito della rivoluzione maoista. Non si può fare a meno di rilevare, quindi, l’intreccio fra il piano storico-politico e quello giuridico, in quanto le due opzioni prevalenti nell’impostazione del sistema costituzionale erano rappresentate da due modelli geograficamente contigui: il sistema della Cina e quello dell’India. La scelta di una specifica migrazione costituzionale, insieme con il recepimento di taluni istituti giuridici, ha segnato anche il ruolo geopolitico del Nepal. Sul piano dottrinale questa preferenza non è di poco conto, se si pensa che gli sviluppi costituzionali del secondo dopoguerra avevano imposto come modello democratico e liberale di riferimento quello statunitense. Merita attenzione, tuttavia, il dato per il quale un paese asiatico, ad oggi, non fa riferimento al diritto degli ex-colonizzatori o a modelli geograficamente lontani, ma a esperienze che condividono in parte la stessa matrice socio-culturale, ciò dimostrando lo sviluppo dell’“auto-percezione giuridica del simile” nel subcontinente indiano. Le precedenti considerazioni spiegano perché emulazioni e trapianti giuridici in Nepal siano stati effettuati per prestigio – dell’esperienza indiana –, non per imposizione.
In particolare, porrei l’accetto su tre elementi comuni: i) la creazione identitaria e il pluralismo culturale; ii) la struttura territoriale e il (quasi)federalismo, iii) la forma di governo e il ruolo del Primo Ministro. Questi elementi vanno letti alla luce di numerosi fattori: consapevolezza e attaccamento a più di una cultura, riconoscimento statale e supporto a diverse identità culturali, sistema federale asimmetrico de jure o de facto, partiti politici impostati su principi democratici, gruppi politici autonomisti che possono governare le unità statali – e, contemporaneamente, far parte di coalizioni sul piano federale –, identità multiple ma complementari, obbedienza allo Stato e immedesimazione con le istituzioni (A. Stepan, J.J. Linz e Y. Yadav).
In merito al fattore multiculturale va, però, aggiunto che pluralismo e autoctonia sono elementi comuni anche al concetto di Stato interculturale. A differenza di alcune esperienze latinoamericane, in India e in Nepal – come in altre realtà asiatiche – la creolizzazione valoriale avviene su piani diversi. Per meglio cogliere questa ipotesi si possono distinguere due livelli di socialità: 1) della sfera privata, declinata in modo individuale e limitatamente comunitario, nonché legata alla pura tradizione culturale; 2) della sfera pubblica, proiettata verso uno spazio soggettivo e oggettivo più ampio, giuridicamente assimilabile allo Stato. Nel primo caso, ossia di socialità privata, l’individuo segue valori, principi e regole sedimentatisi nel tempo e soggetti a controllo sociale, validi ed efficaci perché legittimati in modo sia endogeno che esogeno, all’interno di un territorio delimitato dalla capacità della comunità di tenere insieme l’ordinamento che si tramanda. Questa forma legittimante diretta è limitata, quindi, nello spazio dalla necessaria prossimità dei soggetti, che non godono di un’organizzazione burocratica estesa. Il secondo punto, ossia la socialità pubblica, riguarda uno spazio molto più ampio, in cui i valori, i principi e le regole della sfera privata sono messi in ombra da quelli dell’ordinamento giuridico, che trovano la loro forma di legittimazione prevalentemente in una condivisione eterodiretta. Nel caso della socialità pubblica possono verificarsi ipotesi di creolizzazione, mentre in quella privata si possono trovare tracce di sincretismo. L’elemento dirimente fra queste due posizioni è l’irriducibilità del nucleo culturale sul piano della socialità privata (o di singoli gruppi di interesse o comunità), dovuta principalmente al criterio autoritativo endogeno. Pertanto, a un primo livello superficiale di approssimazione, l’amalgama culturale – per quanto rispettoso delle posizioni altrui e inteso come elemento essenziale dello Stato interculturale – apparirebbe il connotato di un “Façade Intercultural State”, piuttosto che il prodotto condiviso, cosciente e genuino di una cultura comune che va oltre il rapporto fra maggioranza/minoranza. Per quanto concerne, quindi, l’influenza del fattore culturale sulle tendenze giuridiche in Asia meridionale, credo sia necessario approfondire la ricerca in questi spazi interdisciplinari che si innestano nello scarto teorico lasciato dalle tesi su multi- e inter-culturalismo, in tal modo aprendo una ulteriore rotta di comparazione giuridica che unisce l’Asia meridionale con l’America latina.
In che modo l’architettura costituzionale dei due paesi asiatici manifesta una metamorfosi del costituzionalismo, all’incrocio tra fattori endogeni ed esogeni?
Una definizione giuridica che si possa ritenere valida ovunque e in ogni tempo incontrerà sempre rappresentazioni diverse del medesimo modello, e solo un’attività tesa a smussare gli angoli del “cookie-cutter” teorico o ad allargare le maglie delle definizioni stesse conduce a una approssimazione necessaria a fini classificatori.
Muovendo dalle precedenti considerazioni, possiamo provare ad applicare ai canoni asiatici una definizione di “costituzionalismo” che vada oltre quanto sancito dalla Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen del 1789: Art. 1: Les hommes naissent et demeurent libres et égaux en droits. Les distinctions sociales ne peuvent être fondées que sur l’utilité commune; Art. 16: Toute société dans laquelle la garantie des droits n’est pas assurée, ni la séparation des pouvoirs déterminée, n’a point de Constitution. A tal fine, si può definire il costituzionalismo come la “tensione programmatica e normativa che investe il rapporto fra Stato, sistema politico, fonti del diritto e ripartizione ed esercizio dei poteri, tale che si verifichino, in base alle diverse esperienze culturali, il riconoscimento e l’affermazione dei diritti umani, la tutela dei diritti, la limitazione del potere politico, lo Stato di diritto e la rule of law, il controllo di costituzionalità delle leggi”.
Nello studio del diritto asiatico, superando le difficoltà e il rischio di generalizzare un territorio tanto vasto e culturalmente variegato, si nota come alcuni degli strumenti giuridici posti alla base della nozione di costituzionalismo e adottati nei singoli Stati siano indiscutibilmente validi ed efficaci. Si pensi alla limitazione del potere politico, alla rule of law e al controllo di costituzionalità delle leggi in India e in Nepal, ma anche in altre democrazie meno consolidate come il Bangladesh o lo Sri Lanka, che comunque mostrano quella “tensione” verso la realizzazione effettiva del costituzionalismo.
Come evidenziato dalle esperienze costituzionali di India e Nepal, in Asia meridionale appaiono evidenti l’adozione, lo sviluppo e l’efficace applicazione degli strumenti giuridici “tecnici”, ossia quelli di organizzazione della struttura statale, anche considerando la distanza che a volte separa la costituzione formale da quella materiale. Va sottolineato, però, che è alquanto discutibile, se non per alcuni aspetti paradossale, ricondurre al costituzionalismo occidentale la democrazia illiberale di Singapore o di uno Stato autocratico come la Corea del Nord, i modelli islamici di Malesia, Indonesia e Pakistan (secondo alcuni anche del Bangladesh) o di quegli Stati, come il Vietnam, che hanno adottato il modello cinese.
Il discorso si complica, inoltre, sul piano dei diritti umani e della relativa tutela giurisdizionale. Numerosi studi in merito hanno dimostrato che è improprio parlare di “valori asiatici”, mancando anche una codificazione o un riferimento normativo sovranazionale che impostasse una forma di tutela giurisdizionale. Inoltre, l’elemento ctonio presente nel diritto asiatico, legato indissolubilmente alla tradizione, quando non palesato si è comunque sviluppato sottotraccia, rimanendo una costante nell’assetto del sistema giuridico. Questo sviluppo agli occhi di alcuni “clandestino”, in realtà, può essere individuato anche in prima approssimazione. Quindi, anche se post-coloniali, molte costituzioni asiatiche hanno manifestato la totale aderenza a uno “stilema” giuridico occidentale, senza tradire i valori di fondo che, estremamente disomogenei, caratterizzano gli ordinamenti giuridici, non solo se confrontati con esperienze statali diverse, ma persino all’interno dei loro stessi confini. Da ciò si potrebbe desumere, quindi, che il processo portato avanti dalle costituzioni derivate, in qualche modo, abbia riprodotto gli stessi schemi di quelle originarie per approdare, così, alle medesime soluzioni giuridiche per la risoluzione del conflitto sociale. La costruzione della definizione in termini ideali, però, è molto lontana dalla funzione pratica che assumono le Carte fondamentali. A tal riguardo, tenendo in dovuta considerazione gli sviluppi endogeni di strumenti giuridici ispirati al costituzionalismo occidentale ma radicati nelle tradizioni asiatiche, pur non negando che il costituzionalismo sia una sorta di achievement, si può affermare che non si tratta di un mero ideal-tipo, ma di una realtà metamorfica tuttora esistente, che si apre a forme di costituzionalismo autoctono.
Pasquale Viola è Dottore di ricerca in Diritto comparato e Processi di Integrazione. È autore di pubblicazioni su varie tematiche comparatistiche, con particolare riguardo al costituzionalismo asiatico, alla tutela ambientale e al cambiamento climatico. È stato relatore in convegni e seminari internazionali, ha svolto periodi di ricerca presso istituti europei e asiatici.