
di Enzo Bianchi
il Mulino
«Sono passati quasi cinque anni dalla pubblicazione del mio libro: La vita e i giorni, il mio De senectute, scritto ascoltando semplicemente e quotidianamente il mio corpo, attento allo scorrere del tempo e osservando quelli che diventavano vecchi come me e con me. Senza tralasciare la meditazione sulla vecchiaia ho sentito l’urgente bisogno di interrogarmi sulla mia attesa, la mia speranza, i miei dubbi sull’aldilà. L’«al di là della morte»! D’altronde questo limite, la fine della vita umana, è sempre stato molto presente nella mia esistenza perché fin da piccolo l’ho conosciuta: ha spezzato i miei affetti più cari, e mi ha obbligato a sentirla sempre incombente, reale, brutale, una nemica. Ho cercato nella mia vita cristiana di tener sempre presente l’evento della morte e di desiderare la vita eterna come mi insegnavano i miei maestri spirituali, ma anch’io ho sentito la tentazione di distrarmi e di dimenticare di dover morire. Ho sempre ripetuto il versetto del Salmo 90: «La nostra vita arriva a settanta anni, a ottanta se ci sono le forze», e ho sempre cercato di contare i miei giorni per giungere al cuore della sapienza, ma ancora oggi la morte sta davanti a me come un enigma, un’ingiustizia: ogni volta che muore qualcuno tra coloro che amo mi sento ferito, mi sento più povero, e piango non solo con le lacrime degli occhi ma con quelle del cuore che nell’amare gli altri desidera che vivano per sempre. […]
La morte non solo non esclude un inno all’amore, ma lo esalta e gli dà la forza dell’immortalità. Lo sappiamo e lo crediamo: l’amore vince la morte! Forse noi non sappiamo cantare trionfalmente: «O morte, dov’è la tua vittoria?», perché la morte è ovunque, e tuttavia quando l’umanità è capace di amare la fa arretrare e la vince.
So che è un azzardo parlare della morte, e quindi di Dio, in questo libro: niente è più incerto e rischioso, ma cercherò con semplicità di dire solo ciò che mi è possibile dire. Perché Dio nessuno l’ha mai visto, la sua presenza è elusiva e per noi resta inconoscibile. Quanto alla morte, anch’io la conoscerò solo quando sarà la mia ora, e prima posso solo prevederla, immaginarla, prepararla, ma resterà sempre un evento che non riesco a realizzare… Morte e aldilà, per un credente in Dio, sono realtà ultime dalle quali nessuno mai è tornato a noi per farcene un racconto. Sono un enigma che speriamo di vedere risolto in un mistero, una rivelazione su di noi e sul senso di questo mondo.
Parlare della morte è quindi per me un parlare della vita, è guardare in faccia la fine inesorabile per vedervi la forza della vita che è segnata da immortalità.
Ho sempre detto e scritto che l’importante non è la meta, ma in questa sera del mondo è più importante camminare insieme, credere in un orizzonte comune di credenti in Dio e di non credenti in lui, e in questo cammino custodirci gli uni gli altri.
So che la terra promessa è stata promessa perché noi camminiamo, e so che da tre millenni chi cerca la terra promessa non riesce mai ad abitarla. Ma non per questo il cammino si svuota di senso: è molto più decisivo sentirci viandanti, nomadi, capaci di stringerci insieme nella notte, che giungere alla meta.
Anche nello scrivere queste pagine ho fatto un pezzo di strada non da solo ma con tanti compagni e amici: mi sono sempre sentito in una carovana e mai un disperso nel deserto. Neanche l’esilio mi ha destabilizzato rispetto alle convinzioni che mi hanno ispirato una vita intera e mi hanno permesso di conoscere l’amore che anche quando è contraddetto e tradito resta la realtà più grande e più bella che possiamo vivere. Siamo mortali ma non per la morte, e non siamo «una parentesi tra due nulla» come affermava Jean Paul Sartre! Basta che ci guardiamo negli occhi, che ci stringiamo la mano, che ci baciamo guancia a guancia per sentire nel cuore e comprendere che possiamo sperare in un aldilà!»