
Quello che è diventata la discografia oggi è la benzina che ha fatto partire il motore di questo libro. Da oltre venti anni mi occupo, come osservatore, di musica. E ho avuto quindi la fortuna/sfortuna di cominciare a muovermi in questo settore in contemporanea con tutta la vicenda del file sharing, da Napster in poi. Ho quindi assistito alla deriva cui la discografia prima si è autocondannata, e della quale, oggi, è palesemente vittima. Incapaci di cogliere un pericolo nella rete, troppo distratti dai facili guadagni che la bolla del CD aveva procurato loro, i discografici si sono trovati a rincorrere la nuova tecnologia, senza mai riuscire a mettersi al pari. Così abbiamo assistito non solo alla morte del fisico, all’appalto ai talent di quel che un tempo era il lavoro di scouting proprio dei discografici, al passaggio di consegna per quel che riguarda la direzione artistica dagli A&R a coloro che gestiscono le playlist delle radio, e infine, alla resa incondizionata a Spotify e affini, in quella che oggi viene chiamata la discografia liquida. Ecco, io credo che più che di liquidità sarebbe corretto parlare di vaporizzazione, oggi non c’è più niente, e andando avanti così, rischiamo veramente di tornare a quando la musica era a appannaggio degli imperatori e dei Mecenati, col popolo costretto a ascoltare la musica popolare.
Come funziona il sistema dei passaggi radio?
Le radio arrivano a questi anni dopo un periodo di estremo potere. Capito tempo fa che i passaggi radiofonici erano una fonte di guadagno altro, tutto grasso che cola, hanno iniziato, con casi più radicali, a gestirsi in casa anche la parte artistica. Sono in pratica diventati editori e discografici, finendo per passare artisti che portavano loro guadagni e costringendo chi volesse passare di lì a sottostare a una forma di “cessione” diritti non esattamente spontanea. Tutto questo ha portato verso una omologazione che ha decisamente fatto male alla musica tutta, frutto di ingordigia e per niente attenta al merito. Oggi la faccenda appare assai differente, perché ormai da un paio di anni le radio stanno facendo il gioco del loro nemico principale, Spotify. Parlo ovviamente delle grandi realtà, non delle piccole radio ancora realmente libere. Passare le canzoni in tendenza sui canali di streaming è stato un tentativo, goffo e vano, di tenersi un pubblico che in realtà con la radio nulla ha mai avuto a che fare, quello dei giovanissimi (nulla parlando delle nuove generazioni, ovviamente). Perché non è che se passi la trap o l’itPop ti conquisti i giovani, loro continueranno a ascoltare musica su Spotify e affini, come prima, semplicemente avalli quel tipo di artisti che proprio con lo streaming campa, nutrendo il nemico e consegnandogli il tuo futuro.
Come mai concerti dichiarati sold out si rivelano in realtà dei flop?
Il caso tipo è quello del recente tour negli stadi di Ligabue. Non ci fosse stato il can can partito da me e ripreso da Dagospia, prima, e da Striscia la Notizia, poi, quello di Sanremo, di Friends And Partners, di Salzano e Baglioni, oggi si continuerebbe a parlare di tour che vanno sempre benissimo, sold out sempre e ovunque. Nei fatti da tempo denuncio questa usanza di taroccare i dati, non tanto per fare cassa, anche ovviamente, quanto per dopare il mercato. Un artista che non può fare stadi va comunque a tenere concerti lì, spesso riempiti con biglietti omaggio e regalie varie. Ovviamente non ne ha un guadagno immediato, ma un ritorno di immagine notevole, il concerto può essere venduto alle tv, che lo pagano bene, e l’artista sale di categoria. Per fare un esempio, è come se un calciatore potesse taroccare la classifica dei marcatori e piazzarsi ai primi posti anche se in realtà ha segnato pochi gol. Chiaro che le squadre più forti lo cercherebbero, e il suo cartellino aumenterebbe di valore. Non bastasse il secondary ticketing, quindi, ecco i finti sold out. Ligabue ha collezionato una serie impressionante di flop, quest’anno, con quasi tutti gli stadi con neanche la metà dei paganti presenti, a eccezione di San Siro. Ecco, forse sarebbe il caso per tutti di fare i passi lunghi quanto la gamba, e se non si è in grado di affrontare gli stadi affrontare arene più piccole, palasport o quel che è.
Quali responsabilità hanno Spotify e lo streaming?
Spotify in sé non ha colpe. È una azienda privata, fa il proprio lavoro. Le colpe le hanno i discografici che ci sono entrati dentro, penso alle major che ne sono diventati soci, e che hanno deciso che era il momento di puntare tutto sullo streaming, quindi bye bye album e soprattutto bye bye a tutta quella musica che punta sulla qualità, anche del suono. Lo streaming, infatti, prevede che la musica la si ascolti sempre, ma soprattutto sempre con lo smartphone, certo non pensato per fungere da stereo. Quindi la musica che si ascolta lì è quasi sempre schiacciata, compressa, senza alti e bassi, parlo di frequenze. Col risultato che chi scrive pensando di andare quasi solo lì, ormai il fisico non esiste più, lo fa utilizzando solo quei suoni medi, omologando tutto, e perdendo un sacco di variabili che la composizione prevede, dall’armonia alla dinamica.
Qual è la situazione del mondo musicale italiano?
L’Italia è la periferia dell’impero, quindi se altrove è già iniziata l’Apocalisse qui da noi ce ne accorgeremo giusto quell’attimo prima che il mondo imploda. Siamo messi molto male, molto male davvero.
A chi servono i talent show?
I talent show, oggi, servono davvero solo alle televisioni che li ospitano. Sono programmi delle tv commerciali, quindi pensati per fare incassi con le pubblicità, la musica è giusto un optional. Servono poi ai giudici, che hanno modo di farsi una seconda carriera, visto che nella stragrande maggioranza dei casi chi ci finisce ha seri problemi con quella principale. Non sempre e non tutti, ovviamente, ma buona parte. Non servono certo agli artisti che abbiano qualcosa da dire, visto che sono pensati con la stessa logica dei locali che vogliono solo tribute band. Si fanno cover, e quindi si cercano interpreti, non artisti.
Quale futuro, a Suo avviso, per l’industria musicale italiana?
Avessi la risposta a questa domanda avrei fatto investimenti, e ora starei ai Caraibi a lanciare ghiaccioli ai delfini. Non so. La vedo piuttosto cupa. Penso che si debba provare a fare sistema, che le classifiche vadano divise tra quelle dello streaming e quelle del fisico/download, così da evitare che ci siano artisti, chiamiamoli così, che finiscono primi senza aver mai neanche visto stampato un loro lavoro, e artisti storici che si vedono superare in classifica da emeriti sconosciuti. Penso che anche i network debbano riprendere a passare musica di qualità, lasciando allo streaming il compito di seguire le mode effimere. Io provo a dirlo, a cantare l’apocalisse, lo faccio anche in questo libro.
Chi reputa gli artisti italiani più promettenti?
Essendo un osservatore piuttosto radicale, direi che anche in questo caso darò una risposta radicale. Da anni mi occupo di raccontare il mondo delle cantautrici, tenute indebitamente a margine del mercato, nonostante ce ne siano di molto talentuose. Ecco, credo che sia al femminile che tocchi guardare per trovare qualcosa di originale oggi in Italia. Solo lì.
Michele Monina è nato nel 1969 in Ancona, vive e lavora a Milano. Scrittore e critico musicale, ha pubblicato 76 libri, ultimi dei quali Contro la Musica e Non Stop, scritto a quattro mani con Vasco Rossi. Lavora anche per la radio e la televisione.