
Quale antidoto contro questa cultura?
Non so se sia l’unico ma certamente è un antidoto: si tratta della letteratura, dell’autentica letteratura. Su questo punto è bene insistere; il vero scrittore non ha mai scritto per consolare, per gratificare, per divertire, per andare incontro ai gusti dei lettori, per cambiare il mondo o svolgere un ruolo culturale, ma semplicemente perché doveva scrivere quel che doveva scrivere, perché doveva rendere testimonianza ad alcuni aspetti essenziali dell’esperienza umana. Ancora una volta ha ragione Blanchot: «Ma non dimentichiamo che Kafka non scrive per fare opera di cultura (e nemmeno per mettere in scacco la cultura), e lo stesso ha fatto Omero, lo stesso farebbe lo scrittore di nessuna importanza che si suppone noi tutti siamo, almeno per un istante». Il vero scrittore non ha alcun interesse per la «cultura» ed è proprio per questa ragione che la sua opera genera cultura; con felicissima espressione Flannery O’Connor scrive «Il narratore deve rendere quel che vede e non quel che pensa di dover vedere» (magari per «fare scena», per fare un’«opera culturale», per «guidare le masse» o «migliorare la società»).
Qual è il valore della letteratura nella società contemporanea?
Il valore della vera letteratura , come più in generale di ogni autentica opera d’arte, è sempre stato lo stesso: si tratta, se così posso esprimermi, della verità del soggetto, della testimonianza resa ad alcuni aspetti essenziali dell’esperienza del soggetto. In fondo è questa la tesi che propongo nel libro: «La “grande letteratura” è il luogo ove decantano e vengono salvaguardate le testimonianza relativa ad alcuni aspetti essenziali dell’esperienza umana». Il tal senso le opere letterarie sono in generale costituite da racconti di finzione che tuttavia pretendono di dire la verità; quale verità? A tale proposito si faccia bene attenzione: verità, non della vita dell’uomo, della vita di quell’individuo vivente che è ogni uomo, ma della sua esperienza della vita, dell’esperienza del soggetto umano. È un punto colto con estrema lucidità da Kundera: «Il romanzo non indaga la realtà ma l’esistenza. E l’esistenza non è ciò che è avvenuto, l’esistenza è il campo delle possibilità umane […] Il romanzo è una meditazione sull’esistenza vista attraverso personaggi immaginari». Questa difesa delle verità del soggetto, della sua esperienza della vita e del mondo, è particolarmente preziosa in una società come la nostra così ricca di immagini e di rappresentazioni che spesso non fanno altro che mettere in scena mere caricatura dell’uomo è più in generale di tutta realtà. Come è stato sottolineato da molti studiosi, è per questa ragione che la vera letteratura è per sua natura rivoluzionaria: essa è tale «non perché abbia determinati interessi di parte che la spingono a sovvertire il potere vigente, ma perché, attraverso il duro lavoro sul linguaggio finalizzato alla ricerca del mot juste [Flaubert], essa si trova a “rimettere incessantemente in discussione i concetti essenziali della nostra cultura” [Barthes]». Si potrebbe anche dire che la vera letteratura si oppone sempre al senso comune o, per riprendere ancora una volta le parole di Kundera, alla logica dei massa media, i quali, «essendo agenti dell’unificazione della storia planetaria, amplificano e canalizzano il processo di riduzione: distribuiscono nel mondo intero le stesse semplificazioni e gli stessi luoghi comuni che si prestano ad essere accettati dalla maggioranza, da tutti, dall’umanità intera».
Che nesso c’è tra letteratura e democrazia?
A tale riguardo a me sembra che l’interpretazione di Derrida, sulla quale mi soffermo a lungo nel corso del volume, meriti la massima considerazione. Si tratta, sottolinea il filosofo francese, della possibilità, riconosciuta e difesa, di «poter dir tutto»: «La letteratura – scrive il filosofo – è un’invenzione moderna: essa si inscrive nelle convenzioni e nelle istituzioni che, per non ritenere che questo tratto, le assicurano in principio il diritto di dire tutto. La letteratura lega così il suo destino a una certa non-censura, allo spazio della libertà democratica (libertà di stampa, libertà d’opinione, ecc.). Nessuna democrazia senza letteratura, nessuna letteratura senza democrazia. Si può sempre non volere né questa né quella e non si manca di farne a meno sotto tutti i regimi; non si può considerarle, né l’una né l’altra, come beni incondizionati e diritti indispensabili. Ma non si può, in alcun caso, dissociare l’una dall’altra […] ogni volta che un’opera letteraria è censurata, la democrazia è in pericolo».
Nel suo libro Lei arriva a teorizzare la “post-letteratura” quale salvezza per la letteratura.
Ci deve essere un equivoco. La mia era una battuta; in un epoca come la nostra, dove il -post è diventato quasi una moda (pos-filosofia, post-soggetto, post-umano, post-verità, ecc.), forse per attirare l’attenzione dei media e del grande pubblico sui temi della letteratura (sul suo statuto, sul rapporto finzione-verità che l’attraversa, sulla natura dei personaggi che la abitato, ecc.) bisognerebbe parlare di post-letteratura. Sono sicuro che se avessi intitolato il saggio «La post-letteratura» le interviste sarebbero fioccate. Ma questa disciplina non esiste. Siamo seri: esistono solo la vera letteratura e la non letteratura. Quest’ultima svolge, senza alcun dubbio, alcune importanti funzioni: divertire, consolare, commuovere, far sognare, ecc., ma proprio per questa ragione, nell’istante stesso in cui essa si dedica al raggiungimento di tali obiettivi, essa anche tradisce quello che mi sembra essere l’unico vero scopo di ogni autentico scrittore: mi ripeto, rendere testimonianza ad alcuni aspetti essenziali dell’esperienza umana. Anche su questo punto, che si lega strettamente al tema della «cultura» più sopra menzionato, la O’Connor è estremamente lucida: molti sedicenti scrittori «Vogliono parlare di problemi, e non di persone, di questioni astratte, non di situazioni concrete. Hanno un’idea, un sentimento, un io strabocchevole, o vogliono Essere Scrittori, oppure elargire saggezza in forme abbastanza semplici perché il mondo sia in grado di assorbirle. In ogni caso, non hanno una storia in testa, e anche se l’avessero non sarebbero disposti a scriverla; in assenza di una storia, partono alla scoperta di una teoria, di una formula o di una tecnica».