
Come disciplinava il diritto romano la patologia mentale?
Se consideriamo la lunga e dolorosa battaglia che l’Europa di età moderna ha dovuto affrontare per restituire dignità al malato mentale, desta sorpresa che, come si è appena visto, la valutazione giuridica nelle fonti classiche sia volta a tutelare la salute, il patrimonio e lo status del furiosus. Anzi la condizione mentale in cui il soggetto versa (se cittadino o cittadina, naturalmente, perché altro è come sempre il discorso per gli schiavi) in nessun caso ne pregiudica la dignitas. Piuttosto l’interesse prima del legislatore e poi dei giuristi è quello di prevenire e correggere eventuali situazioni pregiudizievoli che possano verificarsi in capo al furiosus e ai suoi congiunti. In epoca classica, il furere non limita la soggettività giuridica, ma solo la capacità di agire: il manuale delle Istituzioni di Gaio (3.106) spiega che il furiosus non può porre in essere alcun negozio perché non capisce quello che fa. Fintantoché perdura la condizione contemplata dal ius, gli atti illeciti non sono a lui imputabili. Il furiosus per usare termini moderni non è nel diritto classico un interdetto. Insieme allo status e alla dignitas, oltre alle cariche magistratuali e al patrimonio, conservava il matrimonio e anche la patria potestas sui figli che rimanevano a lui soggetti, insieme agli eventuali nipoti. Al furiosus o alla furiosa in epoca classica è assegnato un curatore. Un frammento di un’opera del giurista Giuliano (D. 27.10.7.1. Iul. 21 dig.) chiarisce quali ne siano i compiti: “tramite il senno (consilium) e l’attività (opera) del curatore deve essere tutelato non solo il patrimonio, ma anche il corpo e la salute del furiosus”. La fonte mette l’accento sul consilium che il curatore deve prestare a chi la mente l’ha persa. Per rispettare il senso della norma, mi è sembrato opportuno rendere consilium non con ‘consiglio’, come si fa in genere, ma con ‘senno’; il curatore cioè deve impiegare la propria ‘intelligenza’ e la propria opera per tutelare il corpo e la salute del suo assistito. E non di rado il curatore veniva sostituito dal pretore quando non era all’altezza del delicato compito che gli era stato assegnato.
Quali distinzioni lessicali opera la dottrina romanistica in materia?
La ringrazio molto per questa domanda. In realtà gli studiosi di diritto romano si sono concentrati, come è naturale, principalmente sui termini utilizzati dai giuristi senza operare una comparazione di insieme del lessico della follia a Roma. Eppure i termini latini per designare una persona affetta da patologia mentale sono numerosissimi: dal più semplice non sanus, insanus, vesanus a amens, demens, mente captus, non compos mentis, non suae mentis, non sanae mentis, absens, vecors, insipiens, desipiens, delirus, fatuus, alienus, alienatus, ai più colorati furiosus, fanaticus, lunaticus, larvatus, lymphatus, nymphatus, cerritus, e ancora a melancholicus e morio presi in prestito dal greco, ai meno consueti e tardi stultus, follis e mattus, i cui derivati sono quelli per noi più vicini. Quando Cicerone più volte esalta la superiorità del latino sul greco per quel riguarda la follia – multoque melius haec notata sunt verbis Latinis quam Graecis – forse non sta esagerando. E allora è possibile che ognuno di essi volesse dire semplicemente pazzo? Troppo spesso si è rinunciato a cogliere le differenze e gli usi specifici di un lessico così differenziato. I lemmi elencati sono cronologicamente distanti, alcuni sono usuali, altri rari e ricercati. Alcuni appartengono a lessici tecnici (medico o giuridico), altri conoscono un uso generalizzato e indifferenziato che va dall’insulto (insanus) alla definizione specifica Sebbene alcuni termini siano usati congiuntamente in maniera rafforzativa, in molti casi è possibile cogliere le sfumature diverse con cui si guardava al disordine mentale. In questa congerie di termini colorati e variegati, che hanno alle spalle storie lessicali affascinanti, comprendere quali siano stati scelti, se non addirittura introdotti dai giuristi, ci aiuta a decifrare casi giuridici che resterebbero monchi senza una esatta comprensione dei termini specifici e a cogliere meglio l’atteggiamento del legislatore antico e degli operatori del diritto rispetto alla patologia mentale. Per fare un unico esempio, riprendiamo il termine furiosus che, come si è visto, compare per la prima volta nelle XII tavole. Esso non ha alcun riscontro nella letteratura arcaica ed è ipotizzabile che solo in un momento molto più tardo della storia romana sia transitato dal linguaggio giuridico a quello poetico dell’epoca imperiale per qualificare, in analogia con furere e furor, il più riconoscibile ed effervescente dei pazzi. Nella sua accezione primitiva, ho cercato di dimostrare, esso era stato coniato per indicare una situazione di palese di “cecità della mente”.
In che modo linguaggio tecnico e linguaggio comune divergono in relazione al fenomeno dell’alienazione mentale?
Per rispondere a tale domanda è necessario far interagire linguaggi che si è abituati a mantenere distinti. Attraverso la comparazione tra fonti giuridiche e letterarie, mi è sembrato di poter distinguere il lessico latino della follia in due diversi gruppi: uno che rimanda a stati eccezionali e positivi di esaltazione o possessione divina, e un altro a condizioni di infermità e di menomazione mentale. Questa era d’altra parte la suddivisione proposta dagli antichi stessi che per altro si mantiene anche nella nostra cultura. Da una parte vi è l’ammirazione per la follia del genio, dono divino o divina intuizione, dall’altra vi è una sorta di ripugnanza per la follia ‘malattia’, sofferenza aberrante dalle multiformi manifestazioni. Le parole latine che dipendono etimologicamente dal modello della possessione divina sono: furiosus, amens, larvatus, cerritus, lymphatus, bacchatus, demens, mente captus, fatuus, fanaticus, lunaticus, alienus. Alcune di esse veicolano esplicitamente il collegamento con la divinità o con forze divine (Furiae, Larvae, Ceres, Bacchus), altre implicano la partecipazione a culti (bacchatus, fanaticus) o alla pratica del pronunziare vaticini (fatuus); altre ancora (amens, demens, mente captus) sono piuttosto costruite intorno all’idea di un ‘allontanamento’ della mens che fa del corpo un ricettacolo vuoto in cui possa penetrare dall’esterno la divinità o una forza demonica. I vocaboli che riguardano invece la condizione patologica sono innanzitutto: insanus, vesanus, vecors, che muovono a partire dal concetto dalla privazione della salute mentale. Sottendono invece la mancanza di senno o di ragione: insipiens, desipiens, stultus, morio, delirus, follis, mattus. Gli ultimi due – follis e mattus – sono in realtà molto tardi, ma li ho inclusi comunque perché sono quelli che sono per noi oggi i più usuali e generici per designare la malattia mentale.
Tra questi due modelli di follia – quello legato alla malattia e quello in qualche modo riferibile a un intervento divino – i giuristi optano senza incertezze per il secondo perché etimologicamente legato a una forma di spossessamento con la relativa perdita della capacità di agire. Questo orientamento emerge anche da una analisi quantitativa delle occorrenze. Se analizziamo per un momento i soli Digesta giustinianei ci accorgiamo che furiosus (244 occorrenze), demens (12) e mente captus (7) sono le parole più frequenti. Esse presuppongono tutte la possessione divina o la assenza della capacità del soggetto che deriva dalla possessione. Inoltre oltre il novanta per cento del lessico giuridico della follia ruota intorno al furiosus. Gli altri termini vantano pochi riferimenti: demens (7), fatuus (4), insanus (2), vesanus (1), vecors (1), bacchatus (1), lunaticus (1), melancholicus (1), morio (1), fanaticus (1), φρενητικώς (1). Analogamente con prudenza i giuristi un termine come furor che possiede sfumature persino positive rispetto al comune insania.
Scelto o creato ad hoc il proprio lessico, il giurista di rado se ne discosta. Esiste una evidente divaricazione tra la lingua dei giuristi o dei medici, e quella dei poeti, oratori e scrittori. Gli uni decisamente non amano usare il gergo degli altri. Nella grande varietà di termini che la lingua latina offriva, i giuristi, come abbiamo visto, hanno scelto prevalentemente quelli che rimandavano alla possessione divina, evitando accuratamente quelli utilizzati dal linguaggio comune. Viceversa i letterati e i medici (o quanti si occupavano di medicina) difficilmente hanno usato le parole dei giuristi e talvolta hanno iniziato ad accoglierle solo a partire dalla tarda repubblica e dal primo principato.
Aglaia McClintock insegna Istituzioni e storia del diritto romano nell’Università del Sannio a Benevento. Giurista e storica, ha un profondo interesse per l’antropologia del mondo antico, soprattutto per quanto riguarda le sue interazioni con la storia del diritto romano. Tra i temi di ricerca si segnalano il diritto criminale; la condizione giuridica delle donne; le rappresentazioni iconografiche e religiose della giustizia romana; la disciplina della follia. Della sua produzione ricordiamo la monografia Servi della pena. Condannati a morte nella Roma imperiale (Napoli, ESI, 2010) e per Il Mulino la cura di Giuristi nati (2016) e Storia mitica del diritto romano (2020).