
È il caso – appunto – della frontiera con la Svizzera, situata a Chiasso, «una delle frontiere più innaturali del mondo»: «l’italiano è parlato da una parte e dall’altra, la religione cattolica è sempre stata la stessa, né esiste alcun motivo geografico di divisione.» Eppure «Chiasso è il nostro confine più antico»: «dal 1515 l’Italia finisce lì, […] 345 anni più di quello di Ventimiglia creato da Cavour nel 1860 cedendo Nizza alla Francia. E assai più di Brennero e Tarvisio, raggiunti soltanto con la prima guerra mondiale; o di Gorizia e Trieste, nostri limiti orientali dal 1947.»
«Pochi chilometri a nord c’è il lago di Lugano. Quello sì avrebbe potuto fornire un limite visibile: la sponda sud all’Italia, a settentrione la Svizzera. Invece anche questo è uno dei laghi più contorti e complicati del pianeta: prima svizzero all’aeroporto di Agno, poi italiano da Ponte Tresa a Porto Ceresio (Varese), quindi ancora svizzero dal ponte-diga autoferroviario Melide-Bissone fino a Lugano, infine di nuovo italiano a Porlezza (Como). E in mezzo pure la nostra enclave di Campione. Un altro confine plausibile fra Italia e Svizzera avrebbe potuto essere, appena sopra Lugano, il passo Monte Ceneri. […] Separa il bacino del fiume Ticino da quello del lago di Lugano. In realtà per trovare il vero confine geografico, etnico e linguistico italiano bisogna andare ottanta chilometri ancora più a nord, oltre Bellinzona, al passo del San Gottardo. Lì troneggia a 3192 metri di altezza il crinale delle Alpi, lì iniziano la valle del Ticino e il cantone omonimo. Per duemila anni quello spartiacque è stato la frontiera naturale fra Europa del nord e del sud».
«Ma perché la dogana sta proprio a Chiasso, separando un paesone elvetico con ottomila abitanti dai duemila della contigua Ponte Chiasso, frazione di Como?» si chiede Suttora. È in seguito alla battaglia di Marignano, del 13 settembre 1515, che gli svizzeri devono ritirarsi dalla Lombardia, fissando la frontiera a Chiasso. Il successivo trattato di Friburgo, nel 1516, «traccia il confine assurdo che separa ancor oggi la Svizzera dall’Italia. Basti dire che Chiasso, sobborgo di Como, finisce nel Canton Ticino solo perché un secolo prima è entrato nella pieve della contigua Balerna al momento dell’assegnazione di questa alla signoria dei Rusca (Rusconi). A sua volta Balerna passa al conte Bartolomeo Crivelli nel 1499, e poi agli svizzeri che la inseriscono nel baliaggio di Mendrisio. Quindi, pur trovandosi a soli due chilometri da Como, entra nell’orbita elvetica. Non c’è alcuna logica in questa frontiera spezzettata sotto il lago di Lugano, se non quella di antichi lasciti: per esempio, il paese di Stabio è annesso alla Svizzera nel 1517, quando viene scambiato con Domodossola nel trattato di Ponte Tresa.»
Come sono «molti gli spartiacque non rispettati»: Livigno (Sondrio), San Candido (Bolzano) o Tarvisio (Udine), «decine di chilometri quadrati e intere vallate italiane […] non fanno parte del bacino del Po, ma stanno al di là delle Alpi.»
Il libro svela anche particolari poco noti: ad esempio «chi ricorda che il generale Charles de Gaulle nel 1945 voleva annettere alla Francia l’intera Val d’Aosta e metà Piemonte?» È il 25 aprile 1945 e il generale «ordina ai suoi soldati di “liberare” Aosta […]. Gli alleati angloamericani danno ai francesi il permesso di sconfinare in Italia per non più di venti chilometri. Invece loro scendono dal Piccolo San Bernardo e dilagano nella val di Rhêmes. A quel punto, però, l’invasione di de Gaulle provoca una reazione incredibile: l’unico caso al mondo di alleanza fra partigiani e fascisti. Il comandante della resistenza valdostana Augusto Adam ordina ai suoi di opporsi ai francesi, e contemporaneamente di non sparare più agli alpini di Salò contro i quali fino al giorno prima hanno combattuto fino alla morte, ma che continuano a difendere il confine. Una volta bloccato il nuovo comune nemico, chiede ai repubblichini di ritirarsi «il più lentamente possibile» verso Aosta, per dare tempo agli angloamericani di intervenire posizionandosi a Pré-Saint-Didier. Durante il mese e mezzo di occupazione, fino al 10 giugno, i francesi commettono un grave errore. Nelle zone che amministrano si comportano come i fascisti: lingua italiana vietata, angherie, ostacoli al rientro a casa degli ex combattenti. Così gli annessionisti valdostani, pur avendo raccolto ventimila firme per un referendum, perdono forza. E prevalgono i partigiani filoitaliani guidati dall’illustre storico Federico Chabod: la Val d’Aosta rimane italiana in cambio di bilinguismo e forte autonomia».
Come scrive Claudio Magris, «i confini muoiono e risorgono, si spostano, si cancellano e riappaiono inaspettati. Segnano l’esperienza, il linguaggio, lo spazio dell’abitare, […] la psiche con le sue scissioni e i suoi riassestamenti, la politica con la sua spesso assurda cartografia, l’io con la pluralità dei suoi frammenti e le loro faticose ricomposizioni, la società con le sue divisioni, l’economia con le sue invasioni e le sue ritirate, il pensiero con le sue mappe dell’ordine». Tutto. Insomma, «siamo fatti di confini, in ogni nostro ambito.»