“Confindustria nella Repubblica (1946-1975). Storia politica degli industriali italiani dal dopoguerra alla strategia della tensione” di Elio Catania

Dott. Elio Catania, Lei è autore del libro Confindustria nella Repubblica (1946-1975). Storia politica degli industriali italiani dal dopoguerra alla strategia della tensione edito da Mimesis. Come dimostra nel libro, l’azione di Confindustria non si è limitata solo alla difesa sindacale dei propri associati ma essa spesso ha agito di fronte a minacce reali o percepite: in che modo l’organizzazione degli industriali ha condizionato gli equilibri della nostra democrazia?
Confindustria nella Repubblica (1946-1975). Storia politica degli industriali italiani dal dopoguerra alla strategia della tensione, Elio CataniaLa premessa necessaria è che non dobbiamo immaginare il ruolo di Confindustria – e in generale di nessun attore sociale e politico nello specifico – come determinante in assoluto: gli industriali privati hanno giocato la loro partita in difesa di interessi particolari, quelli del capitale privato, che però culturalmente hanno sempre identificato, in maniera convinta o opportunista, con quelli “generali” e nazionali; visione che hanno imposto anche al ceto politico, trovandosi a far parte di una classe dirigente che ne condivideva la cultura politica ed economica. Da questo punto di vista, però, il loro peso nel dopoguerra è stato sicuramente maggiore di quello di altri attori – ad esempio, i sindacati – anche grazie alla continuità con il periodo fascista. Per l’Italia la storiografia ha parlato infatti di “transizione senza rotture” dalla dittatura mussoliniana alla Repubblica parlamentare e conseguente “consolidamento debole” della democrazia. Gli elementi di continuità che qui ci interessano sono relativi sia allo Stato italiano che alla Confindustria stessa: da un lato, infatti, fin dalla Prima guerra mondiale il potere politico ha affidato di fatto al ceto imprenditoriale la co-gestione delle politiche economiche e industriali, tramite i Consorzi misti e gli Enti parastatali, basandosi inoltre sul monopolio confindustriale nella produzione di dati e sapere; persino il fascismo avrebbe concesso ampia autonomia a una Confindustria che di fatto accettò l’integrazione nel sistema di potere del regime. Dall’altro lato e a questo proposito, il tema è l’assenza di una cultura democratica nella classe industriale: la Confindustria che passa in modo pressoché indenne la caduta del fascismo il 25 luglio, la guerra civile e la Resistenza dopo l’8 settembre, la Liberazione è una organizzazione che non subisce (al pari di esercito, apparati di sicurezza, corpi di polizia, pubblica amministrazione) condanne nei processi di epurazione e vede garantita la continuità di capitali, impianti produttivi, quadri e dirigenti.

Di fronte alla possibilità aperta dal nuovo contesto democratico post-resistenziale di scenari maggiormente progressisti, fino all’esito (più percepito che reale) rivoluzionario (sognato da molti, temuto al pari da tanti), Confindustria non è una organizzazione pronta ad accettare tout court la democrazia e le sue regole, soprattutto quando le identifica con forme di governo e politiche che ne minaccerebbero gli interessi. Pur nelle profonde differenze interne, che portarono a contrasti aspri tra i suoi membri più importanti e tra le diverse componenti, Confindustria adottò come organizzazione e singole imprese modalità di intervento politico che andarono dal lobbismo puro fino alle “relazioni pericolose” con quelle conglomerazioni di interessi e alleanze politiche che nella storia repubblicana più volte si mossero al di fuori e contro le regole democratiche, per condizionare o bloccare scelte politiche e sviluppi considerati troppo sfavorevoli a un fronte conservatore che si sentiva minacciato dagli esiti elettorali e dai ripetuti cicli di conflitto sociale animati in prima battuta dal lavoro operaio, precario e femminile.

Solo per citare alcuni dei fatti più importanti, i documenti ci dicono del ruolo di alcuni industriali, come quel Franco Marinotti della SNIA Viscosa che pure fece il doppio gioco anche con fascisti e nazisti, nell’accumulazione di un “tesoretto” in Svizzera utile alla formazione di una base economica per il futuro movimento neofascista all’indomani del 25 aprile; altri confermano il finanziamento e il sostegno a quella effimera ma importante formazione golpista che fu l’Armata Italiana di Liberazione, attiva tra il ’46 e il ’47 in particolare a Milano, che rifiutò l’esito del referendum istituzionale; ancora, dal 1949 parte quella colossale opera di schedatura interna alla FIAT, che andrà avanti fino al 1971 in collaborazione con il servizio segreto militare, producendo 354.077 schede informative su lavoratori e dipendenti; sempre la FIAT sarà la principale finanziatrice delle attività di provocazione anti-operaia di Luigi Cavallo, “mercenario” anti-comunista che tornerà più volte nei primi 30 anni della Repubblica; sotto la presidenza De Micheli, Confindustria approverà il finanziamento alla organizzazione para-golpista “Pace e Libertà” di Edgardo Sogno, sotto egida NATO; sappiamo che nel ’63 nasce il Centro di Iniziativa Sociale (avente sede nello stesso domicilio della società di copertura dell’Ufficio REI del SIFAR, a palazzo Doria a Roma), finanziato nell’ambito di un potenziamento del “fondo straordinario” interno a sostegno del cosiddetto “Noto programma”, contemporaneo al “piano solo” e al golpe De Lorenzo. E ancora: i rapporti con i gruppi neofascisti sin dalla metà degli anni Cinquanta, dai finanziamenti al Movimento sociale italiano fino a Ordine Nuovo le varie formazioni di Junio Valerio Borghese. Per arrivare poi agli anni della strategia della tensione, dove i sostegni economici e la partecipazione di esponenti confindustriali a iniziative golpiste di varia natura si moltiplicano, perdendosi nella complessità del quadro generale del quinquennio ’69-’74. Su tutto questo pesa la presenza di una documentazione vasta e l’ombra di bilanci inaccessibili, rapporti interni mai pubblicati e archivi di cui non sappiamo l’ubicazione.

Quale ruolo ha avuto Confindustria nel determinare le forme della Ricostruzione e, successivamente, della modernizzazione in Italia?
Questo tema è legato proprio a quanto dicevamo poco fa: un consolidamento debole della democrazia, anche dentro Confindustria. Perché la partita che si gioca all’indomani della guerra e in generale in ogni cambio di regime politico è anche quella del modello di sviluppo e delle relazioni economiche che la classe dirigente del nuovo regime decide di costruire. Quando parlo di “condizionamento degli equilibri democratici” intendo proprio questo: la possibilità di politiche economiche aventi come base la redistribuzione del reddito e la costruzione di un sistema di welfare e solidarietà sociale, attraverso anche una programmazione che coniugasse sviluppo economico e “diritti di cittadinanza” per il lavoro dipendente e i redditi più bassi. Nulla di rivoluzionario insomma, ma un moderno compromesso socialdemocratico.

Quello che invece si impone nel dopoguerra è un “compromesso senza riforme” (l’espressione è dello storico dell’economia ed economista Fabrizio Barca): la Ricostruzione si basa su compressione salariale e, tramite questa, facilità di accumulazione per il capitale privato – favorito anche dall’ingente massa di denaro che arriva con il programma ERP, meglio noto come “piano Marshall”, che saranno proprio le Commissioni miste di cui parlavamo prima a gestire, sulla base delle informazioni e dei piani di investimenti suggeriti dai Centri studi di Confindustria; si rinuncia a costruire un moderno welfare state in favore invece di misure una tantum ed eccezioni fiscali e normative, in particolare per le imprese e un ceto medio ancora debole ma in via di consolidamento; interventi straordinari (esemplificati dalla Cassa per il Mezzogiorno) invece di programmazione economica di lungo periodo, che avrebbe richiesto necessariamente un intervento nella sfera economica molto più importante da parte dello Stato, come avvenuto ad esempio in Francia, Regno Unito e Germania Federale. Tutto questo comportò livelli di sviluppo geograficamente diseguale e disuguaglianza sociale tra i più alti dell’Europa occidentale, con un ritmo di crescita dei salari contenuta o nulla, a differenza di una accumulazione di reddito da rendita e impresa che proprio alla fine degli anni ’50 esplode nel “miracolo economico”. Che però “miracolo” non fu: venne permesso infatti dal contenimento dei redditi da lavoro e dallo sviluppo di una industria pubblica che, sebbene osteggiata da Confindustria e progressivamente in competizione fino allo scontro aperto con essa, avrebbe garantito la fornitura di materie e lavorati a basso costo per la produzione privata. L’elemento di riequilibrio principale su cui potevano contare i lavoratori era la cosiddetta “scala mobile”, ovvero l’adeguamento del salario (della sua componente variabile, definita “indennità di contingenza”, che all’inizio dei ’70 pesava per il 74% sulla paga del lavoratore) al costo della vita e all’inflazione. E sarà proprio su questo strumento, che prevedeva al suo interno una differenziazione su base geografica, di qualifica, genere, età, che si sarebbe fondata la politica salariale fino agli anni ’80. E le lotte conseguenti da parte dei lavoratori, assieme al piano della struttura contrattuale delle diverse categorie. La diseguaglianza sottesa a questo modello avrebbe determinato, pur nelle differenze e modifiche che in trent’anni vi furono, fu la causa anche dell’alto tasso di conflittualità e di vertenze lavorative (non solo del lavoro di fabbrica, ma anche del vasto “indotto precario” che in particolare il “boom economico” e poi la grande migrazione dal Sud verso il Nord comportarono) che ha storicamente caratterizzato la storia sociale italiana, con una disponibilità (anche nelle forme e nei tempi) alla lotta unica nello scenario occidentale della seconda metà del ‘900. Così come della reazione del padronato italiano (dagli anni ’60 non più solo quello privato, ma anche la nuova “razza padrona” dell’impresa di Stato) e del blocco politico-sociale di riferimento nel difendere questo modello di modernizzazione, che richiedeva un equilibrio centrista e moderato, dove anche le ipotesi riformiste non avrebbero dovuto mettere mai in discussione la politica dei redditi e la compressione salariale. Da qui le azioni politiche più disinibite e le relazioni più “inconfessabili” di cui dicevamo, dove la democrazia piena e non condizionata era identificata con il “pericolo marxista” o, più onestamente, con scenari più favorevoli al benessere e ai diritti della vasta maggioranza dei redditi da lavoro.

Quali vicende hanno segnato la storia politica dell’organizzazione industriale nel periodo esaminato?
Di alcune di queste abbiamo già detto, si tratta di fatto di come Confindustria si è mossa nelle vicende più generali del Paese. Possiamo comunque individuarne alcune più significative:

  • la vertenza apertasi alla FIAT di Torino nel periodo del commissariamento (1945-46), conclusasi con l’accordo del dicembre 1946 sottoscritto dall’allora presidente Angelo Costa e sul cui modello si sarebbe definito il sistema della “scala mobile”;
  • 1953, anno cruciale: la definizione del “piano Sinigaglia” per lo sviluppo di una industria pesante pubblica, che successivamente approvato avrebbe portato all’apertura dello stabilimento di Cornigliano da molti considerato come l’evento di avvio del “miracolo economico”;
  • nello stesso anno, la nascita dell’ENI nelle mani di Enrico Mattei ed Eugenio Cefis, il più potente ente economico di Stato, che soprattutto nel campo energetico avrebbe rappresentato il principale avversario di Confindustria nei decenni successivi;
  • 1956: il “distacco” delle imprese pubbliche da Confindustria, con la costituzione del ministero delle Partecipazioni statali e autonome organizzazioni sindacali di rappresentanza;
  • 1962: la nazionalizzazione dell’energia elettrica, dopo un lungo braccio di ferro tra il governo Fanfani e in particolare la Edison di Giorgio Valerio e De Biase, principale azienda italiana specializzata proprio nel campo energetico;
  • 1963-64: il contrasto al primo centro-sinistra organico e in particolare al suo programma riformatore, promosso dal ministro del Bilancio il socialista Antonio Giolitti;
  • 1969 e 1972: i due “autunni caldi” e le molteplici vertenze sulle scadenze contrattuali, che culmineranno poi nelle occupazioni delle fabbriche nella primavera del ’73;
  • 1970: il “rapporto Pirelli” che portò a una riforma e ammodernamento interno a Confindustria;
  • 1975: l’accordo sul punto unico di contingenza della “scala mobile” tra i sindacati confederali Cgil-Cisl-Uil e la presidenza confindustriale di Gianni Agnelli.

Chi sono stati i principali protagonisti di quella stagione?
Non dobbiamo immaginare Confindustria come un blocco compatto e omogeneo: al suo interno infatti è possibile individuare diverse posizioni rispetto ai rapporti con il potere politico e i sindacati, l’intervento pubblico in economia e la questione salariale; queste sono influenzate sia dalla cultura politica propria dei singoli dirigenti, ma anche dal ramo di produzione e investimento della propria azienda. Da questo punto di vista, nella storia confindustriale è possibile individuare due poli principali: quello “milanese”, che rimase a lungo egemone (e lo è tuttora), espresso in particolare da Assolombarda e dalle imprese del campo energetico, ma anche da cementieri e edili, rappresentante di quella che possiamo definire “destra” industriale; quello “torinese”, espresso dalla FIAT e che ha avuto un suo importante alleato nell’azienda milanese Pirelli, rappresentante del “centro” e della “sinistra” industriale.

Avendo presente questo schema sintetico, i protagonisti furono sicuramente il primo presidente della Confindustria repubblicana, l’armatore genovese e imprenditore nel campo dell’olio, Angelo Costa; Vittorio Valletta, il potente amministratore delegato FIAT che gestì l’azienda degli Agnelli fino al ’66; Gianni Agnelli, “l’Avvocato”, che prende le redini della FIAT dopo Valletta e guiderà anche Confindustria dal ’74 al ’76 (primo esponente delle grandi famiglie industriali a finire al vertice della confederazione), gestendo la trattativa che porterà all’accordo sul punto unico di contingenza; Giorgio Valerio e Vittorio De Biase, della Edison e, dopo acquisizione della Montecatini, Montedison, tra i principali esponenti della “destra” industriale; Eugenio Cefis, successore di Mattei alla guida dell’ENI e dal ’71 presidente di Montedison (dopo aver scalzato Valerio), principale protagonista della “rivoluzione” interna all’Ente di Stato e poi fautore del compromesso tra capitale pubblico e privato a metà anni ’70; Attilio Monti, petroliere e unico imprenditore finito a processo (poi assolto) nell’ambito del primo processo sulla strage di piazza Fontana; Andrea Piaggio, della omonima ditta, anch’egli finito a processo (poi assolto), ma in questo caso nel processo sul piano golpista della “Rosa dei Venti”.

Che ruolo ha svolto l’organizzazione degli industriali nel “quinquennio nero” 1969-1974?
Come già emerso prima, Confindustria e i singoli imprenditori hanno sviluppato nel corso degli anni rapporti con l’estrema destra e con tutto quel mondo conservatore che, anche all’interno della classe dirigente e degli apparati di sicurezza dello Stato, percepiva (o che diceva opportunisticamente di crederci) l’imminenza di un “pericolo marxista” in Italia; questo a causa della presenza del maggiore Partito comunista nel mondo occidentale (e il terzo al mondo dal ’65 per numero di iscritti, dopo quelli sovietico e cinese) e dell’alto tasso di conflittualità sociale della sua classe operaia. Dalla metà degli anni ’60 Confindustria si associa a quello che ho definito “blocco civile-militare”, insieme di interessi e rapporti formatosi in Italia all’insegna della teoria della “guerra rivoluzionaria”, dottrina ufficiale dell’Alleanza Atlantica che prediligeva la destabilizzazione tramite guerra coperta di quei Paesi considerati a rischio nella cornice binaria della Guerra fredda (“o con noi o con l’URSS”).

Le “relazioni pericolose” iniziano a essere coltivate già all’indomani della Liberazione, ma è alla fine degli anni ’60 che si concretizzano in quella vera e propria “guerra sporca” che fu la stagione delle stragi di Stato e dei tentati colpi di Stato da parte di neofascisti e fronte moderato-conservatore in Italia: come già anticipato, sono solo due gli imprenditori coinvolti nei processi per i fatti di quegli anni (Monti e Piaggio); tuttavia è documentato storicamente e in alcuni casi anche in sede giudiziaria, nell’ambito delle indagini preliminari, il sostegno economico a organizzazioni di estrema destra (Ordine Nuovo e il Fronte Nazionale di Borghese), così come a quella eterogenea galassia anti-comunista (il MAR di Carlo Fumagalli, le attività del già citato Luigi Cavallo, i Comitati di resistenza democratica di Sogno, il movimento Nuova Repubblica di Randolfo Pacciardi, l’Istituto di alti studi militari Alberto Pollio). Come per il “blocco civile-militare”, anche definito nel corso degli anni “partito del golpe” (Gianni Flamini), anche per gli imprenditori probabilmente non vi era un disegno unico né un fine omogeneo. La storiografia della strategia della tensione ha infatti individuato due correnti principali al suo interno: quella di chi sognava una soluzione “alla greca” o “alla sudamericana” dell’anomalia italiana, con un golpe militare che instaurasse un regime autoritario di destra (tra i nostri è ad esempio il modello prediletto dai dirigenti Montedison); quella degli ammiratori del generale francese Charles De Gaulle, che a fine anni ’50 con il suo “golpe bianco” impose una svolta presidenzialista forte e portò alla rottura istituzionale tra Quarta e Quinta Repubblica in Francia (il grande centro protetto, più nelle corde della FIAT).

Elio Catania (classe 1990) si è laureato in Storia dei conflitti nel mondo contemporaneo all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, dove ha conseguito anche il master di II livello in Public History. Si è occupato di progettazione di laboratori didattici a tema storico per scuole e università con l’Associazione Lapsus. Ha realizzato i progetto di storia orale “Sopra il vostro settembre” e “Dhakira Gaza Project”. Attualmente lavora nel campo del contrasto e della prevenzione alla dispersione scolastica. È co-autore di Dopo le bombe. Piazza Fontana e l’uso pubblico della storia (Mimesis Edizioni, 2019).

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