
Per quanto riguarda l’utilità della concentrazione, penso che sia abbastanza ovvia: nessun esito positivo scaturisce dalle nostre azioni, salvo casi accidentali, in assenza della necessaria concentrazione. Concentrarsi migliora significativamente e sistematicamente la qualità dei risultati ottenuti col proprio comportamento. Tuttavia, il suo valore non è meramente strumentale: la concentrazione perfeziona non solo gli esiti, ma anche la qualità stessa dell’azione. Non a caso, l’ultima parte del libro è significativamente intitolata “Chi si concentra gode”. Non è un modo di dire: studi sulle “esperienze ottimali” hanno mostrato chiaramente come la concentrazione migliori la qualità della vita – non solo in contesti già favorevoli, ma anche in situazioni difficili e potenzialmente alienanti, ad esempio nel lavorare a una catena di montaggio. Infine, la concentrazione è un bene in se stesso in quanto auto-rinforzante: concentrarsi su un gioco allena a concentrarsi sul lavoro, e concentrarsi su un compito non particolarmente appassionante prepara a fare altrettanto, con maggiore facilità, sui lavori che davvero ci interessano. Soprattutto, la concentrazione stessa è uno dei principali fattori di interesse: qualunque cosa diventa interessante, se la affrontiamo con cura, impegno e dedizione – vice versa, ogni attività si tramuta in un calvario, se ce ne occupiamo in modo distratto e superficiale.
Siamo realmente di fronte a una “crisi della concentrazione”?
Dipende da cosa si intende per “crisi della concentrazione”. Se si allude al fatto che il contesto informativo, sociale e tecnologico in cui ci muoviamo rende più difficile concentrarsi di quanto non fosse in passato, allora è probabile che tale preoccupazione sia fondata e degna di considerazione. Ma se invece ci si riferisce, come spesso capita, a presunte atrofizzazioni delle nostre capacità cognitive e a deficit congeniti della nostra attenzione, generati da tragici mutamenti antropologici indotti da “cattive tecnologie”, allora si tratta di lamentazioni assolutamente infondate e fuorvianti. Nel libro dedico gran parte del secondo capitolo a sfatare svariati miti sulla presunta crisi della concentrazione, a cominciare dalla nefanda curva temporale dell’attenzione, secondo cui dopo una decina di minuti dall’inizio di qualunque relazione orale la nostra concentrazione sarebbe condannata a precipitare rovinosamente: una panzana priva di qualunque conferma empirica, nata una cinquantina di anni fa sulla base di impressioni personali di un singolo docente universitario (probabilmente molto noioso e in cerca di giustificazioni…), ripetutamente smentita da studi successivi, e tuttavia ancora oggi propinata in corsi di marketing e public speech come verità rivelata delle scienze comportamentali, se non addirittura invocata per giustificare una diversa organizzazione della didattica a scuola. Purtroppo non si tratta di un caso isolato: un esemplare più recente di “bufala della concentrazione” è il cosiddetto goldfish effect, secondo il quale l’esposizione alle tecnologie digitali avrebbe ridotto la nostra capacità attentiva a livelli inferiori a quelli di un pesce rosso – in particolare, ci risulterebbe impossibile concentrarci su un contenuto online per più di 8 secondi. A dispetto dell’ovvia falsità di tale affermazione, la sua pubblicazione nel 2015 in un rapporto della Microsoft (poi convenientemente sparito dalla rete e oggi introvabile) ha fatto sì che venisse ripresa con gusto sensazionalistico da media rispettabili (Time e BBC, per citarne due particolarmente autorevoli), e da allora il mito della rete che rende più distratti di un pesce rosso nuota felice nel mare magnum della cattiva informazione. Ecco, simili versioni della presunta “crisi della concentrazione” sono pure e semplici baggianate, e come tali vanno trattate. La nostra capacità di concentrarsi è rimasta la stessa che avevano i nostri antenati pre-digitali: ciò che cambia, invece, sono gli ostacoli che il contesto in cui viviamo pone all’esercizio di tale capacità. È su questo che le tecnologie hanno sicuramente un ruolo importante, non su fantomatiche mutazioni antropologiche o ritardi cognitivi.
Da cosa sono causati i problemi di concentrazione che oggi tanti lamentano?
Come ho appena accennato, molti problemi sono figli del contesto in cui cerchiamo di esercitare la nostra concentrazione. Le tecnologie non sono necessariamente il nemico, e infatti ne esistono molte che hanno effetti neutri o persino positivi sulla nostra propensione a concentrarci. Il problema nasce piuttosto dalla sovrabbondanza di sollecitazioni informative da un lato, che rende facile distrarsi (ma ovviamente ha anche conseguenze positive, in termini di possibilità conoscitive), e dal modello di business delle principali piattaforme dall’altro, a cominciare da molti social media. Il gran parlare che si fa, da qualche decennio a questa parte, di “economia dell’attenzione”, riferendosi all’accanimento con cui diverse aziende competono per attirare la nostra attenzione come risorsa scarsa, sembra suggerire che la concentrazione, oggi più che mai, sia un bene prezioso. Il che è certamente vero, se per “prezioso” intendiamo “economicamente redditizio”; ma lo è molto meno, se ci illudiamo che l’attenzione di cui si discute abbia vincoli stringenti di qualità. In realtà, l’attenzione che le aziende si contendono con ogni mezzo durante le nostre peregrinazioni digitali è quella, passeggera e impulsiva, che serve a notare una pubblicità piuttosto che un’altra, magari cliccarci sopra, o addirittura (caso raro, ma prezioso) finendo con l’acquistare il prodotto: acquisto che avviene tanto più facilmente quanto meno ci pensiamo sopra, il che dice molto sul tipo di “attenzione” che qui si cerca di convertire in valore economico.
Non solo: in questa economia l’attenzione spesso non è considerata bene ultimo, ma piuttosto oggetto di transazioni economiche che non ci coinvolgono direttamente. Quando Facebook, oggi Meta, vende spazi pubblicitari ad aziende private (la principale fonte di reddito della piattaforma, che le ha consentito di collocarsi stabilmente fra le prime dieci imprese al mondo per capitalizzazione di mercato dal 2016 a oggi), quello che sta vendendo è la nostra “attenzione”, che però viene misurata in modo assai grossolano: in sostanza, equivale al numero di utenti della piattaforma moltiplicato per il loro tempo medio di utilizzo. Quindi ciò che Facebook si aspetta da noi, in quanto essenziale al suo modello di impresa, non è la nostra concentrazione su questo o quel elemento della piattaforma, bensì qualcosa di molto più basilare: la nostra presenza online, possibilmente in ogni momento della giornata. Finché restiamo disconnessi, siamo sommamente inutili alle aziende di servizi digitali: non appena ci connettiamo alle loro piattaforme, invece, diventiamo un bene prezioso. Qui sta il cuore del problema: tenerci “agganciati” online per il maggior tempo possibile è il cardine del successo imprenditoriale di queste aziende, dunque non sorprende che le loro piattaforme siano progettate esattamente a tale scopo. Scopo che, purtroppo, si realizza più facilmente bombardandoci di stimoli superficiali e passeggeri, piuttosto che sollecitando una concentrazione prolungata su una singola attività significativa.
Quali contesti e quali circostanze rendono più facile concentrarsi?
Un buon punto di partenza per analizzare le caratteristiche funzionali della concentrazione è il lavoro dello psicologo Mihaly Csikszentmihalyi sull’esperienza ottimale o “flusso” (flow). Dal punto di vista del contesto, i fattori che facilitano la concentrazione sono tre: la presenza di obiettivi chiari, in modo che lo scopo di ogni mossa sia ben definito e univoco; meccanismi di retroazione rapidi e trasparenti, affinché il soggetto percepisca immediatamente e chiaramente gli effetti delle proprie azioni; infine, un buon bilanciamento tra sfida e capacità, giacché il compito non deve risultare né troppo facile (altrimenti subentra la noia) né troppo difficile (altrimenti emerge la frustrazione), dato l’attuale livello di preparazione del soggetto. A ciò si accompagna poi un elemento più interno, relativo all’atteggiamento ideale con cui predisporsi ad attività che richiedono concentrazione: la libertà da preoccupazioni esterne, relative sia agli esiti della propria azione, sia soprattutto al giudizio di chi ci sta intorno e potrebbe osservare il nostro comportamento. Chi si concentra con successo si interessa esclusivamente al compito a cui si dedica, non a ciò che altri penseranno della sua prestazione: proprio questa sospensione dell’immagine sociale è uno dei requisiti chiave della concentrazione, senza il quale l’esperienza ottimale è destinata a naufragare in un mare di preoccupazioni reputazionali.
È interessante notare che le condizioni ottimali per concentrarsi si realizzano spesso spontaneamente quando siamo impegnati in attività ricreative, quali i giochi e gli sport. Si tratta di esperienze preziose, veri e propri “laboratori naturali” della concentrazione in azione, a cui dobbiamo imparare a prestare attenzione, per imparare alcune utili lezioni da applicare poi in altri contesti, quali lo studio e il lavoro. Gli ingredienti che facilitano la concentrazione durante un gioco o una gara sportiva, infatti, sono gli stessi che aiutano a concentrarsi in qualunque occasione: obiettivi chiavi, feedback rapidi sull’andamento dell’azione, un adeguato equilibrio fra difficoltà del compito e nostre competenze, e totale disinteresse verso il giudizio altrui.
Quali suggerimenti possono risultare utili per concentrarsi?
Un primo suggerimento risulta ovvio, alla luce di quanto abbiamo detto finora: dato il ruolo cruciale del contesto nell’ostacolare o favorire la concentrazione, un ottimo modo per imparare a concentrarsi meglio consiste nel progettare il contesto. Si tratta di “apparecchiare il mondo” in modo che faciliti, anziché impedire, atti di concentrazione. Può sembrare un’indicazione vaga, invece è molto concreta, una volta che la si applica caso per caso. Prendiamo l’esempio dei social media, tipico terreno in cui si consuma un’estenuante frammentazione della nostra attenzione: anche qui è possibile organizzare il contesto in modo a noi più favorevole, non solo mettendo in atto soluzioni draconiane di completo abbandono delle piattaforme (come suggerito, fra gli altri, da Jaron Lanier nel suo “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social”), ma anche adottando politiche di uso consapevole del mezzo, customizzando sia la nostra rete sociale (non è obbligatorio esporsi alle opinioni di ogni mentecatto che ci capita di incrociare in rete), sia il flusso di informazioni che ci vengono proposte (con opportuni accorgimenti, è possibile liberarsi dalla “schiavitù degli algoritmi” che il sistema ci offre di default). Considerazioni analoghe si applicano a tutte le tecnologie digitali, e non solo a quelle: come sappiamo benissimo, il modo in cui organizziamo il nostro spazio di lavoro ha conseguenze significative sulla nostra capacità di concentrazione in quell’ambiente.
Un secondo suggerimento, su cui insisto molto nel libro, è invece più contro-intuitivo: si tratta dell’invito a concentrarsi su qualcosa, qualunque cosa sia. Vale a dire, se per qualche ragione non riusciamo a concentrarci su ciò su cui dovremmo (studio, lavoro, o quant’altro), molto meglio fare altro con piena concentrazione, anziché rimanere a vegetare sul compito originale. Stai studiando e ti accorgi di non averne affatto voglia? Se sei in grado di trovare motivazioni atte a renderti lo studio stesso appassionante, fallo e avrai risolto il problema: questo è l’esito ottimale. Ma, in caso contrario, smetti di studiare e dedicati pienamente a qualcosa per cui hai genuina passione: leggere un libro, uscire con gli amici, andare al cinema, giocare, fare sport, camminare nel bosco – di qualunque cosa si tratti, falla con gioia e trasporto, senza dedicare ombra di pensiero allo studio. Fallo, naturalmente, restando consapevole che prima o poi, probabilmente, dovrai comunque studiare; e, quando torni allo studio, mettici tutte le stesse energie che nel frattempo hai impegnato altrove, se ci riesci. Se invece ancora non ci riesci, non ci saresti riuscito comunque, neppure restando inchiodato a perdere tempo davanti ai libri per ore; il che significa che hai un grosso problema, nella misura in cui lo studio ti è necessario, ma è un problema che non è stato peggiorato dall’avere fatto bene qualcos’altro nel frattempo. Chi ritiene che soffrire senza costrutto per giorni, fissando i libri con ansia crescente e apprendimento nullo, sia comunque preferibile, ha in mente una visione moralistica dell’educazione, non pratica: pensa cioè che chi non riesce a concentrarsi sullo studio debba soffrire per espiare la sua colpa, ma non ha affatto a cuore il risultato effettivo in termini di apprendimento – che infatti rimane cospicuamente assente.
Abbracciare questa filosofia del “fai ciò che vuoi, ma fallo bene” induce una comprensibile titubanza: temiamo infatti che ciò si traduca in una catastrofica china sdrucciolevole, per cui la nostra concentrazione finirà per essere dedicata solo ad attività che ci interessano ma che non servono a niente, mentre non ce ne resterà alcuna per i compiti a cui dobbiamo necessariamente prestare attenzione, lavoro in primis. Nell’esempio del nostro ipotetico studente, chi ci garantisce che torni al momento opportuno sui libri, dopo averli abbandonati in favore di altre occupazioni? E se non ci tornasse mai più? Il sudore ci imperla la fronte, mentre immaginiamo generazioni di studenti perduti per sempre nel Paese dei Balocchi, destinati a mutarsi in mandrie di ciuchi raglianti…
Per superare simili visioni apocalittiche, occorre stabilire un ordine di priorità fra due aspetti della concentrazione: da un lato, concentrarsi su ciò che facciamo, qualunque cosa sia; dall’altro, scegliere le cose giuste su cui concentrarsi. L’atteggiamento predominante nella nostra società, tanto in ambito educativo che in contesti professionali, garantisce precedenza al secondo fattore: innanzitutto è essenziale che le persone si dedichino a certe attività socialmente prescritte, quali lo studio e il lavoro; in subordine, naturalmente si auspica che si concentrino nel compierle, ma farle svogliatamente è comunque preferibile a dedicarsi ad altro. Quello che sappiamo sui meccanismi della concentrazione, però, suggerisce di ribaltare tale ordine di priorità. Ricordiamoci del saggio Yoda alle prese con le incertezze di Luke Skywalker nell’uso della forza (L’impero colpisce ancora): “No! Provare no! Fare, o non fare. Non c’è provare”. La lezione è che provare è peggio sia di fare che di non fare: ovvero, meglio fare bene qualcos’altro, piuttosto che fare male ciò che ci si aspetta da noi. Si tratta di una conclusione contro-intuitiva, ma solo perché fa a pugni con il moralismo culturale di cui si è detto, secondo il quale è più importante assicurare la sofferenza del soggetto socialmente manchevole, piuttosto che consentirgli di contribuire meglio al bene comune.
Fabio Paglieri è primo ricercatore all’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR. È stato Presidente dell’Associazione Italiana di Scienze Cognitive (2017-2019), è membro del Direttivo dell’Associazione Italiana di Psicologia (AIP), chair della European Conference on Argumentation e dirige due riviste, Sistemi Intelligenti (Mulino) e Topoi (Springer). Si occupa di processi di ragionamento, presa di decisione e pratiche argomentative. Su questi temi ha pubblicato oltre 120 contributi scientifici su riviste e volumi, nonché quattro monografie: Saper aspettare (2014), La cura della ragione (2016), La disinformazione felice (2020) e Concentrarsi (2022).