
Quale fu il profilo del Verdi politico?
L’associazione Verdi/Risorgimento parrebbe talmente ovvia da non richiedere commento. In realtà non si tratta di un percorso lineare. Dati storici, intenti politici reali e ricezione, coeva e postuma, meritano un approfondimento. Verdi visse una prima, considerevole parte dell’esistenza nell’Italia della Restaurazione, suddito, appena nato, ancora del napoleonico Regno d’Italia; poi del ducato di Parma fino alla soglia dei cinquant’anni, quando rimise con i suoi conterranei i risultati del Plebiscito nelle mani di Vittorio Emanuele II. Una vasta porzione della carriera verdiana (dagli esordi a Un ballo in maschera) si svolse dunque nei domini asburgici di Milano, Venezia e Firenze, nella Roma papalina, nella Napoli borbonica. Prevedibilmente le prime opere verdiane, rappresentate a Milano, riportano dediche assai ossequiose dello statu quo: il Nabucco a «S.A.I. la Serenissima Arciduchessa Adelaide d’Austria», figlia dell’arciduca Ranieri, viceré del Regno Lombardo-Veneto, e I Lombardi alla prima crociata a Maria Luigia, fino al 1847 duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla. Probabilmente nella formazione politica del giovane Verdi è stata determinante la frequentazione degli ambienti milanesi, i cui orientamenti corrispondono all’evoluzione del pensiero verdiano: simpatia per il movimento democratico, in particolare mazziniano; insofferenza verso il governo austriaco; mobilitazione in prima persona attorno agli eventi insurrezionali del 1848; pragmatica apertura, col fallimento di questi ultimi, verso le istanze liberali e moderate incarnate dalla politica di Cavour e della Destra storica, con conseguente orientamento filosabaudo, plausibilmente dietro la considerazione realistica che si trattasse dell’unica via percorribile; adesione piena al nuovo stato unitario, con assunzione di responsabilità politiche nel nuovo assetto istituzionale, l’elezione a deputato nella prima consultazione elettorale, su pressione di Cavour, e, molto più tardi, la nomina a senatore, ormai con ben poche conseguenze per l’artista, profondamente deluso dall’operato dei governi dell’Italia unita.
Quali sono i fondamenti estetici e drammaturgici del teatro di Verdi?
Ciò che anima il compositore è in primo luogo una visione personale del teatro, che s’innesta e cresce sul tronco del melodramma rossiniano per trasformarlo dall’interno con una determinazione che condivide l’urgenza riformatrice di Wagner, seppure con tempi, metodi e finalità affatto incomparabili. Il teatro è per Verdi il luogo privilegiato in cui è possibile mostrare in atto il dispiegarsi della vasta fenomenologia di passioni e comportamenti umani, ed esibirne i risvolti più segreti e inconfessabili. A questo disvelamento dovrà tendere l’opera d’arte, lasciando in secondo piano la compiutezza estetica, della poesia così come della musica, che diventa così secondaria, ovvero funzionale all’altro, vero fine dell’opera. Musica da vedere innanzitutto sulla scena, dove s’incarna, nella curatissima convergenza dei diversi apporti di un sistema delicato e complesso, l’opera d’arte totale, cui contribuiscono parola, musica, recitazione e apparato visivo, retti tutti dal compositore che è il responsabile ultimo dell’effetto finale. Un’esigenza artistica che implica l’attribuzione al compositore-drammaturgo di un potere dittatoriale: nel 1869 Verdi scrisse a Du Locle che non avrebbe più composto per l’Opéra di Parigi perché «per me non è possibile un vero successo che scrivendo come sento io, libero da qualunque influenza […]. Conviene inoltre che gli artisti cantino non a loro modo, ma al mio; che le masse, che pur hanno molta capacità, avessero altrettanto buon volere; che infine tutto dipenda da me; che una volontà sola domini tutto: la mia. Ciò vi parrà un po’ tirannico… ed è forse vero; ma se l’opera è di getto, l’idea è una, e tutto deve concorrere a formare questo Uno». A cominciare dalla scelta del dramma da rappresentare: agli occhi del compositore per tutta la sua carriera punti di forza irrinunciabili d’un soggetto vincente sono la brevità, l’incalzare degli eventi scenici, la presenza di situazioni memorabili e l’intensità delle passioni in gioco. D’altra parte, scrivendo al librettista Salvadore Cammarano il 24 settembre 1848 gli aveva chiesto «un dramma breve di molto interesse, di molto movimento, di moltissima passione».
Cosa sappiamo del Verdi privato?
Soprattutto grazie al vasto epistolario, oltre 15.000 lettere, possiamo dipanare, sebbene non continuativamente, la rete dei rapporti privati dell’uomo Verdi, sovente scaturiti dall’attività professionale, ma sviluppatisi in legami tenaci e duraturi e in amicizie sincere: i rapporti dell’esordiente con le nobildonne milanesi, la frequentazione delle terme, in Italia e Francia (a Montecatini trascorrerà anche l’ultima estate, quella del 1900), le patologie di cui Verdi è afflitto nel periodo più intenso di attività produttiva, gli «anni di galera», le amicizie, come quelle con i coniugi Andrea e Clara Maffei, alla cui separazione fungerà da testimone, il sodalizio col benefattore e suocero Antonio Barezzi, ben oltre la prematura scomparsa della prima moglie Margherita, l’amore d’una vita per Giuseppina Strepponi, la seconda moglie, turbato momentaneamente dalla frequentazione del soprano Teresa Stolz, i rapporti con i librettisti, da Solera a Piave, da Cammarano a Boito, a diversi gradi di stima e amicizia, con l’unico allievo Emanuele Muzio, la tenerezza per il maltese bianco Loulou. La corrispondenza ci parla dell’altissima considerazione del valore dell’amicizia, dell’attenzione costante per l’aspetto economico della propria attività, della trepidazione per i fenomeni sociali attorno a sé (la crisi economica, l’emigrazione). I fatti ci dicono poi, oltre che della generosità con gli amici, della formidabile filantropia verdiana, che mise in atto imprese sempre più notevoli, dalla fondazione d’un Ospedale a Villanova d’Arda alla costituzione della Casa di riposo per musicisti a Milano, ancora oggi in attività, cui nel testamento destinò i proventi di tutti i diritti delle proprie opere.
Nel Suo libro Lei tratta diffusamente anche dei lavori non operistici di Giuseppe Verdi.
Verdi si dedicò quasi esclusivamente al teatro musicale. E tuttavia, attorno a questo impegno centrale si dispone la cornice d’una produzione sicuramente marginale, ma meritevole d’essere frequentata per ricostruire il percorso del compositore, ma anche per i valori estetici che esprime, in ambiti diversi dal teatro d’opera. Questa produzione si addensa ai due capi della vicenda verdiana, negli anni dell’apprendistato e della prima affermazione e in quelli della piena maturità, mentre nei trent’anni centrali, cioè la stagione più frenetica dell’operista, tra la Giovanna d’Arco e l’Aida, il compositore si concederà solo sporadicamente il lusso di licenziare lavori estranei alle scene, e sempre, con un paio di eccezioni, dall’entità e dall’impegno limitati. Il primo segmento di questa produzione si colloca negli anni di Busseto, un decennio concluso con la partenza definitiva di Verdi per Milano, alla vigilia del debutto operistico, e prosegue con la formazione e le prime esperienze professionali a Milano, dove il compositore si dedicherà a un genere di destinazione salottiera: la romanza da camera. Con gli anni Sessanta si fa strada un autentico interesse per la compagine sinfonico-corale affatto inedito nella produzione verdiana al di fuori delle scene teatrali, e su tutt’altro piano rispetto ai lavori giovanili per Busseto. Tale interesse, forse non a caso coevo ai grandi affreschi di popolo delle opere di quegli anni (La forza del destino, Don Carlos, Aida), raggiunge il culmine nella monumentale Messa da Requiem in memoria di Manzoni (1874) e si declina per due decenni, nei Quattro pezzi sacri e in altre composizioni sacre di dimensioni più ridotte: oltrepassando la chiusura della carriera operistica sarà la parola definitiva del mondo creativo verdiano.
Quando nasce e come si sviluppa il mito di Verdi?
Il mito di Verdi nasce sin dalla prima fase della carriera, quando la borghesia e gli intellettuali borghesi e aristocratici dell’Italia preunitaria trovarono nel compositore una profonda consonanza con le proprie aspirazioni ideali, sentimentali e politiche, in un Paese per il quale il melodramma rappresentava il surrogato d’un romanzo popolare che all’Italia mancava. La musica di Verdi è resa popolare, al di fuori delle assi dei teatri, dalle innumerevoli riduzioni e parafrasi ad uso privato, dalle bande, dai carillon dei campanili delle chiese, dagli organetti di barberia, dalle compagnie marionettistiche; diventa poi colonna sonora di molto cinema, muto e sonoro, con oltre duecento titoli che sfruttano soprattutto opere come La Traviata e Rigoletto. Ma Verdi appare anche tra le figurine del Vero estratto di carne Liebig, entra nella lingua poetica di Montale e Saba, all’altezza della sua morte è venerato come un’autorità morale indiscussa, tanto che il congedo dalla salma, a Milano nel 1901, sembrerà a Filippo Tommaso Marinetti il funerale «d’un dio», celebrato da una folla che accompagna alla tomba «il suo grande cuore sonoro». Nelle stesse settimane d’Annunzio ne detterà l’epitaffio cogliendo il sentimento di un’intera nazione: «Diede una voce alle speranze e ai lutti. / Pianse ed amò per tutti», mentre l’“Avanti!” ne lamentò la scomparsa come «la morte di un’idea, di un ciclo storico dell’Italia patriottica». Il Novecento ha visto contrapporsi il Verdi degli intellettuali e quello del pubblico, affermarsi clichés come la contrapposizione Verdi/Wagner, prendere avvio un approfondimento critico della complessità e del valore estetico del compositore a partire dalla Verdi-Renaissance degli anni Venti/Trenta, consolidatosi nella seconda parte del secolo, col cinquantenario della morte (1951), la fondazione nel 1959 dell’Istituto Nazionale di Studi Verdiani, l’avvio del progetto internazionale dell’edizione critica (1977). Gli appuntamenti dei centenari più recenti (2001, 2013) hanno contribuito con nuovi studi a ripensare l’immagine in movimento di un grande classico, un autore capace ancora oggi di trasmettere «moltissima passione».