
Questo è possibile perché la filosofia va alla ricerca della struttura essenziale o cifra eterna di una determinata questione, si tratti del dolore o della felicità, per cui un uomo che vive nel XXI secolo può rintracciare un senso familiare in un pensiero formulato nel XVI secolo o nel V secolo a. C. D’altra parte, se le ragioni storiche e sociali della sofferenza o della gioia mutano da un secolo all’altro, la condizione esistenziale di queste esperienze è sempre la stessa, sebbene poi ovviamente ciascuna la viva in modo differente a livello individuale. Proprio questa differenza individuale, però, è l’origine dell’interesse che un uomo può avere per la riflessione filosofica: la ricerca di un significato universale alla sua condizione particolare.
Muovendo da questa prospettiva, ho deciso di scrivere un libro che potesse rappresentare un punto di incontro tra l’esigenza personale di comprendere determinati momenti della nostra esistenza e le pagine in cui alcuni pensatori offrono una lettura filosofica di questi momenti. Senza dimenticare che anche questi pensatori sono stati uomini in carne ed ossa e, quindi, conoscevano anzitutto a livello individuale la condizione esistenziale di cui parlano in termini universali.
Quale rapporto esiste tra la vita e la filosofia?
Hegel scrisse una volta che la filosofia è il “pensiero del mondo”, io credo che questa espressione possa essere riformulata dicendo che la filosofia è il “pensiero della vita”. Intendo dire che il rapporto tra la vita e la filosofia è mediato dal pensiero, nel quale ciascuno di noi riflette sulla propria esistenza. Questo certo non significa che il mondo è pieno di filosofi, ma che la filosofia porta al livello più alto, quello dei concetti, la nostra relazione con la vita, a cui già quotidianamente ci rapportiamo attraverso il pensiero. Appena svegli la mattina, infatti, non facciamo subito qualcosa, ma pensiamo a quello che dobbiamo fare, fosse anche un’azione banale e routinaria come prepararsi la colazione o andare in bagno. Quello che vale per i primi minuti del risveglio, vale a maggior ragione per gli snodi fondamentali della nostra esistenza, come affrontare le difficoltà, la nascita di un figlio o le crisi di identità, per citare alcuni dei momenti esistenziali di cui parlo nel libro.
Per quanto questi e altri momenti abbiano una tale urgenza da chiamare inevitabilmente all’azione, quest’ultima è sempre mediata, anche se talvolta inconsapevolmente, dallo spazio della riflessione. La filosofia è quell’attività che amplia il più possibile questo spazio, facendone la forma stessa del rapporto con la vita. Questo non vuol dire, però, che relazionarsi alla vita con filosofia o, detto più semplicemente, vivere con filosofia significhi immobilizzarsi nel pensiero e precludersi qualsiasi azione; significa bensì agire sempre all’interno di uno spazio teoretico, fondando in qualche modo la propria azione sul concetto ovvero sulla filosofia come “pensiero della vita”.
È possibile interpretare alcune circostanze della vita riferendosi a concezioni e visioni del mondo elaborate e discusse dai filosofi?
È esattamente quello che ho cercato di fare con questo libro. Porrei l’accento proprio sull’interpretare o, ancor meglio, sul comprendere alcune circostanze della vita attraverso i pensieri dei filosofi. Interpretare e comprendere, infatti, non significano giustificare o accettare quello che ci accade, ma innanzitutto capirne la struttura di fondo, il senso costitutivo che poi può anche non piacere o essere persino detestabile.
Tuttavia, occorre tener presente che un concetto filosofico non ha mai una sola verità, come d’altra parte non ha infinite verità; piuttosto ha un nucleo veritativo che può esser letto secondo sfumature diverse, ed è proprio lì che intervengono l’interpretazione o la comprensione. L’esempio che mi viene subito in mente è il celebre frammento di Eraclito, “nello stesso fiume non si può entrare due volte”, che a seconda del punto di vista può significare sia che il fiume scorrendo cambia, sia che siamo noi a cambiare e quindi a modificare la nostra percezione del fiume. In entrambi i casi, il nucleo veritativo per cui la struttura della realtà è in costante divenire rimane lo stesso, però può essere compreso da prospettive differenti.
Come la filosofia, anche la vita ha un fondo di verità che determina quello che ci capita, ma ciascuno tende a privilegiare la comprensione di uno o l’altro aspetto di questa verità, talvolta a seconda delle convenienze, ma talvolta anche in base a una più autentica e sincera capacità di comprensione.
Con il libro ho voluto fare incontrare la vita e la filosofia proprio in questo punto, la comprensione delle cose, dando la possibilità al lettore di confrontarsi direttamente con un testo filosofico a partire da una determinata questione esistenziale.
Mi piace immaginare un lettore che, alla fine di un capitolo, non trova soddisfacente la mia interpretazione del testo filosofico ed elabora una comprensione personale di questo testo, scoprendone un senso a cui io stesso non avevo pensato o che non avevo colto, perché riferito alla sua relazione con la vita, che è necessariamente diversa dalla mia.
In quali circostanze, a Suo avviso, la «consolazione della filosofia» risulta più efficace?
Non sono sicuro che la filosofia debba o possa esercitare un’azione consolatoria. In un certo senso, ho scritto questo libro anche come reazione a diverse pubblicazioni recenti, che presentano la filosofia come il segreto per una vita felice o rimedio ai mali dell’esistenza. Non dico che il pensiero filosofico non sia in grado, in alcune circostanze, di aiutare le persone a stare meglio, ma potrebbe anche fare il contrario! Gennaro Sasso, che ho avuto la fortuna di seguire nei suoi ultimi anni di insegnamento alla Sapienza, una volta disse che la verità è un deserto, da cui quindi non ci si può certo aspettare di trarre qualcosa che soddisfi la nostra pur naturale esigenza di conforto rispetto ai problemi della vita. Senza condividere necessariamente una visione così arida della verità filosofica, credo comunque che l’uomo non debba cercare nella filosofia una fonte di consolazione, quanto di comprensione della realtà, ben sapendo però che c’è sempre qualcosa di questa realtà che ci sfugge e che non potremo mai comprendere pienamente.
Se poi questa comprensione riuscisse a svolgere anche una funzione consolatoria, tanto meglio, tuttavia non è questo il compito della filosofia rispetto all’esistenza, di cui cerca fondamentalmente di comprendere il senso. Anche qui, però, bisogna chiarire: se per “senso” intendiamo che tutto quello che succede nella vita è parte di un progetto o disegno divino, oppure può essere spiegato secondo una qualche visione del mondo, magari etica o politica, allora non credo che la filosofia abbia a che fare con questa nozione di senso. Se, invece, con “senso” si intende la logica interna delle cose, ovvero la ragione per cui le cose vanno in un modo e non in un altro, allora la filosofia può aiutare a sviluppare una determinata comprensione di quello che ci capita. Penso, ad esempio, alla dialettica di Hegel o alla dinamica dell’alterità di Lévinas, per citare due degli autori di cui parlo nel libro. Il fatto poi che questi pensieri possano avere uno sviluppo religioso, etico o politico, come tra l’altro è avvenuto, non significa che il loro nucleo originario non sia autenticamente filosofico, ossia basato sulla coerenza dei concetti che lo costituiscono. Proprio questa coerenza può essere la base per una comprensione del mondo, ma non per forza di una consolazione per i mali del mondo.
Quali riflessioni propone il Suo libro sul tema del dolore e della paura della morte?
Al dolore dedico un capitolo, in cui mi confronto con il pensiero di Schopenhauer e in particolare con un passo del suo capolavoro, Il mondo come volontà e rappresentazione, dove si legge che la prima condizione per affrontare il dolore è smettere di considerarlo come una casualità o un incidente, ma iniziare a vederlo come un elemento costitutivo e ineliminabile della nostra esistenza. Questo passaggio di comprensione del dolore, che è di natura essenzialmente intellettuale, non porta alla sua eliminazione dalla nostra vita, ma ci insegna a convivere con questa dimensione connaturata al nostro essere, a non considerarlo più come un ospite inatteso, ma come parte del tessuto esistenziale, carne della nostra carne, sangue del nostro sangue.
La paura della morte, invece, non è trattata in maniera tematica nel libro, se ne può però rinvenire una traccia nel capitolo dedicato a Marco Aurelio, l’imperatore filosofo che in un’ottica stoica vede la morte dal punto di vista della precarietà della vita. In questo senso, la morte non è qualcosa che dall’esterno interrompe la vita, ma è la possibilità intrinseca alla vita stessa, per cui la sua comparsa non impedisce all’esistenza di realizzarsi compiutamente, dal momento che qualunque esistenza, in quanto vissuta, è già compiuta. In qualche modo, dato che non c’è un momento buono per morire, tutti i momenti lo sono.
È questa una ragione sufficiente per non temere la morte? No, perché la paura è un’emozione primaria, fondamentale e quindi ineliminabile. Per questo non mi ha mai convinto il ragionamento epicureo, secondo cui quando c’è la morte non ci siamo noi, dal momento che della morte non possiamo avere un’esperienza sensibile. Per quanto anch’io abbia una visione materialistica della vita, credo che nessun ragionamento, per quanto logico e coerente, possa liberarci dalla paura istintiva di morire. Così come comprendere la natura del dolore non ci libera dal temere la sofferenza. In entrambi i casi, però, la filosofia può aiutarci a collocare queste esperienze, che ciascuno vive in modo intimo e quasi primitivo, all’interno di una struttura universale di significato, in cui osservarle in modo più lucido e distaccato. In questo senso, credo che Marco Aurelio sia un riferimento più fecondo di Epicuro, perché non pretende di liberarci dalla paura della morte, ma ci indica una strada per vivere con più serenità la nostra relazione quotidiana con la possibilità di morire.
Cos’è la felicità per un filosofo?
Rispondo con un’espressione che potrà suonare paradossale: la felicità è la fatica di vivere. Questa in sostanza è la risposta che do nel libro, dove parlo della felicità in relazione al celebre mito di Sisifo ripreso da Camus. Credo che la filosofia abbia qui una delle idee più coerenti della felicità, perché Camus non elabora un’idea della felicità contrapposta alla sofferenza o all’assurdo della sofferenza, al contrario: felice è colui che guarda in faccia la sofferenza in tutta la sua assurdità e se ne fa carico come ciò che gli appartiene.
Perché proprio questa sintesi di felicità e assurdo dovrebbe essere l’idea filosofica di felicità? L’assurdità della vita sembra contraddire l’idea stessa di felicità e tuttavia, come ha mostrato Hegel in quello che ritengo sia il contributo più prezioso del suo pensiero, la contraddizione è il tratto originario della realtà. La felicità non solo non è incompatibile con l’assurdità della sofferenza, ma è impensabile senza di essa.
Questo non significa che il filosofo è felice di soffrire, ma che non rinuncia alla felicità a causa della sofferenza, perché capisce che solo nella sofferenza si può essere felici, dal momento che di entrambe si nutre la nostra stessa umanità. È qui, per riprendere qualcosa di cui abbiamo già parlato, che la filosofia permette di rintracciare un senso nell’esistenza, un senso che può bensì apparire assurdo rispetto a ciò che istintivamente vorremmo dalla vita, ma che è invece del tutto coerente rispetto alla struttura originaria dell’esistenza: il senso di una contraddizione insanabile, ma non per questo meno vera, per quanto forse poco consolatoria.
Nicola Zippel è professore di Filosofia e Storia nei licei. Ha insegnato alla Sapienza di Roma e all’Orientale di Napoli