
In quali ambiti si svolse la missione di Albornoz?
I due ambiti nei quali si svolse la missione sono perfettamente riassunti nelle sue funzioni. Come legato papale in Italia si trovò a fronteggiare i Visconti di Milano, senz’altro superiori nei mezzi militari e forse anche nelle relazioni diplomatiche. Come vicario nello Stato della Chiesa di dedicò invece a un grandioso progetto, quello di riportare l’autorità papale in ogni sua città e territorio. Alla metà del Trecento il potere pontificio aveva toccato il punto più basso. I legati che si erano succeduti fino a quel momento avevano fallito e non pochi erano dovuti scappare per mettere in salvo la pelle. I Visconti avevano acquisito la signoria su Bologna, mentre nelle città della Romagna e delle Marche era tutto un pullulare di regimi signorili o di governi comunali ostili al papa, quando non in aperta rivolta. Albornoz procedette strategicamente dall’alto Lazio, all’Umbria, alle Marche e infine agì in Romagna e a Bologna, secondo un grado di crescente difficoltà. Ovunque riuscì a riportare le città all’obbedienza papale e fece anche costruire molte fortezze, intese non tanto come presìdi militari, ma come simboli eloquenti del potere papale. Non fu però soltanto una vicenda lastricata di allori. Volendo semplificare al massimo si può dire che la sfida sostenuta nelle città dello Stato della Chiesa fu vinta, mentre quella di arginare la potenza viscontea in Italia fu perduta. E ciò nonostante sul piano militare le truppe papali, mobilitate da Albornoz, avessero vinto due importanti battaglie, una alle porte di Bologna, nel 1361, l’altra presso Modena, due anni dopo. Dunque si potrebbe tracciare un bilancio in chiaroscuro: non saprei dire se Albornoz, alla fine della sua vita, fosse più soddisfatto per i successi registrati nello Stato pontificio o più addolorato per non essere riuscito a piegare il suo nemico giurato, Bernabò Visconti.
Qual era la sua personale visione sulla realtà italiana contemporanea?
Albornoz riuscì a calarsi prudentemente nella realtà storica del suo tempo, evitando di applicare alla frastagliata realtà politica italiana schemi validi per le monarchie europee nelle quali aveva svolto in passato un ruolo di primo piano. In Castiglia era stato Primate e Cancelliere del Regno, presso la curia papale aveva occupato l’importante ruolo di Penitenziere maggiore; era stato pure in missione presso il re di Francia. In Italia, e in particolare nelle terre della Chiesa, lo scenario era molto diverso: le città, pur fiaccate dalla peste del 1348, erano ancora assai vivaci politicamente e molti signori si erano impiantati sui governi comunali. Albornoz riuscì a comprendere che ogni città aveva un proprio assetto di potere e che dunque occorreva procedere con strumenti idonei per ciascuna di esse. Nel riportare l’autorità papale nelle città dello Stato della Chiesa procedette dapprima spezzare le reti di solidarietà fra i poteri più forti attraverso un’incessante attività diplomatica, per poi decidere se abbattere il nemico oppure se venire a patti con questo nel modo più vantaggioso possibile. Questo calcolo gli riuscì bene: Albornoz sottomise nell’alto Lazio Giovanni di Vico e riportò il controllo su Orvieto, Viterbo e altre città di quell’are; poté portare dalla sua parte i Malatesta di Rimini, che al suo arrivo erano riusciti a creare un vasto potentato su gran parte delle Marche; sconfisse duramente gli Ordelaffi, signori di Forlì e di Cesena; riuscì a estromettere definitivamente i Visconti dal controllo di Bologna, riportando un successo diplomatico e militare. Peraltro non si interessò di Roma: nel libro ho provato a formulare qualche ipotesi sui motivi per cui, in tanti anni di permanenza in Italia, non mise neppure piede nella città eterna: forse, nella sua visione delle cose, gli apparivano accettabili gli equilibri politici dell’Urbe, mentre erano più urgenti altre questioni. Poteva sentirsi un degno servitore del papa senza il bisogno di reclamare il primato di Roma.
Come si articolò la riorganizzazione dello Stato della Chiesa da lui promossa?
Nella tradizione storiografica Albornoz è considerato il secondo fondatore dello Stato della Chiesa, dopo Innocenzo III, che all’inizio del Duecento aveva dato un primo assetto al Patrimonio di S. Pietro. Nel mio libro dismetto ogni etichetta e definizione, evitando peraltro di incensare il personaggio di cui si scrive la biografia. Albornoz ebbe un profondo senso dello stato, ma non dobbiamo cadere in facili anacronismi: la sua idea non era certo quella di uno stato unitario, tipico dell’età moderna, ma di uno stato composito, nel quale città e corpi potevano sentirsi liberi di interagire entro i margini della fedeltà al potere papale. Così il libro vuole sconfessare la tradizione secondo cui Albornoz fosse un tenace oppositore dei tiranni, ossia dei signori cittadini, e un restauratore delle libertà comunali. In realtà alcuni signori, i Malatesta per primi, collaborarono attivamente al progetto di restaurazione dell’autorità papale incarnato da Albornoz. Ed è pur vero che alcune città paladine della tradizione comunale, come Perugia, non furono affatto nelle sue simpatie. Bologna fu sempre al centro delle sue passioni, soprattutto per il ruolo culturale della città, tanto che nel suo testamento volle che qui fosse eretto un Collegio destinato agli studenti iberici, un’istituzione ancora oggi in vita. Insomma, Albornoz aveva in mente uno Stato della Chiesa inteso come un mosaico di poteri fedeli al papa, abilmente e spericolatamente in equilibro. Ed è questo anche il motivo per cui dopo la sua morte, e soprattutto con la bufera dello Scisma d’Occidente, questo delicatissimo equilibrio a cui era riuscito a dar vita si infranse rapidamente.
Come furono rapporti fra Albornoz e i papi di Avignone?
Non furono sempre idilliaci. Tutt’altro. Si potrebbe addirittura affermare che il mancato appoggio incondizionato da parte dei papi fosse fra le cause dell’imperfetta realizzazione del suo ambizioso progetto. Quello con i papi francesi fu un rapporto oscillante: dapprima, nel 1353 Albornoz fu insignito da Innocenzo VI di poteri tanto ampi, come mai si erano visti in Italia. Poi però non mancarono occasioni nelle quali la sua condotta fu sconfessata. Ne 1357 le divergenze giunsero a un punto di rottura e il papa nominò l’abate cluniacense Androin de la Roche come nunzio della Santa sede, rimuovendo Albornoz dalle sue funzioni e rischiando di mandare all’aria quanto fino ad allora questi aveva faticosamente costruito. Albornoz ebbe la forza d’animo di tornare ad Avignone, pur deluso per la rimozione dal suo ufficio, ma pronto a retare fedele alla curia papale. Così, l’anno successivo fu reintegrato nella sua missione e poter far ritorno in Italia e riprendere le fila del suo progetto, laddove lo aveva lasciato. Successivamente con Urbano V andò ancora peggio. Il papa fu molto sensibile alle lusinghe di Bernabò Visconti, acerrimo nemico di Albornoz e dunque il cardinale si trovò paradossalmente a lottare contro un avversario che riusciva a far sentire la sua voce nella curia papale più di quanto potesse farlo lui stesso. Non dimentichiamo neppure che la curia papale era composta quasi esclusivamente da francesi e che anche nel collegio cardinalizio egli si trovava in minoranza. Insomma, Albornoz restò sempre fedele al papato e alla curia, ma le amarezze non gli furono risparmiate. Aggiungerei però che nel mancato appoggio dei papi non c’era nulla di personale: per tutto il Trecento la politica italiana dei pontefici avignonesi fu molto oscillante e incoerente, incapace di individuare una linea d’azione. Sotto questo punto di vista, si può allora valutare per converso la missione albornoziana come la più capace di ottenere un appoggio di lunga durata, rispetto a quella di molti altri legati.
In che modo la sua forte personalità si riflesse sul suo operato?
È difficile cogliere la personalità di un uomo pubblico del tardo medioevo, come fu Albornoz, perché possediamo soltanto testimonianze scritte filtrate da una consolidata pratica cancelleresca. Con questa consapevolezza, ho cercato però di cogliere i tratti personali del cardinale, che emergono attraverso le pieghe della documentazione. Mi pare che il suo punto di forza fosse stato quello di saper mediare e di affrontare ogni sfida in modo duttile. Nella storiografia la parola chiave che si associa generalmente alla missione italiana di Albornoz è quella di ‘pragmatismo’. Nel mio libro non ho smentito questa idea, ma ho cercato di evitare che fosse ridotta a uno slogan, per dimostrare quali soluzioni concrete, di volta in volta, Albornoz abbia saputo trovare nei diversi ambiti in cui si svolse la sua missione. Questa abilità di calarsi nella realtà dei suoi tempi segna una distanza dalle prese di posizione, che avevano caratterizzato il papato avignonese fino a poco tempo prima. E in questo si può dire che Albornoz, più che essere un epigono della teocrazia medievale, annuncia un’epoca che verrà, quella dell’osservazione critica della realtà ‘effettuale’, per dirla con Machiavelli. A mio modo di vedere ho trovato più appassionante l’Albornoz ‘moderno’, quasi fosse un civil servant dei papi di Avignone, rispetto alla tradizionale figura stereotipata del cardinale guerriero e del persecutore di tiranni. La sua forte personalità si dispiega in uno sguardo lucido, disincantato della realtà storica, uno sguardo che ha fanno di lui uno statista ante litteram.
Francesco Pirani è ricercatore in Storia medievale all’Università di Macerata. Si occupa di storia istituzionale, politica e sociale nel basso medioevo, concentrando le ricerche sulla morfologia del potere, sulla civiltà comunale e sullo Stato della Chiesa. Ha anche approfondito temi di storia della storiografia e di storia culturale, concentrando l’interesse sulle forme di rappresentazione del medioevo. Fra le sue pubblicazioni: Tiranni e città nello Stato della Chiesa. «Informatio super statu provincie Marchie Anconitane» (1341), Livi, Fermo 2012; Medievalismi nelle Marche. Percorsi storiografici dall’età moderna al Novecento, Livi, Fermo 2014; Le repubbliche marinare: archeologia di un’idea, in Medievalismi italiani (secoli XIX-XXI), a cura di T. di Carpegna Falconieri e R. Facchini, Gangemi, Roma 2018, pp. 131-148.